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11 marzo 2019

Un Campari con... Robert A. Sirico. "Il denaro ci corrompe?"

di Aurelio Porfiri
Sicuramente il denaro è uno degli argomenti di discussione preferiti in tutto il mondo, uno dei pochi che connette davvero persone di ogni razza e religione. Sappiamo molto bene che il denaro determina la ricchezza o la povertà di persone e paesi. Quindi anche per i cattolici c'è sempre una certa ambivalenza quando si parla di soldi. Ho voluto fare alcune domande su questo argomento a padre Robert A. Sirico, un sacerdote americano di origini italiane che ha studiato e scritto sul pericolo e le opportunità che il denaro può offrire. Padre Sirico è il fondatore dell'Acton Institute for the Study of Religion and Liberty, un'istituzione educativa e per la ricerca. Ma ho voluto chiedere al sacerdote anche di Donald Trump, il miliardario che è divenuto presidente degli Stati Uniti e che divide la nazione in modo netto come mai in precedenza. Cominciamo da qui.

Padre, qual è la sua opinione su Donald Trump?
Ho sentimenti contrastanti sul presidente Trump. Dal lato negativo, penso che sia un uomo privo di umiltà e sensibilità morale. A questo proposito, ho paura di cosa potrà essere, durante il suo incarico di presidente, del tessuto culturale complessivo della Repubblica americana, che anche prima di Trump ha avuto i suoi problemi al riguardo. Naturalmente, non avevo una grande considerazione dell'umiltà o della levatura morale di Mrs. Clinton, ma le debolezze di Trump sono più evidenti (e chissà, forse è da preferire). Sul lato positivo: penso che le nomine del presidente Trump alla magistratura (non solo la Corte suprema, ma anche in tutto il sistema giudiziario) siano state a dir poco eccellenti. Anche a questo proposito, ammiro la sua spavalderia di fronte alla feroce opposizione nel sostenere le sue nomine. Altrove nell'amministrazione vedo anche alcuni ottimi incarichi, in particolare il Segretario all'educazione con il quale (per essere pienamente trasparente ) sono in contatto personalmente.

Perché il vostro presidente sta affrontando un'opposizione così forte?
Parte dell'opposizione che affronta è provocata da lui stesso; lui è un provocatore newyorkese (e lo capisco perfettamente, essendo della stessa città). Non è un uomo riflessivo, quindi si espone alle critiche per le sue osservazioni estemporanee e imprecise. Tuttavia, mi piace quello che ha detto un osservatore: "Non prendere Trump alla lettera; prendilo simbolicamente". Se visto in questa luce, molto si spiega. Ma penso anche che sia di fronte all'opposizione di una sinistra seria che comincia a rendersi conto che a lui non importa della loro disapprovazione e che si sta muovendo per smantellare, come meglio può, gran parte dei sistemi controllati dallo stato che loro hanno messo in piedi lavorando per anni .

Pensa che una ragione possa essere che nella mente delle persone comuni un capitalista non può essere anche una persona che vive secondo una buona etica?
La gente potrebbe pensarlo, ma io non penso che sia necessariamente così; potrebbe essere vero parlando di Trump, ma ci sono molti uomini d'affari etici e decorosi negli Stati Uniti e in tutto il mondo. Per alcuni di loro è proprio il loro decoro che li tiene fuori dalla politica, e chi può biasimarli?

Pensa che qualcuno che è moralmente non irreprensibile (da un punto di vista cattolico) possa essere un buon leader anche da una prospettiva cattolica?
Prima di tutto, non credo che una persona debba essere un santo per essere un buon leader; in effetti, alcuni santi non sarebbero mai stati grandi leader o statisti. Potresti immaginare se San Giuseppe da Copertino o Madre Teresa fossero stati i presidenti di un paese importante? Dall'altro, hai avuto qualcuno come il francese François Michelin (che conoscevo personalmente), che penso possa un giorno essere canonizzato da santo. Come sai, era a capo di una delle grandi multinazionali dell'era moderna.

C'è un'emergenza migranti nel suo paese?
È comprensibile che molte più persone di quante  siamo in grado di accogliere vogliano emigrare negli Stati Uniti, a maggior ragione ora, con così tanti gravi problemi economici e politici. Quindi dobbiamo sviluppare un modo per gestire la situazione razionalmente a beneficio di quante più persone possibili, sia all'interno che all'esterno degli Stati Uniti. C’è un problema annoso negli Stati Uniti per le migrazioni verso il nostro paese, dovuto in gran parte alle relazioni conflittuali degli ultimi 20 anni tra i nostri partiti politici. In questo senso, sì, c'è un grosso problema negli Stati Uniti legato alla migrazione. Non sono sicuro, tuttavia, che chiamerei questa una "emergenza" nel senso che devono essere prese misure drastiche e immediate. C’è bisogno di essere riflessivi prudenti nel trovare una soluzione giusta e sana a questo problema urgente.

Nello stato dell'unione il presidente ha difeso il bambino non nato. Come ci poniamo al riguardo?
Ho pensato che le parole del presidente fossero stimolanti e incoraggianti. I bambini muoiono in gran numero ogni giorno negli Stati Uniti a causa delle nostre leggi ingiuste - che potrei aggiungere - la maggior parte degli americani non supporta. Le sue parole erano potenti e attese. Ma ad essere onesti (perché non sono un uomo di politica né un membro di un partito politico), vorrei che le parole del presidente venissero pronunciate dal suo cuore, basate su una profonda convinzione. Sospetto che fossero, piuttosto, le parole di un uomo che comprende la realtà politica che la maggior parte degli americani considera l'aborto disgustoso. Osservo però che posso accettare le sue azioni senza pensare alla sua sincerità se salveranno la vita dei bambini e delle madri che soffrono per gli aborti.

È il libero mercato la soluzione per tutti i problemi?
Sicuramente non è la soluzione per tutti i problemi. È solo la soluzione per problemi economici e non si propone di essere una soluzione completa ai bisogni umani. Questo perché i bisogni umani trascendono i bisogni economici; noi siamo più che esseri materiali. Abbiamo bisogni sociali e spirituali che non possono essere acquistati in nessun mercato. Un bambino che è dotato di tutto ciò di cui ha bisogno materialmente (cibo, vestiti, medicine, alloggio, ecc.) morirà se non è accudito e amato. D'altra parte, morirà anche un bambino che è molto amato ma i cui genitori non hanno accesso al lavoro per fornire le cose materiali per sostenere la vita biologica. La persona umana è costituita dalla "polvere della terra e dal soffio della vita" (per citare la Genesi); cioè siamo corporei e spirituali e non osiamo trascurare nessuna realtà.

Pensa che ci sia una buona visione cattolica sulla globalizzazione?
Non solo penso che ci sia una buona visione cattolica della globalizzazione, penso che il cattolicesimo abbia inventato la globalizzazione quando Gesù ha mandato i suoi apostoli in "tutto il mondo per predicare la buona novella". Con il suo stesso nome, il cattolicesimo è una religione universale; siamo globali. Il problema sorge quando questo termine viene impiegato in due modi contraddittori: uno economico (il che significa che le persone sono in grado di commerciare tra loro attraverso la divisione del lavoro); e l'altro essenzialmente politico, in base al quale i leader politici utilizzano regolamenti e manipolazioni di mercati e culture, estendendo il loro controllo attraverso le frontiere a livello internazionale. Il primo significato ha avuto effetti positivi (come è facilmente dimostrabile) e quest'ultimo invece è stato negativo.

I cattolici hanno una relazione ambivalente con il denaro. Qual è una buona soluzione a questo problema?
La soluzione a questa ambivalenza è che i cattolici leggano la loro tradizione, in particolare i teologi scolastici della Scuola di Salamanca nella metà del XVI secolo. Prima di Adam Smith, questi erano i fondatori della scienza moderna dell'economia del libero mercato. È frustrante che così tante brave persone, inclusi i teologi e la gerarchia, siano semplicemente ignoranti dei loro scritti e di come l'economia liberale (giustamente compresa) sia radicata nella tradizione cattolica.

"È più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno dei cieli". Può offrire la sua interpretazione di questo passaggio?
Ricevo questa domanda più di ogni altra singola domanda e chiedo sempre a chi me la fa se sa come finisce il dialogo nel vangelo. Quando Gesù dice questa frase ai suoi discepoli, loro rispondono chiedendo: "Allora chi può entrare nel regno di Dio?" E Gesù dice: "All’uomo è impossibile. Ma non a Dio. A Dio tutte le cose sono possibili". Il pericolo della ricchezza è il pericolo dell’opportunità e della libertà; come le nostre opportunità, le nostre opzioni e la nostra libertà si espandono, così la possibilità di usarle e potremmo optare per le cose sbagliate o usare la nostra libertà per ciò che ci distrugge, piuttosto che per ciò che ci dà la vita. Questa non è una condanna della ricchezza o della prosperità, come dimostra chiaramente l'insegnamento costante della Chiesa. Sant'Agostino ha riassunto bene quando ha detto: "Lazzaro non era nel seno di Abramo perché era povero, ma perché era umile. E il ricco non era nelle fiamme dell'inferno perché era ricco, ma perché era orgoglioso".


 

12 luglio 2017

Stupirsi per sopravvivere o vivere per stupirsi ancora?

(O IL DIRITTO PORTA DRITTI AI DIRITTI?)

«В Правде нет известий и в Известиях нет правды» 
«Nella Verità non ci sono notizie e nelle Notizie non c'è verità»
(Detto popolare russo intorno ai due giornali “Pravda” e “Izvestija”)

di Matteo Donadoni

Stupito. Questi ultimi giorni sono decisamente caratterizzati dallo stupore. Sono stupito del fatto che tutto sommato me la cavo ancora nella fenomenologia di quel gioco inventato dagli americani - e rimasto sempre come il matrimonio cattolico secondo i kasperiti: un ideale “sulla carta” – e che tutti chiamano basket. Sono stupito di quanto sia difficile ormai trovare un prete cattolico per noi vecchi ragazzi di provincia, che ogni tanto desidereremmo magari anche confessare i nostri peccati. Pare infatti che il demonio ci abbia soffocati nel caldo che gronda negli occhi meno che nel dubbio bruciante che il confessore di turno sia ortodosso.

Che Bergoglio avrebbe messo il card. Müller da parte a guardarsi la dieresi, come i vecchi il cantiere, si sapeva. Sono stupito però della mancata nomina di Mons. Bruno Forte a Prefetto della CDF, il fatto denota una sottile quanto felina abilità politica del Vescovo della fine del mondo: ci costringe con astuzia a seguirlo in labirintiche proiezioni del reale fino alla completa confusione mentale. Personalmente, devo ammettere, l’ho sottovalutato. D’altra parte il monsignore è forte nell’abbozzare gli abbozzi che poi il Potere interpreterà senza esplicitare troppo («tu fai in modo che ci siano le premesse, poi le conclusioni le trarrò io») o con una semplice nota a piè di pagina. O magari con un pensierino delegato all’uccellino di Twitter, che svolazza senza saper decidere su quale albero nidificare. Come nel disperato caso del piccolo Charlie Gard. E non possiamo fare a meno di notare quanto sia diverso, invece, l’atteggiamento della Chiesa ortodossa (russa) che, per bocca del Patriarca e Metropolita Hilarion, ha definito la faccenda non certo in termini di bonario ecclesialese: «Una decisione mostruosa da parte del Tribunale dei diritti umani che dimostra la profondissima crisi del concetto di protezione dei diritti umani. Oggi il diritto alla vita porta dritto al diritto a morire». Arrivando a denunciarla come «sadismo nascosto dai toni umanitari».

Tuttavia, mentre, sempre stupito (e pago della doppia vittoria cestistica di ieri sera), sorseggiavo un mint julep ghiacciato, un pensiero mi ha scosso come un tuono nel temporale estivo: ora che tutte le risorse sono bloccate alla frontiera italiana, chi mai pagherà le pensioni ai poveri Austro-Ungarici già orfani del Kaiser? Roba che neanche il compianto Navarro Valls quando faceva il torero si sarebbe potuto aspettare.
Così stamattina, non proprio di buon mattino, mentre me ne stavo seduto al bar con disprezzo di quanti bevono il caffè in piedi, ho cercato di scacciare quel pensiero tremendo con un cornetto ai frutti di bosco davanti a un espresso e a “la Verità”. Ho fatto bene.

La verità l’aveva scritta Ettore Gotti Tedeschi con l’articolo: “La chiesa di Bergoglio non passa l’esame di economia”. Problema filosofico. Nel pezzo si individua, con una lucidità argentina come un fischio di arbitro, l’errore teologico più che economico della neochiesa: su temi di lavoro e denaro le uscite del pontificato ricalcano ideologie estranee alla Chiesa, e cioè: marxismo (ancora?) e nichilismo. Non si tratta di estrapolare l’ermeneutica di un pontificato più ambiguo che complesso dalle sue estemporanee considerazioni socioeconomiche, ma di fare alcune riflessioni utili al popolo cattolico.

Quindi, stupito del fatto che la Chiesa divulghi tanto cripticamente le teorie di nemici della Chiesa, come Karl Marx e Friedrich Nietzsche, quanto foraggi le campagne della Clinton, cito Gotti Tedeschi: «Marx, come Ludwig Feuerbach, era convinto che la religione alienasse l’uomo, impedendogli di realizzarsi. L’uomo andava perciò liberato dal bisogno di religione, reazione alla miseria materiale. […] per Marx è la miseria materiale che provoca alienazione e la miseria morale». Marx, come è noto, disprezzava la religione, oppio dei popoli, strano che tanti religiosi non abbiano avuto voglia di considerare questo fatto.

Anche Nietzsche, dovendo sostituire ogni vero valore con i nuovi valori del superuomo, si trovò la Chiesa fra i piedi. Per cui «la neoteologia doveva arrivare a esaltare solo i poveri e gli sventurati, sostituendo il peccato originale con l’inequità, incoraggiando in tal modo la Chiesa a occuparsi di miseria materiale più che di miseria morale, ben conscio che se la Chiesa predica come prima verità la lotta alla povertà, potrebbe arrivare a rinunciare alla verità». E non è forse questo l’ospedale da campo di oggi che, curando i feriti, cerca allo stesso tempo di fare in modo che i sani volenterosi di combattere si feriscano ancor prima di scendere in campo? Che miseria. Dato che non si possono curare i feriti facendo loro credere semplicemente che i sani non esistano, ecco che si escogita la trovata di ferire tutti per esser finalmente tutti uguali e bisognosi della santamente premurosa infermeria universale.

Dunque apparentemente Marx e Nietzsche sostengono la stessa cosa in materia economica, invece hanno lo stesso fine filosofico: eliminare Dio. Marx ribaltando le condizioni socioeconomiche dell’uomo (leggi povero) affinché, secondo l’idea bacata del materialismo ateo, non abbia bisogno di inventarsi un Dio, eliminando di conseguenza della Chiesa, ormai entità superflua. Nietzsche, invece, pretenderebbe di uccidere il Dio cristiano (in special modo e con soddisfazione) svuotando il significato spirituale e metafisico dell’opera della Chiesa, per farla diventare un operatore socioeconomico intramondano. Come? Tramite la santificazione del povero materiale in vece del povero in spirito. E indovinate chi è l’ultimo personaggio in ordine di tempo ad aver detto che sono i poveri il corpo di Cristo, sottintendendo, nella migliore delle ipotesi, evidentemente, che tutti gli altri, ricchi epuloni generalizzati, non lo siano?

Ora, facendo nostro il pensiero dell’economista cattolico, dato che la Chiesa cattolica ha sempre sostenuto e insegnato che non è vero che basta risolvere i problemi economici delle persone perché si risolva ipso facto il problema morale, ma che è il male morale a generare la povertà materiale, è evidente che qualcosa non va. Per quanto sarebbe necessario distribuire meglio i mezzi di produzione, non è la ripartizione delle risorse economiche a creare la miseria, ma la miseria a creare l’inequità.

Servirebbe una precisazione. La miseria non è povertà. Esiste una dignità nella povertà, si può esser poveri senza essere dei miserabili e viceversa. La miseria morale è il male antico che può essere sanato solo dal Corpo Eucaristico di Cristo Redentore.

Ma per cominciare dobbiamo dire forte che il popolo di Dio non ha per maestro lo gnostico Pilato del “QUID EST VERITAS?”(Gv 18,38), ma il Cristo “EGO SUM VERITAS” (Gv 14,6). Dobbiamo insegnare che la verità non è mercanzia, non è soggetta all’arbitrio della forza, né al criterio dossologico della contabilità della maggioranza democratica.
Chi di Правда ferisce, di pravda perisce, si vorrebbe dire scherzosamente ai relativisti, ma il dramma è che se un teologo cade in un’inversione teleologica e nella confusione delle cause con gli effetti, vuol dire che non ha «chiaro il senso della verità che deve annunciare», perché «la teologia si fonda sulla filosofia, e se la filosofia scelta corrompe i fondamenti della teologia, che cosa si insegnerà nei seminari?».

E l’utilizzo del tempo verbale, insieme all’intero quesito, è altrettanto tristemente retorico quanto il “passi” in NBA.
Tutto sommato, a ben vedere, il problema economico, essendo l’oikonomia una scienza umana, quanto il problema teologico, è sempre un problema innanzitutto filosofico. Si tratta di abbandonare le presuntuose metafisiche del nulla per tornare a concepire l’essere (e l’Essere) in senso intensivo, più forte di una stoppata, forte come la verità di cui è presupposto, ma questo è un altro discorso.
Non so se continuare a stupirmi per sopravvivere o vivere abbastanza a lungo per vedere se ci sarà ogni volta ancora da stupirsi. Così, come ad ogni tiro da tre messo a segno da Stephen Curry.

 

08 luglio 2017

Il valore santificante di una buona economia


di Francesco Arnaldi

Quando studiavo economia, c’era una battuta ricorrente che girava tra amici. Faceva pressappoco così: “Chi è andato a studiare filosofia, ha la passione per il sapere. Chi è andato a studiare fisica, ha la passione per la scienza. Chi è andato a studiare economia, ha la passione dei soldi”. Ironia a parte, mi è capitato spesso di dover rispondere alla domanda sul perché mi piacesse tanto l’economia, ed ogni volta che mi ponevano tale domanda rilevavo una sorta di diffidenza verso la materia che stavo studiando. È come se l’economia sia vista un po’ con diffidenza al giorno d’oggi, come un qualcosa di losco di cui ci si occupa solo perché non se ne può fare a meno. Anche la figura dell’economista è vista un po’ come il pubblicano di un tempo, una specie di san Matteo ma prima dell’incontro con Gesù. In ambito cattolico questa cosa è a volte drammaticamente accentuata, soprattutto in quegli ambienti dove si fa strada facilmente un pauperismo semplicistico che vede nei soldi e nella ricchezza qualcosa di sporco e di cattivo in sé, quasi a rimpiangere i bei tempi del baratto in cui si scambiavano pesci per carote.
Ma perché, dunque, a un cattolico dovrebbe interessare l’economia? Lasciate che vi spieghi perché interessa a me. L’economia si può dire che nasca nella Genesi: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra» (Gen 1,28). Creando l’uomo a sua immagine e somiglianza, infatti, Dio gli dà anche il compito di prendersi cura del creato, di “soggiogare” la creazione affinché sia ordinata ad aiutare l’uomo nella sua ricerca della santità. Questo possiamo dire essere il ruolo dell’economia: la gestione della creazione secondo il piano di Dio. Si tratta quindi di prendersi cura dell’uomo nel suo aspetto più materiale; ambito ovviamente meno importante di quello spirituale ma comunque fondamentale. Sta infatti al genio dell’uomo, all’inventiva e alle capacità donategli da Dio, il saper trasformare un brullo e incolto appezzamento di terra in un campo che dia frutto.
Naturalmente, le cose sono molto cambiate nell’ambito economico da quando questo compito consisteva unicamente nel coltivare campi e pescare pesci, ma la sua vocazione non cambia. È compito dell’economia gestire le risorse, le ricchezze, i beni materiali dell’uomo affinché tutto sia ordinato secondo quanto disposto da Dio fin dal principio.
A leggere queste frasi paragonandole con il mondo attuale dell’economia probabilmente viene da sorridere. Nello scorso secolo abbiamo infatti visto contrapposte due grandi distorsioni economiche che hanno tradito questa vocazione: il comunismo e il consumismo. Partendo dal concetto che l’uomo si esaurisce unicamente nella sua dimensione materiale, queste due ideologie hanno distorto la realtà piegandola ai propri scopi.
Di cosa abbiamo bisogno quindi? Abbiamo bisogno di riscoprire il valore santificante dell’economia. Oggi in tanti hanno gioco facile nello sparare a zero contro il sistema economico, colpevole di essere ormai lontano dalle persone e dai loro reali bisogni. Se questo è certamente vero, non si può arrivare alla completa demonizzazione del capitale e del risparmio, colpevolizzando i ricchi per il solo fatto di esserlo e chiedendo a gran voce vaghi interventi da parte dello Stato affinché in qualche modo sistemi le cose.
Da parte di tutti ci vorrebbe una riflessione sulla storia del nostro sistema economico, per capire cosa ci ha portati al benessere di cui godiamo oggi. Senza il terreno culturale del cristianesimo non sarebbe stato possibile infatti alcuno sviluppo economico come quello che abbiamo avuto, e questo farebbero bene a ricordarlo anche coloro che incolpano l’Occidente per tutta la povertà presente nel mondo. Non siamo diventati l’angolo del globo più ricco e sviluppato per pura fortuna o per chissà quali comportamenti scorretti: lo siamo diventati perché il cristianesimo si è innestato nella cultura greco – romana, creando un humus che nel corso dei secoli ha formato le coscienze di un popolo che ha sempre guardato alla sua dimensione spirituale. Così facendo, ha saputo ordinare tutte le sue arti al vero bene, economia compresa. Se si vuol capire la crisi, se si vuol capire come uscirne, se si vuol capire come aiutare le popolazioni povere del mondo a fare quello scatto in più che può portare anche a loro il benessere di cui hanno bisogno, c’è un solo modo: l’economia deve riscoprire il suo ruolo primario, ovvero la gestione del creato secondo il piano di Dio per la salvezza dell’uomo.

 

20 maggio 2017

San Bernardino da Siena, il predicatore e l'economista


di Alfredo Incollingo

Se si pensa ai frati predicatori, ci vengono in mente uomini devoti che annunciano alla popolazione le verità del Vangelo. Abbiamo l'immagine di frati moralisti, dediti a biasimare la licenziosità pubblica; i più coraggiosi arrivarono a instaurare teocrazie e a incitare i fedeli a commettere atti violenti in nome della morale più ferrea. I frati predicatori erano altresì uomini colti, intelligenti e sensibili al loro tempo. Pensiamo a San Domenico di Guzman e ai suoi confratelli e, perché no, al francescano San Bernardino da Siena. L'Ordine di San Francesco era da tempo impegnato nella lotta all'usura, alla ricerca di un “giusto mezzo” per riformare l'economia: i primi bagliori del capitalismo moderno già mostravano quei mali sociali che si svilupparono negli ultimi due secoli. Il problema dell'usura era una piaga sociale che aveva gettato sul lastrico migliaia di famiglia e aveva arricchito spietati “mercanti di denaro”. Un predicatore deve essere attento alla sua realtà storica per comprendere il malessere che spinge la popolazione a seguire pericolose eresie. San Bernardino comprese la minaccia che incombeva non solo sui patrimoni, ma anche sulle anime dei fedeli, se si facevano seguaci di Mammona. Era fondamentale lottare contro l'usura e dare un senso cristiano all'economia: solo così era possibile assicurare la salvezza tramite un uso corretto della proprietà privata e del lavoro. Non a caso il santo senese è considerato il primo teologo cattolico ad aver scritto un'intera opera sul tema, “Sui contratti e l'usura”. E' una raccolta di prediche contro l'usura, sulla difesa della proprietà privata, dove si cerca di trovare un'etica economica cristiana. Il lavoro è benedetto da Dio, quello onesto e dignitoso. Se un mercante svolge il suo commercio con rettitudine, può portare utili servizi alla società: ripiana la scarsità di beni, può risolvere carestie e produrre beni utili per tutti. L'imprenditore onesto si denota da quattro virtù: efficienza, responsabilità, laboriosità e assunzione del rischio. Oltre alla purezza d'animo, chi ha questi pregi, ottiene lauti guadagni. Allo stesso modo la proprietà privata è un mezzo per il miglioramento dell'intera società, se messa al servizio della collettività e non solo per il proprio guadagno. Il realismo cattolico portava San Bernardino a considerare indispensabile la materia economica per la salvezza delle anime. Comprese che facilmente l'uomo poteva essere traviato dalle ricchezze e quanto fosse necessaria una via mediana per poter gestire al meglio il denaro. I tempi erano cambiati e bisognava mantenere viva la tradizione e la giustizia nonostante la moneta e i commerci non fossero più considerati lo “sterco del diavolo”. Queste premesse sono indispensabili per capire la sua lotta all'usura e a quei nuovi ricchi che avevano tratto ingenti profitti con i prestiti a tassi esorbitanti. Nel 1425 San Bernardino predicò tutti i giorni per sette settimane a Siena contro gli usurai e contro le case da gioco, che causavano ingenti problemi di ordine pubblico. Per reazione questi influenti ambienti riuscirono ad intentare un processo per eresia che si svolse a Roma nel 1427, risolvendosi in una piena assoluzione. Papa Martino V, colpito dalla sua eloquenza e dalle sue idee, volle San Bernardino presso di sé, ma il santo preferì ritornare in Toscana.

 

06 marzo 2015

Giù le mani dalle Popolari



di Alessio Calò

In tempi di grandi cambiamenti, nemmeno istituzioni secolari come le banche popolari e cooperative riescono a resistere agli assalti riformatori. Il consiglio dei ministri del 20 gennaio ha approvato infatti il decreto legge che prevede, entro i prossimi 18 mesi, la trasformazione in società per azioni delle banche popolari di grandi dimensioni (oltre gli 8 miliardi di attivo); nelle scorse settimane il Governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco ed il capo della Vigilanza Carmelo Barbagallo in due diversi interventi hanno sollecitato le Banche di Credito Cooperativo a migliorare il proprio assetto organizzativo, mediante l'adozione di modelli europei che consentano di ottenere una maggiore solidità ed efficienza; martedì 17 febbraio il Direttore della medesima istituzione, Salvatore Rossi, ha illustrato il succitato decreto alla Camera dei Deputati, elogiando la bontà dell'iniziativa. Due economisti in un editoriale sul Corriere della Sera hanno addirittura suggerito al premier di avvalersi del voto di fiducia per far passare il decreto.
Ieri si è votato in commissione, e pare che il governo voglia andare avanti per la sua strada.

Vedremo invece come questa spinta al cambiamento possa rappresentare un serio problema per il sistema economico italiano, al di là dei facili entusiasmi.

In Italia esistono due tipologie giuridiche di banca, che sottendono due diverse concezioni dell'economia: le società per azioni e le cooperative. Le società per azioni – spa – sono società a scopo di lucro (puntano cioè ad aumentare il valore delle azioni e degli utili distribuiti, piuttosto che il credito all'economia), mentre le cooperative hanno uno scopo mutualistico (erogare credito ai soci, sostenere il territorio, creare occupazione); un'altra differenza riguarda il coinvolgimento nella vita dell'azienda: nelle cooperative i soci contano per testa e non per numero di azioni, ed esistono dei particolari requisiti per diventare socio (per esempio il beneplacito dei soci già esistenti), data l'importanza dell'elemento personale all'interno del mondo cooperativo; un'altra questione riguarda l'utile prodotto, che nelle cooperative deve essere parzialmente destinato a riserva oppure ad attività sociali, e solo marginalmente distribuibile ai soci, mentre nelle spa può essere facilmente monetizzabile dagli azionisti, che possono in qualunque momento vendere le azioni.

Per quanto riguarda i numeri, la cooperazione rappresenta il 40 per cento del credito italiano, e fra il 2010 e il 2013 essa ha erogato 6,3 miliardi di euro in più rispetto al triennio precedente, a fronte di una contrazione del resto del sistema bancario pari a 52 miliardi: detto in altri termini, il supporto che è mancato da parte delle banche a scopo di lucro è stato parzialmente offerto dalle cooperative, pagando questa scelta con l'aumento delle perdite su crediti, che hanno colpito il loro patrimonio.

Ora, toccando la riforma sia interessi politici di un certo peso che la libertà d'impresa, costituzionalmente tutelata, presentiamo qualche critica nel metodo e nel merito, visto anche il preoccupante tacito assenso della stragrande maggioranza dei media e dell'accademia italiani (ringraziando invece i contributi dei professori Leonardo Becchetti, Stefano Zamagni e Giulio Sapelli, fra gli altri).

Per quanto riguarda il metodo, sorprende che il segretario di un partito che si definisce democratico decida di avvalersi dello strumento del decreto legge per una riforma così delicata, senza consultare prima le associazioni di categoria né la Banca d'Italia (intervenuta solo ex post); pare piuttosto che il presidente del consiglio sia più ricettivo alle indicazioni delle istituzioni europee (Commissione e Banca Centrale) e internazionali (come il Fondo Monetario Internazionale). Sicuramente vi è stato un problema di incapacità di riforma da parte delle associazioni bancarie (sono venti anni che si parla di riforma delle Popolari e degli aggiustamenti sono necessari), ma questo non può permettere l'esclusione dei corpi intermedi dalla partecipazione e dal coinvolgimento democratico (così come è già successo ai sindacati in occasione del Jobs Act), a scapito della sussidiarietà e del pluralismo economico. Inoltre, il decreto andrebbe ad alterare il meccanismo selettivo del mercato (che premia chi riesce a sopravvivere al gioco della concorrenza) e a calpestare la libertà di auto-organizzazione dei corpi sociali, con una spinta uniformista che metterebbe in pericolo tutto ciò che non si allinea al diktat europeo, cancellando culture e istituzioni secolari con un tratto di penna.

Passiamo ora alle critiche sul merito del provvedimento. L'obiettivo che il governo intende perseguire attraverso questo decreto è quello di “garantire che la liquidità disponibile si trasformi in credito a famiglie e imprese e favorire la disponibilità di servizi migliori e prezzi più contenuti”, anche se è chiaro che questo sia un obiettivo secondario rispetto a quello della solidità patrimoniale degli intermediari finanziari.
Per quanto riguarda l'obiettivo dell'esecutivo, possiamo affermare con certezza l'inesistenza di evidenze empiriche che dimostrano che l'assetto cooperativo delle popolari freni o renda più costoso il credito. Anzi, l'aumento della concentrazione del mercato del credito, che aumenta il rischio sistemico (ovvero che le crisi delle banche “too big to fail” diventino degli tsunami per il sistema economico) e diminuisce la concorrenza nell'erogazione dei servizi, non avrebbe affatto delle ricadute positive sull'economia italiana, caratterizzata dalla presenza di piccole e medie imprese che necessitano di interlocutori a loro vicini. Tra l'altro, i risultati dell'AQR, le recenti “ispezioni europee”, i cui risultati sono stati diffusi a inizio novembre, non hanno mostrato grandi differenze tra le banche italiane. E anche le recenti notizie di cronaca pare che non stiano facendo sconti a nessuno.

Tornando all'obiettivo della solidità patrimoniale, il provvedimento permetterebbe alle istituzioni estere di acquisire le azioni delle neo-trasformate banche (scenario gradito agli operatori di borsa, visto l'aumento dei titoli azionari e le recenti uscite delle agenzie di rating) e quindi ripatrimonializzarle, con l'effetto collaterale di scardinare i blocchi di potere e far ripartire il credito all'economia. Qui però ci possiamo chiedere se effettivamente la trasformazione in società per azioni sia l'unico modo per risolvere questi problemi: non è infatti vero che l'ingresso di nuovi soci tutelerà dalla comparsa di nuovi blocchi di potere (sono dinamiche che riguardano anche banche non cooperative), né che le future banche, una volta controllate da istituzioni estere, manterranno e investiranno i capitali in Italia (li utilizzeranno piuttosto con la logica della massimizzazione del profitto), né che il credito ripartirà, perché bisogna creare le condizioni di sistema affinché le imprese italiane ritornino ad investire. Per quanto riguarda la difficoltà intrinseca di aumentare il patrimonio delle banche cooperative, è vero che la natura comunitaria e la forma giuridica non permette molto facilmente la ricapitalizzazione delle banche, ma non è impossibile, visto che tutte le maggiori banche popolari hanno raccolto i capitali necessari nel corso dell'ultimo anno e mezzo (a differenza di altre banche che, non trovando nessuno disposto a prendersele, sono state sostanzialmente nazionalizzate). Infine, la questione non è nemmeno quella della grandezza delle popolari e della conseguente incapacità a sostenere il territorio, visto che, come ricordato sopra, è stato l'intervento delle cooperative che ha sostenuto l'economia nel momento in cui le banche efficienti tiravano i remi in barca, ed è proprio questo sostegno al territorio che ha colpito il patrimonio delle banche cooperative.

Sono anni che le succitate istituzioni internazionali (e i loro burattini) ci spolpano, attaccando le nostre forme di democrazia economica, imponendoci una fallimentare moneta comune, costringendoci a riforme economiche a perdere. Sarebbe ora di svegliarsi.
 

12 agosto 2014

Le balle degli "intraprendenti" liberali pro-euro

di Marco Mancini

Tra i fenomeni che ci capita di osservare nella variegata fauna del mondo politico-culturale, quello dei liberali pro-euro è sicuramente uno dei più stravaganti. Si tratta di quella categoria umana che, ossessionata dal terrore che lo Stato “stampi moneta” per finanziare la demoniaca “spesa pubblica improduttiva” e convinta da Milton Friedman che tutto questo possa generare la terribile e pericolosa “inflazione”, preferisce non solo affidare le chiavi della politica monetaria ai burocrati di Francoforte piuttosto che ai propri rappresentanti eletti, ma soprattutto accetta di buon grado che il prezzo della moneta, che come tutti i prezzi dovrebbe liberamente rispondere alla legge della domanda e dell’offerta, sia invece “amministrato” e fissato per decreto in pieno stile sovietico. Insomma, per difendere il portafoglio si può anche rinunciare ai principi del liberalismo. Chiaro però che, quando da “liberali” ci si trova a difendere l’irresponsabilità del potere di un cervellone burocratico decisamente lontano dai cittadini e un sistema di prezzi amministrati, si incorra in qualche contraddizione, che i “libberali de noantri”, volenti o nolenti, sono costretti a superare nel più classico dei modi, ovvero attraverso la menzogna e la disinformazione.
 

27 marzo 2014

Euro: a Ballarò va in onda la disinformazione di regime

di Marco Mancini

L’altra sera ho commesso il madornale errore di sintonizzare il televisore su Raitre, per seguire “Ballarò”. Il fatto che Floris avesse invitato ancora una volta i soliti amiconi (il repubblicone Giannini, il vicepresidente di Confindustria Regina, l’economista Quadrio Curzio, etc.) avrebbe dovuto mettermi sull’avviso, ma visto che si parlava di euro, peraltro all’indomani della buona affermazione del Front National alle amministrative francesi, ho pensato che ne valesse la pena. Ovviamente mi sbagliavo.
 

07 dicembre 2013

Il cattolico Fazio, vittima sacrificale dei poteri forti

di Marco Mancini

Assolto, perché il fatto non sussiste. Termina così, con un’assoluzione piena, il processo a carico dell’ex Governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio per la vicenda Unipol-BNL.
Ricordate? Era il 2005 e il “Giornale” pubblicò una serie di intercettazioni telefoniche che mostravano, tra l’altro, il coinvolgimento politico di alcuni esponenti dei Democratici di sinistra (in particolare, l’allora segretario Piero Fassino) nella tentata scalata dell’Unipol, la compagnia di assicurazioni delle coop rosse, alla Banca Nazionale del Lavoro. Il cattolicissimo Fazio, Governatore di Bankitalia, sembrava aver avallato tale tentativo, coerente con il suo disegno volto a difendere l’italianità del sistema bancario del Belpaese. Nello stesso periodo, infatti, lo stesso Fazio aveva visto di buon occhio il progetto di acquisizione della Banca Antonveneta da parte della BPI di Gianpiero Fiorani, giovane e rampante banchiere vicino alla Lega Nord.
 

21 novembre 2013

Due motivi per dire di no al reddito di cittadinanza

di Alessandro Rico

Il Movimento 5 Stelle ha lanciato la sua proposta per l’introduzione del reddito di cittadinanza, e pare che qualcuno l’abbia preso sul serio. Vale allora la pena enunciare almeno due ragioni di contrarietà al progetto dei grillini, di ordine economico e di ordine etico.
 

29 ottobre 2013

Quei gay francesi che divorziano da Hollande

di Alessandro Rico

La risposta dei diretti interessati alla legge sul matrimonio gay in Francia è stata freddina, almeno a giudicare dal sondaggio pubblicato da Le Figaro (e ripreso in Italia da Tempi). Tra maggio 2012 e ottobre 2013 i bisessuali e gli omosessuali che affermano di votare Hollande o un partito suo alleato, sono scesi dal 44% al 36%. Non solo: il numero di omosessuali dichiaratamente di sinistra è sceso del 7%, contro il calo del 5% tra gli eterosessuali. E ancora, anzi, soprattutto: mentre gli eterosessuali che votano Marine Le Pen sono aumentati del 4%, tra i bisessuali e gli omosessuali, il Front National, un partito di estrema destra contrario al matrimonio gay, è cresciuto del 6%.
 

30 giugno 2013

Letta ci insulta. Mentre ci dona le brioches.

di Marco Mancini (per barbadillo.it

Credevamo di esserci lasciati alle spalle l’arroganza dei tecnici, le paternali sui “bamboccioni” e sui giovani troppo “choosy”, i predicozzi sugli italiani “da riformare”, insomma gli insulti dei governanti nei confronti del Paese che, in teoria, avrebbero dovuto servire. Credevamo che con l'esecutivo Letta sarebbe finalmente tornata la politica, intesa in primo luogo come cinghia di trasmissione tra governo e società.
 

26 aprile 2013

Orfani e vedove (II parte)

di Saba Giulia Zecchi

(LEGGI LA PRIMA PARTE:
Lo stato assistenziale nasce nell'era industriale con l'introduzione della previdenza sociale - la pensione per tutti -, si estende poi con l'assistenza sanitaria, la pubblica istruzione, l'indennità di disoccupazione, l'accesso a servizi di vario genere (biblioteche, musei.. ). Servizi da erogare a tutti, per diminuire le differenze e le disuguaglianze sociali, a cui quindi tutti hanno diritto, e che aumentano proporzionalmente al benessere collettivo. A intuito, per ridurre le disuguaglianze questi servizi dovrebbero essere erogati solo ad alcune categorie svantaggiate, quelle che da sole non potrebbero accedervi, ma è andata a finire che oggi sono forzosamente erogati praticamente a tutti.
 

17 aprile 2013

Ricercare il fondamento: perché abbiamo ancora bisogno della cultura

di Alessandro Rico

Un paio di settimane fa, con il solito tono indistinguibilmente serio e faceto, Vittorio Sgarbi ha suggerito il suo premier ideale: Riccardo Muti. Manco a farlo apposta, il giorno dopo il Corriere ospitava una bellissima intervista al grande direttore d’orchestra, che almeno costringeva il lettore ad apprezzare l’acume dell’analisi di un uomo di cultura come Muti. Questo, per rimanere in tema musicale, offre il La a una più ampia riflessione sul ruolo della cultura nella società italiana, specialmente in questa fase storica così delicata.
 

10 aprile 2013

La morte di Maggie divide la destra

Chi ci segue avrà notato che – tra i tavoli di C&dM e su molte altre piattaforme simili – esistono  diverse opinioni riguardo le opposte ricette economiche, politiche e sociali realizzatesi durante il XX secolo. Ciò che per alcuni può essere sinonimo di cerchiobottismo o confusione, per noi è invece l'ennesima prova dell'incompiuta composizione tra i figli di due diverse idee di "destra". Figli che, sulle nostre pagine, decidono però di seppellire l'ascia di guerra in nome dell'amore verso la Chiesa.
La morte di Margaret Thatcher ha fatto nuovamente affiorare tale divergenza. Per questo, evitando logoranti "botta e risposta" a distanza di giorni, vi offriamo stavolta – uniti in unico contributo – due brevi e opposti punti di vista sulla figura della Lady di Ferro. (RF)

La Lady di Ferro si è spezzata
di Alessandro Rico

La Lady di Ferro si è spezzata. Non l’avevano piegata le proteste, le sommosse, gli attentati, le campagne denigratorie di artisti e fricchettoni. Non la piegava il brusio dell’opposizione, quando alla House of Commons la apostrofava con durezza. E non la piegò l’avanzamento del progetto dell’Unione Europea, di cui aveva intravisto i rischi. C’erano solo lei e i suoi principi. Lei si poteva odiarla, i suoi principi non condividerli: ma non si poteva non subire il fascino della fermezza, dell’inamovibilità, dell’essere paziente purché si facesse a modo suo.

Lo storico, nel tentare un bilancio della sua premiership, dovrà sottrarsi a due contrapposte tentazioni fatali: la damnatio memoriae e l’agiografia. Come tutte le esperienze umane, anche quella di Margaret Thatcher ha conosciuto meriti e colpe, limiti e conquiste. Quel che è certo, è che del bene e del male solo lei si è assunta irrevocabilmente la responsabilità. Se l’è assunta quando ha rifiutato compromessi con i terroristi irlandesi e gli argentini alle Falkland. Se l’è assunta quando il figlio si perse nel deserto durante un rally e lei pagò le ricerche di tasca sua. Se l’è assunta nella sua lotta vittoriosa contro le Trade Unions (che avevano sul mercato del lavoro britannico lo stesso effetto di CGIL e Fiom), con l’impopolarissima poll tax proporzionale – ripresa tale e quale da The Constitution of Liberty di Hayek, il suo vangelo politico – e con il memorabile «No, no, no!» all’euro

Lo storico soppeserà gli indicatori economici, il consenso che la Thatcher assicurò ai Tories (che governarono dal 1979 al 1997), le proteste di chi patì il rigore di bilancio e lo smantellamento del Welfare assistenzialistico. Ma oggi preferisco pensare, con ammirazione, alle volte in cui il suo senso di responsabilità e la sua determinazione da leader le hanno dato la forza di soffocare emozioni, titubanze, ripensamenti.

La Thatcher è stata per la politica quel che Hayek è stato per la cultura: la protagonista – assieme all’indimenticabile Reagan – della rinascita del liberalismo classico, inevitabilmente alleato con il conservatorismo, come avrebbero voluto David Hume ed Edmund Burke. La Thatcher è stata per me uno dei punti di riferimento politici di questi miei primi anni di formazione culturale, il leader che aveva il coraggio di dire: «Il problema del socialismo è che a un certo punto i soldi degli altri finiscono». Il leader che lo diceva e si comportava di conseguenza, anziché parlare da von Mises e governare da Craxi.

Il suo discorso di insediamento, tratto da una preghiera di San Francesco, sarà per me un costante richiamo a una condotta equanime e, come la vita del «più grande uomo d’Inghilterra», scoperta per ragioni anagrafiche quando su quell’epoca era già calato il sipario, ricorderò per sempre anche questo 8 aprile. Il giorno in cui la Lady di Ferro si è dovuta arrendere. Il giorno in cui, come quando lei dimissionaria nel ’90 lasciò per sempre Downing Street, mi sono abbandonato a un moto di sincera commozione. Perché anche se per me la Thatcher era storia e non memoria, la sentivo parte della mia storia personale.
Rest in peace, Mrs. Prime Minister. 


Nessuna lacrima per la signora Thatcher
di Andrea Virga



L’8 aprile è morta per un ictus, all’età di 88 anni, Margaret Thatcher. La sua fama è legata alle sue politiche neoliberiste, che la resero un’icona della destra liberale e una storica protagonista dell’ondata che dagli anni ’70 in poi portarono le forze atlantiste alla vittoria nella Guerra Fredda e all’instaurazione di un’egemonia unipolare.

In Parlamento dal 1959, si distinse subito per le sue posizioni rigide per certi versi (sostegno alla pena di morte), progressiste per altri (votò a favore dell’aborto e della depenalizzazione dell’omosessualità), ma comunque nettamente liberiste in campo economico – ad esempio, accusò, con scarso senso della realtà, il governo laburista di portare il Paese verso il comunismo. Coerentemente a queste idee, come Sottosegretario all’Educazione (1970 – 1974), tagliò i fondi alle scuole, incluso il programma che forniva gratuitamente latte ai bambini, e promosse l’assorbimento delle grammar schools (l’equivalente del nostro liceo classico) da parte di scuole superiori generaliste (comprehensive schools). 

La crisi economica fece sì che il suo partito vincesse le elezioni ed ella diventasse Premier nel 1979, rimanendo in sella per tre mandati consecutivi fino al 1990. Fin da subito furono implementate politiche come l’aumento della tassazione indiretta e la deregolamentazione finanziaria. I grandi monopoli statali, anche in ambito energetico e industriale, furono privatizzati; il potere dei sindacati fu ridotto e la serrata proibita; gli scioperanti (in particolare i minatori) furono trattati con la massima durezza da parte delle forze dell’ordine.

Sulla politica estera, poi, la Thatcher rinsaldò i legami con gli Stati Uniti, promuovendo una politica estera aggressivamente occidentalista, anticomunista e imperialista. Resta famigerata per la severità e violenza con cui represse la lotta di liberazione irlandese nell’Ulster e per l’intervento militare nelle Malvine. Inoltre, appoggiò la politica reaganiana di deterrenza nucleare, fornendo basi britanniche per il bombardamento della Libia e l’installazione di missili nucleari statunitensi. Tuttavia, imitando l’apertura tattica di Nixon verso i comunisti antisovietici, non si fece scrupoli di appoggiare in sede ONU gli Khmer Rossi di Pol Pot contro il Vietnam o di presenziare alle esequie del Maresciallo Tito o di stabilire la restituzione di Hong Kong alla Cina popolare.

Ripugnerebbe al nostro animo festeggiare la sua dipartita e la nostra onestà ci impone di riconoscere le sue capacità personali e la sua importanza storica, seppur come figura emblematica del neoliberismo nella sua espressione più brutalmente antisociale ed anticomunitaria (“La vera società non esiste”, giunse una volta ad affermare).
Per questo, non spremiamo una lacrima oggi, né l’avremmo spremuta se quel lontano 12 ottobre 1984 avesse avuto successo l’attentato dell’IRA al Brixton Hotel. Pregheremo piuttosto Dio affinché abbia pietà della sua anima, oltre ogni questione umana e terrena. Lasceremo – come disse Bobby Sands, martire dell’indipendenza irlandese, alla cui lotta ella volle negare ogni dignità politica, lasciando che morisse di fame in una squallida cella, nonostante fosse stato eletto parlamentare britannico – che “la nostra vendetta sia la risata dei nostri figli”, perché un giorno possa morire anche tutto quello che rappresentò da viva e che rappresenterà da morta.



 

08 febbraio 2013

Fermare il Giannino?

di Isacco Tacconi


Il 7 febbraio a Terni, in Umbria, si è svolto uno dei numerosi incontri che il giornalista e aspirante premier Oscar Giannino, in vista delle imminenti elezioni, sta rivolgendo agli elettori su e giù per l’Italia.
La sua lista, “Fare per Fermare il Declino”, è nata ufficialmente l’8 dicembre 2012, quindi in tempi recentissimi, ma da subito è stata accolta con un certo entusiasmo da quella parte degli italiani (cattolici ovviamente) che, spaesati nell'arcipelago politico attuale, non sanno realmente a chi votare, o a quale santo votarsi. Uno scenario ben descritto dalla metafora utilizzata da San Basilio, di una battaglia navale notturna su un mare in tempesta, «dove nessuno più conosce l’altro, ma tutti sono contro tutti». 
 

20 novembre 2012

Ripudiare il debito? Un esempio da non seguire

di Alessandro Rico

Dallo Stato tolleriamo comportamenti che non accetteremmo mai da un privato cittadino. Se tizio mi presta del denaro e io non glielo rendo, secondo i tempi e gli interessi pattuiti, nella migliore delle ipotesi mi pignorano pure le terga. Questo vale se sono un cittadino qualunque. Ma se mi faccio eleggere presidente di qualche Paese sull’orlo del tracollo finanziario, posso cavarmela semplicemente non pagando il mio debito pubblico. Io so io; da quand’in qua una Nazione sovrana restituisce ciò che ha avuto in prestito? Ci sono almeno tre episodi in cui i governi hanno impiegato questo trucco meschino e, checché ne dica PeppeCrillo, non sono esempi degni di emulazione.
 

15 novembre 2012

Barack Obama: storia di una gigantesca sola



di Alessandro Rico



A noi Europei, Obama piace da morire. In lui rivediamo un modo tutto nostro di concepire la politica, ovvero: un mezzo per eliminare ogni forma di malcontento. Come tutti i democratici, Obama è da questo punto di vista «meno americano»: la sua sensibilità lo porta ad anteporre la giustizia sociale alla lotta contro il Big Government, ossessione dei padri costituenti.

Così, la sua rielezione accelera lo scivolamento degli Stati Uniti verso una governance economica interventista che, forse, ha precedenti solo nel New Deal. Probabilmente le conseguenze non saranno identiche, visto che i Repubblicani mantengono la maggioranza alla Camera, mentre Roosevelt, divenuto al terzo mandato praticamente un ducetto, godeva di un appoggio quasi incondizionato anche da parte dell’opinione pubblica (ora più severa nei confronti di Obama, apparso infatti decisamente più realista in questa campagna elettorale). Fatto sta che la politica economica del suo governo si è iscritta perfettamente nel solco del tradizionale keynesismo: e, anche se negli USA, la celebre «piena occupazione» è lungi dal realizzarsi, è in questo senso che erano indirizzate, ad esempio, la scelta di aumentare il tetto del debito pubblico (in parole povere: siamo troppo indebitati? Stampiamo più soldi), o il salvataggio dell’industria automobilistica, come nel peggiore dei costumi corporativisti all'italiana.

Si conferma, insomma, un trend del tutto irrazionale: nonostante la crisi sia stata provocata dagli effetti di lungo termine di queste stesse politiche, peraltro promosse, dalla seconda metà del ‘900, pure dai Repubblicani – è comprensibile: sono misure che manifestano conseguenze incoraggianti nel breve periodo, giusto il tempo per farsi rieleggere –; nonostante sia proprio l’attaccamento morboso al keynesismo ad averci trascinato nel baratro, la gente se la prende col capitalismo, convincendosi che servano regolamentazioni ancora più limitanti, e un intervento dello Stato ancora più pervasivo.
D'altronde, se sono gli stessi americani ad aver abbandonato l’antica idea che Tremonti chiamerebbe spregiativamente «mercatista», vieppiù il Vecchio Continente, incline al welfare e alla politica redistributiva, subisce il fascino di Barack; che ai meno politicizzati, poi, evoca l’American dream oramai infranto, il reietto che si riscatta perseverando nella sua «ricerca della felicità». Eppure, se non ci fermassimo in religioso ossequio di fronte alle faccine di Obama, icona pop stile Andy Warhol, ci renderemmo conto che non è solo sull'economia, che il presidente non convince. Qualcuno ricorda Guantanamo? Il supercarcere per terroristi detenuti in condizioni disumane, quello che Obama promise di smantellare? Ebbene, nonostante un ordine di chiusura del 2009, quella prigione è ancora funzionante. E il Patriot Act? Il decreto di Bush che, ad esempio, consente alle forze dell’ordine di sfondare la valigia a un viaggiatore per «motivi di sicurezza»? Nel 2011, l’amministrazione Obama l’ha prorogato per altri quattro anni. Potete fumare uno spinello, magari allestire un matrimonio gay, ma scordatevi il bagnoschiuma in aereo.

E poi ci sono i bombardamenti che i droni statunitensi conducono dal Pakistan allo Yemen, coinvolgendo spesso e volentieri i civili. Se ‘sta roba l’avesse fatta Bush, ci saremmo sorbiti una marea di «vispe Terese» a piagnucolare per i diritti umani. Invece, a Obama hanno dato il premio Nobel per la pace.
È certo che il GOP non andrà molto lontano, se non produrrà un leader con il carisma di Barack e, cosa ancor più importante, se non sancirà una tangibile discontinuità nell'agenda politica: senza voler tirare fuori l’utopistico End the Fed di Ron Paul, tuttavia non mi pare che il programma dell’Elefantino sia così lontano dal mezzo New Deal di Obama, nonostante quel pizzico di retorica antistatalista, ultimo lascito di un classical liberalism relegato a qualche esponente di nicchia.

C’è una via d’uscita? Il sistema democratico ha inesorabilmente trasformato la politica in un distributore automatico di privilegi: da un lato, il governo ha avocato a sé poteri d’intervento che nessun padre costituente americano gli avrebbe accordato; dall'altro, poiché ottenere la maggioranza è una questione di voti, i politici subiscono la pressione di qualunque coalizione di interessi, in cambio del suo appoggio elettorale. Forse questo è un circolo da cui non ci sarà più possibile venir fuori. Sarò pessimista, ma mi viene da dire: No, we can’t.