a cura di Marco Mancini
Eugenia Roccella (Bologna, 1953) è una giornalista e politica italiana.
Dopo essere stata in gioventù militante radicale e femminista, ha condotto una
profonda rivisitazione delle proprie posizioni, fino a diventare, nel 2007,
portavoce del “Family Day”. Ha collaborato, tra gli altri, con “Avvenire”, “Il
Foglio” e “Il Giornale”. Deputata del PdL e sottosegretario alla Salute nel IV
Governo Berlusconi, si interessa in particolare di biopolitica. E’ candidata
alla Camera dei Deputati per il PdL nella circoscrizione Lazio 1 e potrebbe
ricoprire la carica di Vicepresidente della Regione Lazio, nel caso in cui Francesco Storace
vincesse le elezioni regionali.
On. Roccella, qualche settimana fa lei ha proposto su “Tempi” di formulare otto domande ai candidati premier, per
conoscere le posizioni di ciascuno schieramento rispetto alla biopolitica e ai
c.d. “principi non negoziabili”. Non è sufficiente, come sostiene ad esempio
Mario Monti, lasciare il tutto alla libertà di coscienza dei singoli?
Dal mio punto di vista, è impossibile fare politica senza avere una visione antropologica. Le
novità alle quali assistiamo nel campo delle tecnoscienze portano con sé una modificazione dell’umano: dal
momento in cui è nata Louise Brown, la prima bambina concepita in un
laboratorio, si è determinata una possibilità di stravolgere le relazioni umane fondamentali, che mette in
crisi le nostre certezze di base. Una volta davamo per scontata la condizione
umana – condition humaine, come
veniva chiamata dagli intellettuali francesi del Novecento –, credevamo che
essa non potesse essere modificata. Oggi questo può accadere e si tratta di una
modificazione che spesso non avvertiamo: si introduce nella nostra quotidianità
in maniera strisciante, come accade per l’inquinamento dell’aria o dell’acqua. Non si può avere una visione politica – a
meno di non averne una arida e minimalista, priva di basi culturali e intesa
come mera gestione economica, come sembra essere nel caso di Monti – senza sapere a quale
visione antropologica ci riferiamo: chi è per noi l’uomo? Si tratta di temi
intrecciati profondamente a tutte le altre scelte che noi compiamo, comprese
quelle socio-economiche.
Il primo dei suoi otto quesiti
riguarda il tema del “fine vita”: è sicura che ci sia bisogno di una legge
sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, o è meglio la c.d. opzione-zero?
Quali sono i punti qualificanti della proposta che era in via di approvazione e
che lei suggerisce di riprendere in considerazione?

Non sono affatto sicura che una
legge sia l’opzione migliore in assoluto, anzi:
noi cattolici, soprattutto di orientamento liberale, non volevamo una
legge sul fine-vita. Si tratta del momento più intimo dell’esistenza umana,
dovrebbe essere lasciato nell’ombra delle relazioni affettive. Ma c’è stato un
problema:
un ingresso a gamba tesa nel
campo politico e normativo della magistratura. Quando osservavamo il caso
di Terry Schiavo in TV, non credevamo che una cosa del genere potesse accadere anche
nel nostro Paese. Invece, poco tempo dopo, una giovane donna in stato
vegetativo – che non vuol dire un “vegetale” –,
Eluana Englaro, è stata portata alla morte da una sentenza, attraverso
un protocollo medico stilato addirittura da un giudice. Quando questo è
accaduto, noi abbiamo prima di tutto rivendicato la competenza al Parlamento,
sottraendola dalle mani della magistratura;
per evitare che episodi come questo si ripetessero, abbiamo deciso di
legiferare in materia. La nostra proposta di legge garantisce la libertà di
cura, cioè la possibilità di dare indicazioni su eventuali terapie per quando
non si fosse in grado di intendere e di volere, ma
traccia un confine netto rispetto alla minaccia dell’eutanasia. Questo
confine è fondamentalmente costituito dall’alimentazione e dell’idratazione,
che non possono essere rifiutate perché non possono configurarsi semplicemente
come terapie.
Tra i quesiti che lei propone ai
candidati non compare il tema dell’aborto, a parte il riferimento alla pillola
RU486. Nessuno dei principali partiti intende rivedere in senso restrittivo la
legge 194, se ne chiede semmai una “piena applicazione”. Il 12 maggio, però, si
terrà a Roma la terza edizione della Marcia Nazionale per la Vita, la cui
piattaforma è estremamente chiara nella condanna della legge 194. Come intende
rapportarsi rispetto a questa parte del mondo pro-life?
Tutti sanno che, in questo momento, la legge sull’aborto non
è concretamente modificabile: non fu possibile toccarla neanche ai tempi
della maggioranza relativa democristiana. Il
modo in cui, in realtà, altri intendono modificare surrettiziamente la legge 194 è
proprio attraverso la RU486: la pillola abortiva è un metodo elettivamente
domiciliare – dove essa è molto diffusa, come in Francia, le donne possono
procurarsela dal medico di base ed abortire in casa, con gravi rischi anche per
la loro salute, come dimostrano le diverse morti censurate dalla stampa – e
facilita il “fai da te”. Non è un caso che essa fosse propagandata anche
attraverso voti di Consigli regionali (es. Toscana e Emilia Romagna) o
comunali, prima ancora che la ditta produttrice chiedesse l’autorizzazione a
commerciarla in Italia. Visto che attualmente è impossibile modificare la legge sull'aborto in Parlamento, si voleva introdurre un cambiamento nella prassi, in modo da
poter successivamente allargare le maglie della normativa stessa, come avvenuto
in Francia. Questo progetto è stato
bloccato dalle linee guida del Ministero guidato da Maurizio Sacconi, in cui io
ero sottosegretario; non è detto, peraltro, che le cose non cambino anche
su questo fronte. La Marcia è una
dichiarazione di intenti e di principio a favore della vita, ma non può avere
ricadute legislative immediate; in questa fase, oltre ad applicare meglio le
misure che possono favorire la maternità e limitare il ricorso alle pratiche
abortive, è necessario innanzitutto tentare di scongiurare ulteriori derive, di
cui il caso della RU486 è un esempio.
Si riconosce nell’etichetta di
“teo-con” che viene attribuita a lei, Quagliariello, Sacconi e ad altri
esponenti del PdL? Quali sono i risultati principali della vostra azione
politica degli ultimi anni?
No, non mi riconosco in
quell’etichetta, non mi piace. Io potrei
definirmi una conservatrice sul piano antropologico, ma non sono definibile come
una conservatrice tout court.
Tantomeno “teo”: sono cattolica, ma la mia battaglia si muove su un terreno
laico. Non mi sembra una definizione azzeccata.
Per quanto riguarda la nostra
azione, credo che il risultato più
evidente che abbiamo raggiunto sia stato proprio il metodo: il fatto di dare a
queste battaglie tutta la dignità che meritano. Basti pensare a quanto
fatto dalla DC, o dai suoi epigoni attuali: i c.d. “cattolici in politica” hanno spesso affrontato questi temi
obliquamente, hanno pensato che essi non facessero parte a pieno titolo
della politica. Si parla, non a caso, di “temi etici”: io non ho mai amato
questa definizione, preferisco parlare di “questione antropologica” o di
“biopolitica”, perché parlare di “temi
eticamente sensibili” lascia pensare che si tratti di questioni che
interpellano esclusivamente le coscienze individuali. Invece no: sono questioni
pienamente politiche. Persone come me e come quelle a cui si è fatto
riferimento hanno compreso la centralità della questione antropologica e la necessità
di fare fronte su questo tema in modo
aperto, non clericale, che consenta anche un’alleanza del tutto inedita – ben
diversa dall’idea di un inconcludente “dialogo”, che a me non piace affatto –
tra laici e cattolici sui fondamenti dell’umano.
Come valuta le critiche mossevi
tempo fa da Sandro Bondi, il quale ha parlato di “posizioni di radicalismo religioso alla Tea party che sono in
contrasto anche con il cattolicesimo”? Alla luce di questo, si sente di
assicurare che il PdL continuerà a essere garante nei confronti dei principi
non negoziabili?
Io penso di sì, e l’intervista rilasciata oggi [ieri, ndr]
dal presidente Berlusconi a “Tempi” lo dimostra. Ci sono molte buone
ragioni, anche strategiche, per le quali il PdL e il centro-destra devono
continuare a impegnarsi su questo fronte. Chi vuole il riconoscimento pubblico
delle coppie di fatto, le adozioni per le coppie gay, l’ulteriore scardinamento
della legge 40 o l’eutanasia ha l’imbarazzo della scelta, in termini di offerta
politica: sinistra estrema, sinistra moderata, in una certa misura persino Monti.
Sarebbe sciocco, quindi, se anche noi ci allineassimo su queste posizioni, lasciando la nostra battaglia a piccoli gruppi di destra: essa, infatti, può essere condivisa da una parte
consistente, tendenzialmente maggioritaria, degli italiani. Basti pensare al
documento del PdL firmato qualche mese fa da più di 170 parlamentari, tra cui
esponenti laici e liberali come Stracquadanio e Stefania Craxi, contro il
riconoscimento pubblico delle unioni di fatto.
Ma c’è soprattutto una matrice culturale da difendere: alcuni faticano a farlo, perché esiste un
enorme complesso di inferiorità e una sostanziale subalternità nei confronti
della sinistra. Chi vuole costruire una
piattaforma che sia anche autenticamente liberale deve uscire dai
condizionamenti del “politicamente corretto”, del luogocomunismo, dei
complessi di inferiorità di cui ho appena parlato; se, invece, si preferiscono posizioni di tipo radicale o da
“cattolico adulto”, allora se ne trovano a volontà altrove. Basta
scegliere.