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06 novembre 2014

Obama, game over



di Alessandro Rico


Il mid-term americano ha consegnato ai Repubblicani una schiacciante vittoria, ma soprattutto ha sancito la bruciante sconfitta del Presidente Barack Obama. Il GOP ha vinto anche in molte roccaforti blu, ha dato battaglia in Virginia, ha mandato in Senato la sua prima donna nera (Mia Love nello Utah), ha ormai il controllo del Parlamento e la maggioranza dei governatori. Lo stesso Partito Democratico è sembrato insofferente a Obama e se il Washington Post azzarda che Hillary Clinton potrebbe approfittarne per rafforzare la sua futura nomination, non sono mancate esplicite prese di distanza da parte di candidati democratici, come quella di Alison Grimes del Kentucky.

Ma queste elezioni hanno rappresentato davvero una svolta a destra degli Stati Uniti? A mio modesto parere, non del tutto. Basti pensare al tracollo del gradimento di Obama tra gli ispanici, il gruppo etnico che, dopo i neri, nel 2008 e nel 2012 aveva accordato la maggiore fiducia al Presidente. Fatico a immaginare una conversione di questo elettorato. La mia idea è che il mid-term, oltre che un indubitabile successo organizzativo dei Repubblicani, capaci di polarizzare il malcontento, sia stato una sonora bocciatura della leadership di Obama. L’uomo del cambiamento e delle riforme si è rivelato, come dicono a Roma, una sòla. La collezione di fallimenti è sterminata. La riforma sanitaria, contestatissima per i suoi elevati costi e la sua paradossale incapacità di allargare la platea di assicurati, anche a causa del crash del portale HealtCare.gov. La ripresa economica, che nonostante i segnali incoraggianti è ancora fragile, a fronte di un massiccio, seppur non inedito, intervento dello Stato nell’economia – si ricordi, su tutto, il salvataggio di General Motors. La politica estera, persino più disastrosa dell’imperialismo di Bush, con le incertezze sulla Siria, le umiliazioni dalla Russia e le la lentezza e sostanziale inefficacia dell’intervento contro l’Isis.
Più che un’approvazione dell’agenda repubblicana, che peraltro è ancora soggetta alla tribolante dialettica tra “comunitaristi” pro spesa pubblica e Tea Party, le elezioni di medio termine hanno rivelato la disillusione degli americani nei confronti dell’uomo che li aveva avvinti con la retorica: nulla è rimasto dei motti evocativi, Change e Yes we can, del lontanissimo 2008.
D’altronde, se si guarda agli esiti dei referendum, ci si rende conto che l’ondata repubblicana ha poco a che fare con la promozione di politiche conservatrici. Washington DC ha votato per il controllo delle armi e la marijuana libera; pro-cannabis anche l’Oregon; Alaska, Arkansas, Nebraska, South Dakota e Illinois hanno approvato la proposta sul salario minimo. Solo la Florida ha respinto la legalizzazione delle droghe leggere, mentre lo stesso GOP, che forse prevedeva gli esiti referendari, aveva allentato le proprie resistenze sul tema. Per i Repubblicani, in un certo senso, the best is yet to come – anzi, the worst. Come accennato, permane la dicotomia tra moderati e liberisti. Il ruolo del Tea Party nella disfatta di Obama sembra ridimensionato, ma i Libertarians hanno ottenuto una simbolica vittoria eleggendo Joni Ernst nell’Iowa, lo Stato da cui partono le primarie repubblicane. Il GOP ha fatto dei passi avanti, si è svecchiato, ha mandato in Senato il suo primo nero del Sud, ma manca ancora di una leadership carismatica e di un’agenda condivisa, e soprattutto condivisibile da un’America che non mi dà l’impressione di voler tornare al reaganismo.

Intanto il partito dell’Elefantino ha un capitale da spendere, perché l’«anatra zoppa» Obama dovrà scendere a patti con un Congresso ostile, o combattere improduttivamente a colpi di veto, soprattutto su sanità e immigrazione. Per il Presidente più sopravvalutato della storia, insignito persino di un premio Nobel per la pace che sarebbe assurdo, se non sapessimo che i Nobel servono a celebrare i campioni del pensiero unico, sembra l’inizio della fine. Il vecchio motto è cambiato: No, you can’t

 

08 giugno 2013

Il Grande Fratello a stelle e strisce e gli "estremisti" liberali del Tea Party

di Alessandro Rico

Mentre in Italia ci preoccupiamo degli amori di Nicole Minetti, gli Stati Uniti fanno i conti con uno dei più grandi scandali degli ultimi decenni, la gravità del quale è attenuata solo dalla circostanza che tutti, democratici e repubblicani, sono ugualmente coinvolti. Il Guardian e il Washington Post hanno svelato che la National Security Agency, sulla falsariga di un progetto partorito nel 2007 da Bush e confermato dall’amministrazione Obama, ha allungato l’orecchio sulle conversazioni private di migliaia di cittadini, ha controllato i movimenti delle loro carte di credito e addirittura si è introdotta nei server dei colossi informatici per spiare chat, e-mail, profili dei social network.
 

26 aprile 2013

Orfani e vedove (II parte)

di Saba Giulia Zecchi

(LEGGI LA PRIMA PARTE:
Lo stato assistenziale nasce nell'era industriale con l'introduzione della previdenza sociale - la pensione per tutti -, si estende poi con l'assistenza sanitaria, la pubblica istruzione, l'indennità di disoccupazione, l'accesso a servizi di vario genere (biblioteche, musei.. ). Servizi da erogare a tutti, per diminuire le differenze e le disuguaglianze sociali, a cui quindi tutti hanno diritto, e che aumentano proporzionalmente al benessere collettivo. A intuito, per ridurre le disuguaglianze questi servizi dovrebbero essere erogati solo ad alcune categorie svantaggiate, quelle che da sole non potrebbero accedervi, ma è andata a finire che oggi sono forzosamente erogati praticamente a tutti.