di Alessandro Rico
Il
mid-term
americano ha consegnato ai Repubblicani una schiacciante vittoria, ma
soprattutto ha sancito la bruciante sconfitta del Presidente Barack
Obama. Il GOP ha vinto anche in molte roccaforti blu, ha dato
battaglia in Virginia, ha mandato in Senato la sua prima donna nera
(Mia Love nello Utah), ha ormai il controllo del Parlamento e la
maggioranza dei governatori. Lo stesso Partito Democratico è
sembrato insofferente a Obama e se il Washington Post azzarda che
Hillary Clinton potrebbe approfittarne per rafforzare la sua futura
nomination, non sono mancate esplicite prese di distanza da parte di
candidati democratici, come quella di Alison Grimes del Kentucky.
Ma
queste elezioni hanno rappresentato davvero una svolta a destra degli
Stati Uniti? A mio modesto parere, non del tutto. Basti pensare al
tracollo del gradimento di Obama tra gli ispanici, il gruppo etnico
che, dopo i neri, nel 2008 e nel 2012 aveva accordato la maggiore
fiducia al Presidente. Fatico a immaginare una conversione di questo
elettorato. La mia idea è che il mid-term,
oltre che un indubitabile successo organizzativo dei Repubblicani,
capaci di polarizzare il malcontento, sia stato una sonora bocciatura
della leadership di Obama. L’uomo del cambiamento e delle riforme
si è rivelato, come dicono a Roma, una sòla. La collezione di
fallimenti è sterminata. La riforma sanitaria, contestatissima per i
suoi elevati costi e la sua paradossale incapacità di allargare la
platea di assicurati, anche a causa del crash del portale
HealtCare.gov. La ripresa economica, che nonostante i segnali
incoraggianti è ancora fragile, a fronte di un massiccio, seppur non
inedito, intervento dello Stato nell’economia – si ricordi, su
tutto, il salvataggio di General Motors. La politica estera, persino
più disastrosa dell’imperialismo di Bush, con le incertezze sulla
Siria, le umiliazioni dalla Russia e le la lentezza e sostanziale
inefficacia dell’intervento contro l’Isis.
Più
che un’approvazione dell’agenda repubblicana, che peraltro è
ancora soggetta alla tribolante dialettica tra “comunitaristi”
pro spesa pubblica e Tea Party, le elezioni di medio termine hanno
rivelato la disillusione degli americani nei confronti dell’uomo
che li aveva avvinti con la retorica: nulla è rimasto dei motti
evocativi, Change e
Yes we can,
del lontanissimo 2008.
D’altronde,
se si guarda agli esiti dei referendum, ci si rende conto che
l’ondata repubblicana ha poco a che fare con la promozione di
politiche conservatrici. Washington DC ha votato per il controllo
delle armi e la marijuana libera; pro-cannabis anche l’Oregon;
Alaska, Arkansas, Nebraska, South Dakota e Illinois hanno approvato
la proposta sul salario minimo. Solo la Florida ha respinto la
legalizzazione delle droghe leggere, mentre lo stesso GOP, che forse
prevedeva gli esiti referendari, aveva allentato le proprie
resistenze sul tema. Per i Repubblicani, in un certo senso, the
best is yet to come –
anzi, the worst.
Come accennato, permane la dicotomia tra moderati e liberisti. Il
ruolo del Tea Party nella disfatta di Obama sembra ridimensionato, ma
i Libertarians hanno
ottenuto una simbolica vittoria eleggendo Joni Ernst nell’Iowa, lo
Stato da cui partono le primarie repubblicane. Il GOP ha fatto dei
passi avanti, si è svecchiato, ha mandato in Senato il suo primo
nero del Sud, ma manca ancora di una leadership carismatica e di
un’agenda condivisa, e soprattutto condivisibile da un’America
che non mi dà l’impressione di voler tornare al reaganismo.
Intanto
il partito dell’Elefantino ha un capitale da spendere, perché
l’«anatra zoppa» Obama dovrà scendere a patti con un Congresso
ostile, o combattere improduttivamente a colpi di veto, soprattutto su sanità e immigrazione. Per il
Presidente più sopravvalutato della storia, insignito persino di un
premio Nobel per la pace che sarebbe assurdo, se non sapessimo che i
Nobel servono a celebrare i campioni del pensiero unico, sembra
l’inizio della fine. Il vecchio motto è cambiato: No,
you can’t.