Visualizzazione post con etichetta welfare. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta welfare. Mostra tutti i post

08 gennaio 2016

La crisi della famiglia è antropologica, non economica


di Giuliano Guzzo

Premessa: la famiglia, in Italia, non solo non è sostenuta, ma è fiscalmente vampirizzata. E’ per la verità cosa arcinota, ma è bene ribadirlo subito affinché nessuno pensi che chi scrive prenda sottogamba un problema tanto importante e così ostinatamente ignorato dalla politica. Detto questo, però, da sociologo non posso non dissentire da quanti – e sono molti, oramai, anche ai vertici dell’associazionismo cattolico – sono convinti che introducendo il quoziente familiare e un welfare migliore il calo dei matrimoni e della natalità, due problemi l’uno legato all’altro, parecchio se non tutto nel panorama odierno migliorerebbe. Il mio dissenso da questo tipo di considerazioni è motivato da più elementi.

Il primo, molto banalmente, è quello che si può senza esitazione definire un dato di realtà: gli aiuti economici non bastano. Un esempio lampante è quello francese: lì il quoziente familiare esiste già dal remoto 1945 e la natalità sfiora appena il tasso di sostituzione (1,97 figli per donna, nel 2013), risultato senza dubbio migliore di quello italiano ma comunque non certo sufficiente a far parlare di una primavera demografica e probabilmente – ma non si può dire con certezza, dato che non disponiamo di dati sulla fertilità per origine degli abitanti – dovuto al contributo di cittadini stranieri o comunque di origine non strettamente francese. Ad ogni modo il caso della Francia non è isolato.

Si pensi, per esempio, alla Germania, la locomotiva economica d’Europa: il Paese elargisce aiuti sostanziosi alle famiglie, gli stipendi in media sono più alti, hanno una disoccupazione inferiore alla nostra ed altre circostanze favorevoli che però non schiodano i tedeschi da un tasso di fertilità cimiteriale pari, udite udite, ad appena 1,3. Oppure si prenda la brillante Finlandia dove dal 1938 alle donne in attesa di partorire arriva un “pacco neonatale” contenente di tutto (vestitini, copertina, un completino pesante, cuffiette, calzini, un set di lenzuola, uno per l’igiene del bambino completo di spazzolino da denti e forbicine per le unghie, materasso e bavaglino) e che, spesso, è pure la prima culla dei figli.

Eppure, nonostante tutto questo, anche laggiù, in Finlandia, la denatalità non solo esiste come problema, ma peggiora: si è difatti passati dalle 10,8 nascite ogni 1.000 abitanti del 2001 alle 10,45 del 2006 fino alle 10,36 del 2012. Un ulteriore elemento che porta a sconsigliare di leggere la crisi della famiglia in termini economici – per quanto questi abbiano un loro peso – è l’esperienza Italiana, che evidenzia molto chiaramente il ruolo anzitutto della componente culturale della crisi della famiglia. Un esempio è il divorzio, confermato com’è noto con il referendum del 1974: pochi anni dopo i matrimoni lasciarono sul terreno un quinto, le nascite addirittura un quarto della loro consistenza.

Una ulteriore perplessità di fondo nel collegamento fra crisi della famiglia – intesa come calo dei matrimoni e della natalità – e crisi economica e mancanza di attenzioni economiche sorge in me dal fatto che, così ragionando, si considera l’essere umano puramente in un’ottica materialista, mentre invece la persona umana è qualcosa il cui splendore – e i cui bisogni – vanno molto oltre. Da questo punto di vista, altri elementi ci vengono dal fatto che, come evidenziato i dati Istat 2005, nelle Isole e al Sud i giovani si sposano prima di aver compiuto 29 anni mentre invece al Centro e soprattutto al Nord, dove mediamente le condizioni economiche sono migliori, dopo i 30; se fossero economia e precariato a fare la differenza, i numeri avrebbero dovuto essere opposti.

A contrastare il peso dell’elemento economico invece sulla natalità ci sono invece gli alti tassi di fertilità di persone appartenenti a determinate fedi religiose. Si pensi a quanti si riconoscono nella religione islamica: vivono, in Occidente, la nostra stessa condizione di crisi economica eppure si prevede che i musulmani si riprodurranno a velocità doppia rispetto al resto della popolazione e nel 2030 rappresenteranno il 26,4% della popolazione del pianeta; oppure, guardando agli Stati Uniti, si pensi alla comunità Amish, considerata la religione in massima espansione in tutta l’America: costoro crescono a ritmo vertiginoso non grazie alle conversioni, ma semplicemente perché le famiglie hanno molti figli che rimangono all’interno della comunità.

Questo cosa significa? Che la politica italiana può continuare – come fa ormai bellamente da decenni – ad ignorare la famiglia? Che il quoziente familiare non conta nulla? Che è sbagliato sostenere la natalità? Tutto il contrario: la “cellula fondamentale della società” va sostenuta! Se però pensiamo di contrastare economicamente una crisi che è antropologica e che ha nel successo culturale di istituti quali il divorzio e l’aborto, entrati saldamente nella mentalità comune, un punto di grande forza, combattiamo contro i mulini a vento. Non perché, lo ripeto, sia giusto che il fisco continui a bastonare la famiglia, ma perché la famiglia – proprio perché è fondamentale per la società dell’Italia come dell’Europa – ha diritto a molto di più di semplici, per quanto sostanziosi, contributi economici.

http://giulianoguzzo.com/2016/01/08/la-crisi-della-famiglia-e-antropologica-non-economica/#more-9017
 

06 maggio 2015

Maternità e lavoro, la grande discriminazione


di Giuliano Guzzo

Quasi non credevo ai miei occhi, ieri pomeriggio, leggendo sul portale de L’Espresso una lunga e interessante inchiesta a firma di Arianna Giunti sulla condizione lavorativa delle madri. Prima di spiegare la mia incredulità, meglio illustrare i contenuti dell’articolo, volto sostanzialmente a denunciare come spesso, anche nel nostro Paese, per una donna rimanere incinta equivale a rischiare il posto. «I dati parlano chiaro – osserva la giornalista – negli ultimi cinque anni in Italia i casi di mobbing da maternità sono aumentati del 30 per cento. Secondo le ultime stime dell’Osservatorio Nazionale Mobbing solo negli ultimi due anni sono state licenziate o costrette a dimettersi 800mila donne. Almeno 350mila sono quelle discriminate per via della maternità o per aver avanzato richieste per conciliare il lavoro con la vita familiare» [1]. Vero, anzi verissimo. Novanta minuti di applausi per questa scomoda ma innegabile verità. Il punto è che non si tratta di una novità. Per niente.
Esattamente un anno fa, in questi giorni, veniva diffuso Maternity and paternity at word: Law and practice across the world, un report dell’Ilo – acronimo che sta per International Labour Organization –, dai contenuti esplosivi. Dalle quasi quasi 200 pagine di quel documento, infatti, emergeva un dato drammatico: il 71,6% delle donne nel mondo non è tutelato in caso di maternità. Una tendenza – denunciava quel rapporto – alla quale non è estranea l’Italia [2], dove la prassi sfocia talvolta nella presentazione di lettere di dimissioni in bianco sottoposte dal datore di lavoro alle lavoratrici già al momento dell’assunzione, in modo che queste possano essere tempestivamente licenziate nell’eventualità di una gravidanza. Ma neppure quel documento, a ben vedere, svelava novità assolute: vi sono indagini conoscitive degli Novanta dalle quali emergeva come ad oltre cento donne, in Italia, fosse richiesta addirittura, prima di procedere con l’assunzione, la certificazione di avvenuta sterilizzazione [3].
In questo caso non sorprende allora il fatto che, da noi, il 60% delle donne con un figlio e persino il 50% di quelle con due figli sarebbe disposto a farne un altro se solo fosse garantita loro un’assenza lavorativa solida e indolore, vale a dire con rientro garantito – diversamente da come avviene – senza penalizzazioni [4]. No, quello che sorprende – come dicevo all’inizio – è L’Espresso, che finalmente sottopone ai propri lettori una denuncia non ideologica ma concreta e controcorrente. Anche se, a ben vedere, i conti ancora non tornano. Non del tutto, almeno. Perché appare parziale da un lato denunciare – e va benissimo – la discriminazione ai danni della madre lavoratrice e, dall’altro tacere sul fatto che è la giovane madre in quanto tale ad essere discriminata. Per quale ragione? Per il fatto che non solo, se ha un posto di lavoro, ha poche tutele, ma perché non ne ha neppure una nell’eventualità la sua fosse una gravidanza difficile o indesiderata.
Ha molte più tutele la donna che abortisce, che rifiuta di essere madre e si vede rimborsato completamente dallo Stato il costo dell’intervento, il cui costo oscilla almeno fra i mille ed i duemila euro. Ma la giovane donna che ha un bambino, che non sa che fare e alla fine sceglie di non eliminarlo e di portare a termine la propria gravidanza su quali sostegni può contare? Quali aiuti concretamente offrono a lei uno Stato ed una Legge – l’intoccabile 194/78 –, che ha pure la sfacciataggine di intitolarsi “Norme per la tutela sociale della maternità”? Questo è il punto. La vergognosa discriminazione della maternità sul posto di lavoro non è che il riflesso di una discriminazione più antica e trasversale, di un’ostilità non dichiarata ma fattuale contro la donna che, dispiace dirlo, talvolta le stesse donne o non vedono o perfino contribuiscono ad alimentare. Sarebbe bello che a L’Espresso, sul cui sito è pubblicata ora un’analisi coi fiocchi – e lo si è riconosciuto -, aprissero gli occhi anche su questo.

Note: [1] Giunti A. Il mobbing per maternità colpisce mezzo milione di lavoratrici ogni anno. «Espresso.repubblica.it»: 4.5.2015; [2] Cfr. AAVV. (2014) Maternity and paternity at word: Law and practice across the world. «International Labour Organization»; 1-193:74; [3] Cfr. «Il Messaggero», 18/10/1997; [4] Cfr. Blangiardo G.C. Fecondità e lavoro: la faticosa ricerca di nuovi strumenti per nuovi equilibri in Donati P. (a cura di) Famiglia e lavoro, San Paolo 2005, p. 123.

http://giulianoguzzo.com/2015/05/05/maternita-e-lavoro-la-grande-discriminazione/

 

08 marzo 2015

Per rispettare veramente la donna



di Giuliano Guzzo

Più ci si avvicina all’8 marzo e più cresce l’avvilente presagio del sermone mediatico che, ancora una volta, ci toccherà: la donna ha ancora pochi diritti, il mondo è sessista, la parità purtroppo lontana. Il tempo passa ma la musica, suppergiù, rimane questa. E sarebbe essere un problema tutto sommato relativo, da affrontare armati di pazienza, se non vi fossero all’orizzonte sempre più segnali di un degrado della condizione femminile ben più seri del mancato utilizzo, da parte degli italiani, di termini quali “ministra” o “prefetta” o “capa”; sì, perché anche se può sembrare assurdo – e in effetti lo è – l’ultima battaglia del femminismo 2.0 è la modifica del vocabolario comune. Il problema della discriminazione ai danni della donna, viene detto, deriva anzitutto dal linguaggio, l’ultima fortezza sessista ancora da espugnare. La realtà però è ben diversa; e non perché il linguaggio di per sé non conti nulla o sia da ritenersi neutro a priori, intendiamoci.
 

19 marzo 2014

Amici liberisti, ecco perché sono contrario ai licenziamenti dei dipendenti pubblici

di Alessandro Rico
Dai tempi tristissimi del governo Monti si fa gran parlare di spending review, anglicismo che da subito è sembrato una copertura per la volontà di lasciare intatto il calderone della spesa pubblica. Finché Carlo Cottarelli, ex dirigente del Fondo Monetario Internazionale e ora commissario alla spending review, è partito in quarta: esuberi per 85.000 dipendenti statali. Non lasciamoci intimidire dai sermoni keynesiani della CGIL, ma evitiamo anche di gongolare di fanatismo liberista. Anzi, poiché gli statolatri del sindacato si stanno facendo il vuoto intorno, urge soprattutto placare i bollenti spiriti dei fan del mercato. E cercare di capire cosa c’è di buono e cosa c’è di cattivo nel progetto del Cottarelli.
 

21 novembre 2013

Due motivi per dire di no al reddito di cittadinanza

di Alessandro Rico

Il Movimento 5 Stelle ha lanciato la sua proposta per l’introduzione del reddito di cittadinanza, e pare che qualcuno l’abbia preso sul serio. Vale allora la pena enunciare almeno due ragioni di contrarietà al progetto dei grillini, di ordine economico e di ordine etico.
 

26 aprile 2013

Orfani e vedove (II parte)

di Saba Giulia Zecchi

(LEGGI LA PRIMA PARTE:
Lo stato assistenziale nasce nell'era industriale con l'introduzione della previdenza sociale - la pensione per tutti -, si estende poi con l'assistenza sanitaria, la pubblica istruzione, l'indennità di disoccupazione, l'accesso a servizi di vario genere (biblioteche, musei.. ). Servizi da erogare a tutti, per diminuire le differenze e le disuguaglianze sociali, a cui quindi tutti hanno diritto, e che aumentano proporzionalmente al benessere collettivo. A intuito, per ridurre le disuguaglianze questi servizi dovrebbero essere erogati solo ad alcune categorie svantaggiate, quelle che da sole non potrebbero accedervi, ma è andata a finire che oggi sono forzosamente erogati praticamente a tutti.
 

12 dicembre 2012

Orfani e vedove (I parte)

di Saba G. Zecchi


Da un po' non leggevo il blog di Costanza Miriano, così sono andata sul suo profilo Facebook per sfogliare gli argomenti più recenti - ammetto che è macchinoso, ma sul profilo ci sono commenti e link annessi, che possono anche tornare utili. E così è stato. Dalla pagina della Costanza nazionale si trova il link a un post che stronca il suo recente libro secondo prevedibili categorie di "modernità", "diritti acquisiti" e simili e proporzionalmente sorvola sui più noti fondamenti della cristianità alla base del libro (la forma della croce, per esempio, non intesa come "stampino" o "ciondolo", ma come forma-sostanza).
 

22 maggio 2012

Chiesa e fisco: l’elemosina a spese degli altri


di Alessandro Rico
Il 16 maggio, sull’Indipendenza, Matteo Corsini ha commentato un intervento dell’arcivescovo di Chieti-Vasto, monsignor Bruno Forte, sui doveri contributivi del cittadino e la necessità di costruire un sistema fiscale più equo. Dato che sono d’accordo su tutto quello che ha scritto Corsini, e visto che lo ha scritto in modo chiaro ed efficace, non credo sia necessario aggiungere altro. Mi limito ad approfondire quanto l’autore afferma su Cristo, «che non ha mai imposto con la forza a nessuno» la solidarietà.