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10 aprile 2013

La morte di Maggie divide la destra

Chi ci segue avrà notato che – tra i tavoli di C&dM e su molte altre piattaforme simili – esistono  diverse opinioni riguardo le opposte ricette economiche, politiche e sociali realizzatesi durante il XX secolo. Ciò che per alcuni può essere sinonimo di cerchiobottismo o confusione, per noi è invece l'ennesima prova dell'incompiuta composizione tra i figli di due diverse idee di "destra". Figli che, sulle nostre pagine, decidono però di seppellire l'ascia di guerra in nome dell'amore verso la Chiesa.
La morte di Margaret Thatcher ha fatto nuovamente affiorare tale divergenza. Per questo, evitando logoranti "botta e risposta" a distanza di giorni, vi offriamo stavolta – uniti in unico contributo – due brevi e opposti punti di vista sulla figura della Lady di Ferro. (RF)

La Lady di Ferro si è spezzata
di Alessandro Rico

La Lady di Ferro si è spezzata. Non l’avevano piegata le proteste, le sommosse, gli attentati, le campagne denigratorie di artisti e fricchettoni. Non la piegava il brusio dell’opposizione, quando alla House of Commons la apostrofava con durezza. E non la piegò l’avanzamento del progetto dell’Unione Europea, di cui aveva intravisto i rischi. C’erano solo lei e i suoi principi. Lei si poteva odiarla, i suoi principi non condividerli: ma non si poteva non subire il fascino della fermezza, dell’inamovibilità, dell’essere paziente purché si facesse a modo suo.

Lo storico, nel tentare un bilancio della sua premiership, dovrà sottrarsi a due contrapposte tentazioni fatali: la damnatio memoriae e l’agiografia. Come tutte le esperienze umane, anche quella di Margaret Thatcher ha conosciuto meriti e colpe, limiti e conquiste. Quel che è certo, è che del bene e del male solo lei si è assunta irrevocabilmente la responsabilità. Se l’è assunta quando ha rifiutato compromessi con i terroristi irlandesi e gli argentini alle Falkland. Se l’è assunta quando il figlio si perse nel deserto durante un rally e lei pagò le ricerche di tasca sua. Se l’è assunta nella sua lotta vittoriosa contro le Trade Unions (che avevano sul mercato del lavoro britannico lo stesso effetto di CGIL e Fiom), con l’impopolarissima poll tax proporzionale – ripresa tale e quale da The Constitution of Liberty di Hayek, il suo vangelo politico – e con il memorabile «No, no, no!» all’euro

Lo storico soppeserà gli indicatori economici, il consenso che la Thatcher assicurò ai Tories (che governarono dal 1979 al 1997), le proteste di chi patì il rigore di bilancio e lo smantellamento del Welfare assistenzialistico. Ma oggi preferisco pensare, con ammirazione, alle volte in cui il suo senso di responsabilità e la sua determinazione da leader le hanno dato la forza di soffocare emozioni, titubanze, ripensamenti.

La Thatcher è stata per la politica quel che Hayek è stato per la cultura: la protagonista – assieme all’indimenticabile Reagan – della rinascita del liberalismo classico, inevitabilmente alleato con il conservatorismo, come avrebbero voluto David Hume ed Edmund Burke. La Thatcher è stata per me uno dei punti di riferimento politici di questi miei primi anni di formazione culturale, il leader che aveva il coraggio di dire: «Il problema del socialismo è che a un certo punto i soldi degli altri finiscono». Il leader che lo diceva e si comportava di conseguenza, anziché parlare da von Mises e governare da Craxi.

Il suo discorso di insediamento, tratto da una preghiera di San Francesco, sarà per me un costante richiamo a una condotta equanime e, come la vita del «più grande uomo d’Inghilterra», scoperta per ragioni anagrafiche quando su quell’epoca era già calato il sipario, ricorderò per sempre anche questo 8 aprile. Il giorno in cui la Lady di Ferro si è dovuta arrendere. Il giorno in cui, come quando lei dimissionaria nel ’90 lasciò per sempre Downing Street, mi sono abbandonato a un moto di sincera commozione. Perché anche se per me la Thatcher era storia e non memoria, la sentivo parte della mia storia personale.
Rest in peace, Mrs. Prime Minister. 


Nessuna lacrima per la signora Thatcher
di Andrea Virga



L’8 aprile è morta per un ictus, all’età di 88 anni, Margaret Thatcher. La sua fama è legata alle sue politiche neoliberiste, che la resero un’icona della destra liberale e una storica protagonista dell’ondata che dagli anni ’70 in poi portarono le forze atlantiste alla vittoria nella Guerra Fredda e all’instaurazione di un’egemonia unipolare.

In Parlamento dal 1959, si distinse subito per le sue posizioni rigide per certi versi (sostegno alla pena di morte), progressiste per altri (votò a favore dell’aborto e della depenalizzazione dell’omosessualità), ma comunque nettamente liberiste in campo economico – ad esempio, accusò, con scarso senso della realtà, il governo laburista di portare il Paese verso il comunismo. Coerentemente a queste idee, come Sottosegretario all’Educazione (1970 – 1974), tagliò i fondi alle scuole, incluso il programma che forniva gratuitamente latte ai bambini, e promosse l’assorbimento delle grammar schools (l’equivalente del nostro liceo classico) da parte di scuole superiori generaliste (comprehensive schools). 

La crisi economica fece sì che il suo partito vincesse le elezioni ed ella diventasse Premier nel 1979, rimanendo in sella per tre mandati consecutivi fino al 1990. Fin da subito furono implementate politiche come l’aumento della tassazione indiretta e la deregolamentazione finanziaria. I grandi monopoli statali, anche in ambito energetico e industriale, furono privatizzati; il potere dei sindacati fu ridotto e la serrata proibita; gli scioperanti (in particolare i minatori) furono trattati con la massima durezza da parte delle forze dell’ordine.

Sulla politica estera, poi, la Thatcher rinsaldò i legami con gli Stati Uniti, promuovendo una politica estera aggressivamente occidentalista, anticomunista e imperialista. Resta famigerata per la severità e violenza con cui represse la lotta di liberazione irlandese nell’Ulster e per l’intervento militare nelle Malvine. Inoltre, appoggiò la politica reaganiana di deterrenza nucleare, fornendo basi britanniche per il bombardamento della Libia e l’installazione di missili nucleari statunitensi. Tuttavia, imitando l’apertura tattica di Nixon verso i comunisti antisovietici, non si fece scrupoli di appoggiare in sede ONU gli Khmer Rossi di Pol Pot contro il Vietnam o di presenziare alle esequie del Maresciallo Tito o di stabilire la restituzione di Hong Kong alla Cina popolare.

Ripugnerebbe al nostro animo festeggiare la sua dipartita e la nostra onestà ci impone di riconoscere le sue capacità personali e la sua importanza storica, seppur come figura emblematica del neoliberismo nella sua espressione più brutalmente antisociale ed anticomunitaria (“La vera società non esiste”, giunse una volta ad affermare).
Per questo, non spremiamo una lacrima oggi, né l’avremmo spremuta se quel lontano 12 ottobre 1984 avesse avuto successo l’attentato dell’IRA al Brixton Hotel. Pregheremo piuttosto Dio affinché abbia pietà della sua anima, oltre ogni questione umana e terrena. Lasceremo – come disse Bobby Sands, martire dell’indipendenza irlandese, alla cui lotta ella volle negare ogni dignità politica, lasciando che morisse di fame in una squallida cella, nonostante fosse stato eletto parlamentare britannico – che “la nostra vendetta sia la risata dei nostri figli”, perché un giorno possa morire anche tutto quello che rappresentò da viva e che rappresenterà da morta.



 

05 novembre 2012

In ricordo di Guy Fawkes, papista e bombarolo


di Marco Mancini

“Remember, remember
the fifth of November,
Gunpowder, treason and plot.
I see no reason
why Gunpowder treason
Should ever be forgot!” 
(filastrocca inglese)

Era la notte tra il 4 e il 5 novembre 1605, quando Guy Fawkes, ex-soldato di ventura, veniva fermato in una cantina da un drappello di armati al servizio della Corona inglese, mentre si preparava a far saltare in aria la Camera dei Lord con 36 barili di polvere da sparo, nel giorno della cerimonia d’apertura del Parlamento.

Veniva così sventata la cosiddetta “Congiura delle polveri”, ideata l’anno precedente da Robert Catesby e organizzata da un gruppo di cospiratori cattolici con l’intento di uccidere il re Giacomo I Stuart e il suo governo, onde ottenere, magari con l’ascesa al trono di sua figlia Elisabetta, una politica di maggiore tolleranza nei confronti dei cattolici delle Isole britanniche. Una data da ricordare non tanto per l’antiparlamentarismo che da tempo immemore connota il sottoscritto, ma anche e soprattutto perché ci consente di rievocare la dura oppressione a cui i nostri fratelli nella fede furono sottoposti nei primi secoli dell’Inghilterra anglicana.

A partire dall’Atto di Supremazia di Enrico VIII (1534), infatti, la condizione dei “papisti”, come i cattolici venivano chiamati con disprezzo, si era fatta durissima: essi subirono una vera e propria persecuzione, che in 150 anni provocò decine di migliaia di morti e fu interrotta solo durante il breve regno della cattolica Maria Tudor (1553-1558), soprannominata dai vincitori “la Sanguinaria” per la durezza usata nei confronti dei protestanti, nel tentativo di restaurare il cattolicesimo nel Regno. Cattolicesimo che continuò a essere professato dalla maggioranza della popolazione, di ogni ceto sociale, anche negli anni immediatamente successivi allo scisma e che fu espiantato a viva forza dall’anima degli inglesi con la persecuzione, specie durante il regno di Elisabetta I. Ovunque si osservava, come commentavano i visitatori inviati dalla Corona, “troppa caparbietà e ostinazione nel conservare le abitudini religiose papiste”.

I “papisti”, in quanto fedeli all’autorità di Roma, erano considerati colpevoli di alto tradimento, rifiutandosi del resto di riconoscere al re il titolo di Capo della Chiesa anglicana. Il clero cattolico, in particolare, fu bandito dal territorio inglese: questo, tuttavia, non impedì che sull’isola si continuasse a celebrare il Sacrificio, grazie al coraggio di tanti sacerdoti, soprattutto gesuiti, che dopo aver studiato nei seminari romani o francesi tornavano clandestinamente in patria, accolti da una vera e propria rete di protezione. Nelle residenze di campagna dell’aristocrazia cattolica erano spesso presenti nascondigli e passaggi segreti (se n’è avuta un’eco anche nell’ultimo film della serie di 007, “Skyfall”), che consentivano ai sacerdoti di sfuggire alle perquisizioni operate dalla soldataglia anglicana. Tra i tanti cripto-cattolici, figurava probabilmente anche William Shakespeare, ma di questo parleremo (forse) un’altra volta.

In questa situazione, l’ascesa al trono d’Inghilterra dello scozzese Giacomo I Stuart, figlio della cattolica Maria (la Maria Stuarda fatta uccidere da Elisabetta I), regina di Scozia, aveva creato nei sudditi cattolici la speranza di una piena tolleranza. Dopo alcune mosse iniziali, che sembravano andare in questa direzione, il re decise però di rinfocolare la polemica anti-papista, spingendo così i congiurati all’azione. Solo una lettera inviata al nobile cattolico lord Monteagle con l’intento di preannunciargli l’attentato e di metterlo così in salvo consentì la scoperta del piano.

A seguito di diversi interrogatori e di durissime torture, Guy Fawkes fu costretto a confessare i nomi dei suoi complici. Anche tre sacerdoti gesuiti, che pure erano o ignari di tutto o impediti dal rivelare il complotto in virtù del segreto confessionale, furono successivamente coinvolti: uno di loro, padre Henry Garnet, venne condannato e ucciso insieme ai congiurati. Gli fu risparmiata, tuttavia, la tremenda fine alla quale furono sottoposti Fawkes e i suoi compagni: essi furono impiccati e i loro corpi sventrati e squartati mentre erano ancora vivi, una prassi riservata ai condannati per alto tradimento.

In un’epoca in cui l’immagine di Fawkes viene abusivamente sfruttata, in virtù del fumetto “V per Vendetta” e del film ad esso ispirato, dai pirati di Anonymous e da altri gruppuscoli di stampo nichilista e anarcoide, è il caso di ricordare la ragione per la quale egli e i suoi compagni sacrificarono la vita, vale a dire la fedeltà alla Chiesa di Roma e l’amore per la Santa Eucarestia. Onore a Guy Fawkes, papista e bombarolo!