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20 aprile 2016

Socialisti in Vaticano. Perché la Chiesa non ricorda la lezione di San Giovanni Paolo II (e di Leone XIII)


di Alfredo Incollingo

In occasione del venticinquesimo anniversario dell'enciclica “Centesimus annus” (1991) di San Giovanni Paolo II la Pontificia Accademia delle Scienza Sociali non poteva non commettere una “gaffe” peggiore. Come disonorare la memoria di un Papa, che ha mostrato al mondo cosa fu veramente il comunismo, se non invitando i leader maggiori del socialismo internazionale?
Una parte del mondo cattolico purtroppo vede nel socialismo democratico non solo una somiglianza con la “Dottrina sociale della Chiesa”, ma anche un formidabile alleato nella giusta lotta alla povertà e ai soprusi sociali. Probabilmente si spera nella “buona fede” di una versione ideologica più moderata. In ciò la Chiesa Cattolica ha mostrato un pragmatismo e un realismo maggiore di qualsiasi ideologia di sinistra. San Tommaso d'Aquino riassumeva in “Ordo, Pax, Iustitia” (ordine, pace, giustizia) le peculiarità della migliore forma di governo in grado di assicurare il benessere e l'equità.
La lezione sociale cattolica tuttavia non è stata capita a fondo, soprattutto dagli stessi cattolici. Come non ricordate per esempio la stagione dei “cattocomunisti”? Aberrazioni ideologiche di questo tipo hanno purtroppo fiaccato la credibilità e l'azione della Chiesa Cattolica nel mondo.
La “Centesimus annus” ripercorre il cammino della dottrina sociale cattolica a partire dall'enciclica “Rerum Novarum” (1891) di Leone XIII. In questi cento anni la Chiesa Cattolica si è confrontata con il “mondo moderno” sul tema del lavoro e delle ingiustizie sociali. Lo ha sempre e comunque fatto criticamente nei confronti dei regimi socialisti e delle democrazie occidentali: “ordo, pax, iustitia" sono le direttrici per elaborare un sistema sociale ed economico equo. Il Vangelo prima di tutto!
Invitando il socialista statunitense Bernie Sanders e il leader ecuadoregno Correa la Pontificia Accademia ha ribaltato queste prassi.
“Tutte queste ragioni danno diritto a concludere che la comunanza dei beni proposta dal socialismo va del tutto rigettata, perché nuoce a quei medesimi a cui si deve recar soccorso, offende i diritti naturali di ciascuno, altera gli uffici dello Stato e turba la pace comune. Resti fermo adunque, che nell’opera di migliorare le sorti delle classi operaie, deve porsi come fondamento inconcusso il diritto di proprietà privata” (Rerum Novarum)
Leone XIII nella Rerum Novarum dichiarava la necessità di una giusta ripartizione delle ricchezze che avrebbe assicurato dignità all'operaio e ai ceti superiori. La giustizia sociale, mantenuta dal sistema corporativo, avrebbe garantito l'ordine e la pace sociale. Si sarebbe posto fine all'odio, animato dal movimento socialista, e all'ingiustizia, provocata dal capitalismo.
“I socialisti, attizzando nei poveri l'odio ai ricchi, pretendono si debba abolire la proprietà, e far di tutti i particolari patrimoni un patrimonio comune, da amministrarsi per mezzo del municipio e dello stato. […] Ma questa via, non che risolvere le contese, non fa che danneggiare gli stessi operai, ed è inoltre ingiusta per molti motivi, giacché manomette i diritti dei legittimi proprietari, altera le competenze degli uffici dello Stato, e scompiglia tutto l'ordine sociale” (Rerum Novarum)
Nella sua enciclica San Giovanni Paolo II attualizzava l'insegnamento di Leone XIII. Di fronte al collasso del sistema sovietico il Santo Padre si interrogava sul futuro, sugli effetti che il capitalismo nichilista occidentale avrebbe apportato in Europa e nei Paesi dell'ex Blocco Sovietico. E' soprattutto sul sistema capitalistico contemporaneo che si concentravano i principali interrogativi del Papa. Non discusse solo della giusta ripartizione delle ricchezze, ma individuò la comune origine antropologica del capitalismo e del comunismo: una radice anticristiana e di per sé disumana.
“L’errore fondamentale del socialismo è di carattere antropologico. Esso, infatti, considera il singolo uomo come un semplice elemento ed una molecola dell’organismo sociale, di modo che il bene dell’individuo viene del tutto subordinato al funzionamento del meccanismo economico-sociale, mentre ritiene, d’altro canto, che quel medesimo bene possa essere realizzato prescindendo dalla sua autonoma scelta, dalla sua unica ed esclusiva assunzione di responsabilità davanti al bene o al male”
Queste semplici parole dovrebbero bastare per ricordare ai cattolici gli errori del passato e quelle ideologie che hanno portano povertà e morte.
La Pontificia Accademia delle Scienze Sociali ha commesso un grande errore, che va a inficiare l'azione salvifica di Karol Wojtila.
 

10 gennaio 2016

La sediziosa immagine del Cristo che non è più Re

di Satiricus 

Riprendo il commento di Giuseppe Reguzzoni per maurizioblondet.it del 7 gennaio e dico la mia. In sintesi, i motivi che rendono inaccettabile e ridicola l’immagine qui riportata credo siano almeno due, ed entrambi afferiscono all’ambito ereticale; ad essi aggiungeremo un’osservazione curiosa, sceglierete voi se sia una vera aggravante. Il primo segno di eresia ci riporta a Marcione, colui che pretese di modificare le Sacre Scritture a suo piacimento. In merito ci basta dire che i vangeli della natività non li ha scritti un finanziere svizzero, ma un evangelista santo; non è segno del pensiero borghese del padronato, ma rivelazione divina che l’oro sia un dono degno di Cristo. In ogni caso a nessuno di noi è lecito metter mano alle Sacre Scritture.

Il secondo segno di sapore eretico è la totale sostituzione del Natale del Figlio di Dio con un’icona di propaganda socialista: un tocco di ebionitismo (Gesù è un uomo come gli altri) condito di marxismo. Gesù Cristo non riceve più oro, incenso e mirra, egli dunque non è più il Re della storia, il Figlio di Dio, il Redentore, ma è solo lo status symbol del renzismo e il gonfalone dell’immigrazionismo tanto di moda a Bruxelles. Variazione strampalata, in quanto così per l’ennesima volta viene messo in secondo piano ciò che dovrebbe stare in primo piano: l’assoluta divinità del Salvatore resta obnubilata dal comando relativo dell’accoglienza. 
Gesù stesso infatti ha lodato lo scriba che riconosce la sintesi della Legge nel dovere di amare Dio in modo assoluto e di amare il prossimo in modo relativo, cioé come se stessi. Meglio non fare il presepe, anziché confondere l’epifania della luce salvifica con l’alias di un qualsiasi accampamento profughi.

Si aggiunga che nel fumetto è Cristo stesso a rifiutare i doni: un atto di disobbedienza alla Missione affidatagli dal Padre? Almeno Kazantzakis aveva indicato questa come l’ultima tentazione, non come la prima scappatella. La curiosità è che i poveri magi, tra i quali il povero nero, che una volta rappresentavano gli stranieri da accogliere, d’improvviso si vedono respinti. Simpatico riflusso bolscevico. Dunque nella partita tra stalinismo e darwinismo vince il primo: il negro povero la spunta sul negro ricco, e questi resta a bocca asciutta, coronato e mazziato! Meno male che è solo una vignetta.
 

30 novembre 2013

Costanzo Preve: dal comunismo alla comunità

di Andrea Virga e Lorenzo Roselli
Il 23 novembre scorso è venuto a mancare Costanzo Preve, uno dei più eminenti e brillanti filosofi politici che il nostro paese (ma non solo) abbia conosciuto negli ultimi cinquant’anni. Sentiamo il bisogno di ricordare che uomo e pensatore egli fu, non soltanto per la scarsissima risonanza mediatica che la sua morte sembra aver riscontrato, ma anche e soprattutto perché debitori della sua ridefinizione del concetto di comunitarismo – e, per estensione, di socialismo – che affronteremo più avanti. Per tracciare un riassunto della sua opera, risultano imprescindibili alcuni cenni biografici che, oltre a contestualizzare maggiormente il suo pensiero nel quadro politico italiano ed europeo, mettono ancor più in luce le doti e l'incredibile valore dello studioso piemontese.
 

18 novembre 2013

Silvio all'Avana

di Andrea Virga
Stando all’autorevole sito di analisi politica Dagospia, il Cavaliere Silvio Berlusconi, unico leader plausibile del centrodestra italiano da vent’anni a questa parte, avrebbe recentemente affermato, sconsolato: «Avessi il passaporto me ne andrei ad Antigua». In effetti, tra le condanne giudiziarie e soprattutto l’improba fatica di continuare a mantenere insieme l’Armata Brancaleone – anzi, la voliera di colombe, falchi, falchetti, polli e uccelli paduli – che è ormai l’attuale centrodestra, non c’è da stupirsi che egli cominci a sentire tutto il peso dei suoi oltre settantasette anni.
 

10 aprile 2013

La morte di Maggie divide la destra

Chi ci segue avrà notato che – tra i tavoli di C&dM e su molte altre piattaforme simili – esistono  diverse opinioni riguardo le opposte ricette economiche, politiche e sociali realizzatesi durante il XX secolo. Ciò che per alcuni può essere sinonimo di cerchiobottismo o confusione, per noi è invece l'ennesima prova dell'incompiuta composizione tra i figli di due diverse idee di "destra". Figli che, sulle nostre pagine, decidono però di seppellire l'ascia di guerra in nome dell'amore verso la Chiesa.
La morte di Margaret Thatcher ha fatto nuovamente affiorare tale divergenza. Per questo, evitando logoranti "botta e risposta" a distanza di giorni, vi offriamo stavolta – uniti in unico contributo – due brevi e opposti punti di vista sulla figura della Lady di Ferro. (RF)

La Lady di Ferro si è spezzata
di Alessandro Rico

La Lady di Ferro si è spezzata. Non l’avevano piegata le proteste, le sommosse, gli attentati, le campagne denigratorie di artisti e fricchettoni. Non la piegava il brusio dell’opposizione, quando alla House of Commons la apostrofava con durezza. E non la piegò l’avanzamento del progetto dell’Unione Europea, di cui aveva intravisto i rischi. C’erano solo lei e i suoi principi. Lei si poteva odiarla, i suoi principi non condividerli: ma non si poteva non subire il fascino della fermezza, dell’inamovibilità, dell’essere paziente purché si facesse a modo suo.

Lo storico, nel tentare un bilancio della sua premiership, dovrà sottrarsi a due contrapposte tentazioni fatali: la damnatio memoriae e l’agiografia. Come tutte le esperienze umane, anche quella di Margaret Thatcher ha conosciuto meriti e colpe, limiti e conquiste. Quel che è certo, è che del bene e del male solo lei si è assunta irrevocabilmente la responsabilità. Se l’è assunta quando ha rifiutato compromessi con i terroristi irlandesi e gli argentini alle Falkland. Se l’è assunta quando il figlio si perse nel deserto durante un rally e lei pagò le ricerche di tasca sua. Se l’è assunta nella sua lotta vittoriosa contro le Trade Unions (che avevano sul mercato del lavoro britannico lo stesso effetto di CGIL e Fiom), con l’impopolarissima poll tax proporzionale – ripresa tale e quale da The Constitution of Liberty di Hayek, il suo vangelo politico – e con il memorabile «No, no, no!» all’euro

Lo storico soppeserà gli indicatori economici, il consenso che la Thatcher assicurò ai Tories (che governarono dal 1979 al 1997), le proteste di chi patì il rigore di bilancio e lo smantellamento del Welfare assistenzialistico. Ma oggi preferisco pensare, con ammirazione, alle volte in cui il suo senso di responsabilità e la sua determinazione da leader le hanno dato la forza di soffocare emozioni, titubanze, ripensamenti.

La Thatcher è stata per la politica quel che Hayek è stato per la cultura: la protagonista – assieme all’indimenticabile Reagan – della rinascita del liberalismo classico, inevitabilmente alleato con il conservatorismo, come avrebbero voluto David Hume ed Edmund Burke. La Thatcher è stata per me uno dei punti di riferimento politici di questi miei primi anni di formazione culturale, il leader che aveva il coraggio di dire: «Il problema del socialismo è che a un certo punto i soldi degli altri finiscono». Il leader che lo diceva e si comportava di conseguenza, anziché parlare da von Mises e governare da Craxi.

Il suo discorso di insediamento, tratto da una preghiera di San Francesco, sarà per me un costante richiamo a una condotta equanime e, come la vita del «più grande uomo d’Inghilterra», scoperta per ragioni anagrafiche quando su quell’epoca era già calato il sipario, ricorderò per sempre anche questo 8 aprile. Il giorno in cui la Lady di Ferro si è dovuta arrendere. Il giorno in cui, come quando lei dimissionaria nel ’90 lasciò per sempre Downing Street, mi sono abbandonato a un moto di sincera commozione. Perché anche se per me la Thatcher era storia e non memoria, la sentivo parte della mia storia personale.
Rest in peace, Mrs. Prime Minister. 


Nessuna lacrima per la signora Thatcher
di Andrea Virga



L’8 aprile è morta per un ictus, all’età di 88 anni, Margaret Thatcher. La sua fama è legata alle sue politiche neoliberiste, che la resero un’icona della destra liberale e una storica protagonista dell’ondata che dagli anni ’70 in poi portarono le forze atlantiste alla vittoria nella Guerra Fredda e all’instaurazione di un’egemonia unipolare.

In Parlamento dal 1959, si distinse subito per le sue posizioni rigide per certi versi (sostegno alla pena di morte), progressiste per altri (votò a favore dell’aborto e della depenalizzazione dell’omosessualità), ma comunque nettamente liberiste in campo economico – ad esempio, accusò, con scarso senso della realtà, il governo laburista di portare il Paese verso il comunismo. Coerentemente a queste idee, come Sottosegretario all’Educazione (1970 – 1974), tagliò i fondi alle scuole, incluso il programma che forniva gratuitamente latte ai bambini, e promosse l’assorbimento delle grammar schools (l’equivalente del nostro liceo classico) da parte di scuole superiori generaliste (comprehensive schools). 

La crisi economica fece sì che il suo partito vincesse le elezioni ed ella diventasse Premier nel 1979, rimanendo in sella per tre mandati consecutivi fino al 1990. Fin da subito furono implementate politiche come l’aumento della tassazione indiretta e la deregolamentazione finanziaria. I grandi monopoli statali, anche in ambito energetico e industriale, furono privatizzati; il potere dei sindacati fu ridotto e la serrata proibita; gli scioperanti (in particolare i minatori) furono trattati con la massima durezza da parte delle forze dell’ordine.

Sulla politica estera, poi, la Thatcher rinsaldò i legami con gli Stati Uniti, promuovendo una politica estera aggressivamente occidentalista, anticomunista e imperialista. Resta famigerata per la severità e violenza con cui represse la lotta di liberazione irlandese nell’Ulster e per l’intervento militare nelle Malvine. Inoltre, appoggiò la politica reaganiana di deterrenza nucleare, fornendo basi britanniche per il bombardamento della Libia e l’installazione di missili nucleari statunitensi. Tuttavia, imitando l’apertura tattica di Nixon verso i comunisti antisovietici, non si fece scrupoli di appoggiare in sede ONU gli Khmer Rossi di Pol Pot contro il Vietnam o di presenziare alle esequie del Maresciallo Tito o di stabilire la restituzione di Hong Kong alla Cina popolare.

Ripugnerebbe al nostro animo festeggiare la sua dipartita e la nostra onestà ci impone di riconoscere le sue capacità personali e la sua importanza storica, seppur come figura emblematica del neoliberismo nella sua espressione più brutalmente antisociale ed anticomunitaria (“La vera società non esiste”, giunse una volta ad affermare).
Per questo, non spremiamo una lacrima oggi, né l’avremmo spremuta se quel lontano 12 ottobre 1984 avesse avuto successo l’attentato dell’IRA al Brixton Hotel. Pregheremo piuttosto Dio affinché abbia pietà della sua anima, oltre ogni questione umana e terrena. Lasceremo – come disse Bobby Sands, martire dell’indipendenza irlandese, alla cui lotta ella volle negare ogni dignità politica, lasciando che morisse di fame in una squallida cella, nonostante fosse stato eletto parlamentare britannico – che “la nostra vendetta sia la risata dei nostri figli”, perché un giorno possa morire anche tutto quello che rappresentò da viva e che rappresenterà da morta.



 

09 marzo 2013

Infatuarsi di Chavez: una mancanza di realismo

di Paolo Maria Filipazzi
Dopo la morte di Hugo Chavez si sono succeduti diversi giudizi. Interessante è la schizofrenia registratasi in seno alla cosiddetta Destra, dove ai liberali e ai conservatori che hanno brindato alla morte del “nemico del mondo libero” si affiancano i “sociali” (nonchè il popolo di quelli che “Non sono di Destra, sono fascista e il Fascismo è una via al socialismo) che hanno pianto con toni lirici la morte del Caudillo.
 

07 marzo 2013

«Sigo aferrado a Cristo»: Vita e morte di Hugo Chávez (II parte)

Tuttavia, è del Chávez cattolico che c’interessa parlare. La sua vita personale, al di là di gravi peccati come i due divorzi, è stata espressione comunque di una forte fede personale, di stampo popolare. Cresciuto in una famiglia cattolica, da bambino fu chierichetto. Contrariamente alla volontà della nonna e della madre che avrebbero voluto che entrasse in seminario, scelse l’unica altra via di riscatto sociale aperta ad un venezuelano d’umili origini: l’esercito.

 

06 marzo 2013

«Sigo aferrado a Cristo»: Vita e morte di Hugo Chávez (I parte)


di Andrea Virga
Sessant’anni fa moriva Josef Stalin. La “Gazzetta del Popolo” titolò “Il Papa prega per Stalin” a sottolineare che anche tra le Sacre Mura dominava il dovere cristiano di pregare per i morti, soprattutto per quelli più bisognosi della misericordia divina. È il caso di ricordarlo a quei “cattolici”, perfino “consacrati”, che in occasione della morte del Presidente venezuelano Hugo Rafael Chávez Frías, danzano come iene intorno al suo cadavere ancora caldo, addirittura ululando Te Deum di “ringraziamento”. Li si guardi bene: sono gli stessi che sei anni fa piangevano intorno alla bara di Pinochet, assolto del sangue di migliaia di oppositori assassinati e torturati in nome dell’anticomunismo, paravento degli interessi dei borghesi locali e internazionali.
 

12 settembre 2012

I frutti amari delle primavere arabe


di Andrea Virga
Ad un anno e mezzo di distanza, sembra che finalmente si sia spento quel coro mediatico che esaltava le “primavere arabe”, cui faceva eco il ceto semicolto italiano, con le sue ciance di “rivolte democratiche”, di “tiranni abbattuti” e di “rivoluzione dei social network”. I vari bloggers (come se avere un blog fosse una qualifica o un lavoro) democratici nostrani esaltavano i “colleghi” egiziani e tunisini, e si lamentavano della presunta inerzia italiana. Come quasi sempre accade, i fatti gli hanno dato torto marcio.