In
tempi di grandi cambiamenti, nemmeno istituzioni secolari come le
banche popolari e cooperative riescono a resistere agli assalti
riformatori. Il consiglio dei ministri del 20 gennaio ha approvato
infatti il decreto legge che prevede, entro i prossimi 18 mesi, la
trasformazione in società per azioni delle banche popolari di grandi
dimensioni (oltre gli 8 miliardi di attivo); nelle scorse settimane
il Governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco ed il capo della
Vigilanza Carmelo Barbagallo in due diversi interventi hanno
sollecitato le Banche di Credito Cooperativo a migliorare il proprio
assetto organizzativo, mediante l'adozione di modelli europei che
consentano di ottenere una maggiore solidità ed efficienza; martedì
17 febbraio il Direttore della medesima istituzione, Salvatore Rossi,
ha illustrato il succitato decreto alla Camera dei Deputati,
elogiando la bontà dell'iniziativa. Due economisti in un editoriale
sul Corriere della Sera hanno addirittura suggerito al premier di
avvalersi del voto di fiducia per far passare il decreto.
Ieri si è votato in commissione, e pare che il governo voglia andare avanti per la sua strada.
Vedremo
invece come questa spinta al cambiamento possa rappresentare un serio
problema per il sistema economico italiano, al di là dei facili
entusiasmi.
In
Italia esistono due tipologie giuridiche di banca, che sottendono due
diverse concezioni dell'economia: le società per azioni e le
cooperative. Le società per azioni – spa – sono società a scopo
di lucro (puntano cioè ad aumentare il valore delle azioni e degli
utili distribuiti, piuttosto che il credito all'economia), mentre le
cooperative hanno uno scopo mutualistico (erogare credito ai soci,
sostenere il territorio, creare occupazione); un'altra differenza
riguarda il coinvolgimento nella vita dell'azienda: nelle cooperative
i soci contano per testa e non per numero di azioni, ed esistono dei
particolari requisiti per diventare socio (per esempio il beneplacito
dei soci già esistenti), data l'importanza dell'elemento personale
all'interno del mondo cooperativo; un'altra questione riguarda
l'utile prodotto, che nelle cooperative deve essere parzialmente
destinato a riserva oppure ad attività sociali, e solo marginalmente
distribuibile ai soci, mentre nelle spa può essere facilmente
monetizzabile dagli azionisti, che possono in qualunque momento
vendere le azioni.
Per
quanto riguarda i numeri, la cooperazione rappresenta
il 40 per cento del credito italiano, e fra il 2010 e il 2013 essa ha
erogato 6,3 miliardi di euro in più rispetto al triennio precedente,
a fronte di una contrazione del resto del sistema bancario pari a 52
miliardi: detto in altri termini, il supporto che è mancato da parte
delle banche a scopo di lucro è stato parzialmente offerto dalle
cooperative, pagando questa scelta con l'aumento delle perdite su
crediti, che hanno colpito il loro patrimonio.
Ora,
toccando la riforma sia interessi politici di un certo peso che la
libertà d'impresa, costituzionalmente tutelata, presentiamo qualche
critica nel metodo e nel merito, visto anche il preoccupante tacito
assenso della stragrande maggioranza dei media e dell'accademia
italiani (ringraziando invece i contributi dei professori Leonardo Becchetti, Stefano Zamagni e Giulio Sapelli, fra gli altri).
Per
quanto riguarda il metodo, sorprende che il segretario di un partito
che si definisce democratico decida di avvalersi dello strumento del
decreto legge per una riforma così delicata, senza consultare prima
le associazioni di categoria né la Banca d'Italia (intervenuta solo
ex post); pare piuttosto che il presidente del consiglio sia più
ricettivo alle indicazioni delle istituzioni europee (Commissione e
Banca Centrale) e internazionali (come il Fondo Monetario
Internazionale). Sicuramente vi è stato un problema di incapacità
di riforma da parte delle associazioni bancarie (sono venti anni che
si parla di riforma delle Popolari e degli aggiustamenti sono
necessari), ma questo non può permettere l'esclusione dei corpi
intermedi dalla partecipazione e dal coinvolgimento democratico (così
come è già successo ai sindacati in occasione del Jobs Act), a
scapito della sussidiarietà e del pluralismo economico. Inoltre, il
decreto andrebbe ad alterare il meccanismo selettivo del mercato (che
premia chi riesce a sopravvivere al gioco della concorrenza) e a
calpestare la libertà di auto-organizzazione dei corpi sociali, con
una spinta uniformista che metterebbe in pericolo tutto ciò che non
si allinea al diktat europeo, cancellando culture e istituzioni
secolari con un tratto di penna.
Passiamo
ora alle critiche sul merito del provvedimento. L'obiettivo che il
governo intende perseguire attraverso questo decreto è quello di
“garantire
che la liquidità disponibile si trasformi in credito a famiglie e
imprese e favorire la disponibilità di servizi migliori e prezzi più
contenuti”, anche se è chiaro che questo sia un obiettivo
secondario rispetto a quello della solidità patrimoniale degli
intermediari finanziari.
Per
quanto riguarda l'obiettivo dell'esecutivo, possiamo affermare con
certezza l'inesistenza di evidenze empiriche che dimostrano che
l'assetto cooperativo delle popolari freni o renda più costoso il
credito. Anzi, l'aumento della concentrazione del mercato del
credito, che aumenta il rischio sistemico (ovvero che le crisi delle
banche “too big to fail” diventino degli tsunami per il sistema
economico) e diminuisce la concorrenza nell'erogazione dei servizi,
non avrebbe affatto delle ricadute positive sull'economia italiana,
caratterizzata dalla presenza di piccole e medie imprese che
necessitano di interlocutori a loro vicini. Tra l'altro, i risultati
dell'AQR, le recenti “ispezioni europee”, i cui risultati sono
stati diffusi a inizio novembre, non hanno mostrato grandi differenze
tra le banche italiane. E anche le recenti notizie di cronaca pare
che non stiano facendo sconti a nessuno.
Tornando
all'obiettivo della solidità patrimoniale, il provvedimento
permetterebbe alle istituzioni estere di acquisire le
azioni delle neo-trasformate banche (scenario gradito agli operatori
di borsa, visto l'aumento dei titoli azionari e le recenti uscite
delle agenzie di rating) e quindi ripatrimonializzarle, con l'effetto
collaterale di scardinare i blocchi di potere e far ripartire il
credito all'economia. Qui però ci possiamo chiedere se
effettivamente la trasformazione in società per azioni sia l'unico
modo per risolvere questi problemi: non è infatti vero che
l'ingresso di nuovi soci tutelerà dalla comparsa di nuovi blocchi di
potere (sono dinamiche che riguardano anche banche non cooperative),
né che le future banche, una volta controllate da istituzioni
estere, manterranno e investiranno i capitali in Italia (li
utilizzeranno piuttosto con la logica della massimizzazione del
profitto), né che il credito ripartirà, perché bisogna creare le
condizioni di sistema affinché le imprese italiane ritornino ad
investire. Per quanto riguarda la difficoltà intrinseca di aumentare
il patrimonio delle banche cooperative, è vero che la natura
comunitaria e la forma giuridica non permette molto facilmente la
ricapitalizzazione delle banche, ma non è impossibile, visto che
tutte le maggiori banche popolari hanno raccolto i capitali necessari
nel corso dell'ultimo anno e mezzo (a differenza di altre banche che,
non trovando nessuno disposto a prendersele, sono state
sostanzialmente nazionalizzate). Infine, la questione non è nemmeno
quella della grandezza delle popolari e della conseguente incapacità
a sostenere il territorio, visto che, come ricordato sopra, è stato
l'intervento delle cooperative che ha sostenuto l'economia nel
momento in cui le banche efficienti tiravano i remi in barca, ed è
proprio questo sostegno al territorio che ha colpito il patrimonio
delle banche cooperative.
Sono anni che le succitate istituzioni internazionali (e i loro burattini) ci spolpano, attaccando le nostre forme di democrazia economica, imponendoci una fallimentare moneta comune, costringendoci a riforme economiche a perdere. Sarebbe ora di svegliarsi.