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08 luglio 2017

Il valore santificante di una buona economia


di Francesco Arnaldi

Quando studiavo economia, c’era una battuta ricorrente che girava tra amici. Faceva pressappoco così: “Chi è andato a studiare filosofia, ha la passione per il sapere. Chi è andato a studiare fisica, ha la passione per la scienza. Chi è andato a studiare economia, ha la passione dei soldi”. Ironia a parte, mi è capitato spesso di dover rispondere alla domanda sul perché mi piacesse tanto l’economia, ed ogni volta che mi ponevano tale domanda rilevavo una sorta di diffidenza verso la materia che stavo studiando. È come se l’economia sia vista un po’ con diffidenza al giorno d’oggi, come un qualcosa di losco di cui ci si occupa solo perché non se ne può fare a meno. Anche la figura dell’economista è vista un po’ come il pubblicano di un tempo, una specie di san Matteo ma prima dell’incontro con Gesù. In ambito cattolico questa cosa è a volte drammaticamente accentuata, soprattutto in quegli ambienti dove si fa strada facilmente un pauperismo semplicistico che vede nei soldi e nella ricchezza qualcosa di sporco e di cattivo in sé, quasi a rimpiangere i bei tempi del baratto in cui si scambiavano pesci per carote.
Ma perché, dunque, a un cattolico dovrebbe interessare l’economia? Lasciate che vi spieghi perché interessa a me. L’economia si può dire che nasca nella Genesi: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra» (Gen 1,28). Creando l’uomo a sua immagine e somiglianza, infatti, Dio gli dà anche il compito di prendersi cura del creato, di “soggiogare” la creazione affinché sia ordinata ad aiutare l’uomo nella sua ricerca della santità. Questo possiamo dire essere il ruolo dell’economia: la gestione della creazione secondo il piano di Dio. Si tratta quindi di prendersi cura dell’uomo nel suo aspetto più materiale; ambito ovviamente meno importante di quello spirituale ma comunque fondamentale. Sta infatti al genio dell’uomo, all’inventiva e alle capacità donategli da Dio, il saper trasformare un brullo e incolto appezzamento di terra in un campo che dia frutto.
Naturalmente, le cose sono molto cambiate nell’ambito economico da quando questo compito consisteva unicamente nel coltivare campi e pescare pesci, ma la sua vocazione non cambia. È compito dell’economia gestire le risorse, le ricchezze, i beni materiali dell’uomo affinché tutto sia ordinato secondo quanto disposto da Dio fin dal principio.
A leggere queste frasi paragonandole con il mondo attuale dell’economia probabilmente viene da sorridere. Nello scorso secolo abbiamo infatti visto contrapposte due grandi distorsioni economiche che hanno tradito questa vocazione: il comunismo e il consumismo. Partendo dal concetto che l’uomo si esaurisce unicamente nella sua dimensione materiale, queste due ideologie hanno distorto la realtà piegandola ai propri scopi.
Di cosa abbiamo bisogno quindi? Abbiamo bisogno di riscoprire il valore santificante dell’economia. Oggi in tanti hanno gioco facile nello sparare a zero contro il sistema economico, colpevole di essere ormai lontano dalle persone e dai loro reali bisogni. Se questo è certamente vero, non si può arrivare alla completa demonizzazione del capitale e del risparmio, colpevolizzando i ricchi per il solo fatto di esserlo e chiedendo a gran voce vaghi interventi da parte dello Stato affinché in qualche modo sistemi le cose.
Da parte di tutti ci vorrebbe una riflessione sulla storia del nostro sistema economico, per capire cosa ci ha portati al benessere di cui godiamo oggi. Senza il terreno culturale del cristianesimo non sarebbe stato possibile infatti alcuno sviluppo economico come quello che abbiamo avuto, e questo farebbero bene a ricordarlo anche coloro che incolpano l’Occidente per tutta la povertà presente nel mondo. Non siamo diventati l’angolo del globo più ricco e sviluppato per pura fortuna o per chissà quali comportamenti scorretti: lo siamo diventati perché il cristianesimo si è innestato nella cultura greco – romana, creando un humus che nel corso dei secoli ha formato le coscienze di un popolo che ha sempre guardato alla sua dimensione spirituale. Così facendo, ha saputo ordinare tutte le sue arti al vero bene, economia compresa. Se si vuol capire la crisi, se si vuol capire come uscirne, se si vuol capire come aiutare le popolazioni povere del mondo a fare quello scatto in più che può portare anche a loro il benessere di cui hanno bisogno, c’è un solo modo: l’economia deve riscoprire il suo ruolo primario, ovvero la gestione del creato secondo il piano di Dio per la salvezza dell’uomo.

 

11 novembre 2016

Martino di Tours, il santo demolitore

(o dove volano gli stracci)

 

di Matteo Donadoni

«Toto orbi peculiari patrono»

L’11 novembre è il giorno dell’inumazione a Tours (l’antica Caesarodunum e Civitas Turonorum) di quel personaggio eccezionale che conosciamo come san Martino.
Devo ammettere che la vicenda umana di san Martino Vescovo, il patrono della mia parrocchia, mi ha sempre affascinato da bambino, e non solo per aver constatato la sua irridente primavera. Fu un uomo straordinario e perfino paradossale, Martino. Non realizzò mai ciò che desiderava: voleva essere eremita e fuggire il mondo per vivere in ascesi imitando Antonio e Pacomio, invece fu costantemente circondato dalla gente. Aveva rifiutato di essere prete, non reputandosi degno, e fu vescovo. Ricercato l’oscurità ed invece la sua biografia fu scritta mentre era ancora in vita.

La conosciamo grazie a Sulpicio Severo (360 ca – 420 ca), l’amico che gli sopravvisse abbastanza per raccontarci la sua vita e la sua morte. La sua «Vita Martini» fu quello che oggi chiameremmo un best-seller: a Roma andava a ruba ed era letta in modo diffuso in grandi città come Cartagine o Alessandria d’Egitto e perfino a Tebe. Era tanto conosciuto che san Gregorio di Tours (538 – 594) lo definisce «toto orbi peculiari patrono».
La storia di Martino è innanzitutto una storia di ricchi. Sulpicio era bello, giovane e ricco. Abitava nella prospera Burdigala (Bordeaux) del IV sec, ed era avvocato. Cedette quasi tutti i suoi beni ai poveri. Amico di Sulpicio era Ponzio Anicio Meropio Paolino, poi conosciuto come Paolino da Nola (355 – 431), discendente dall’antica gens Anicia, che era ancora più ricco. Proprio a lui Sulpicio deve la propria conversione al cristianesimo. Entrambi sono l’esempio di Martino, entrambi hanno lasciato i propri immensi beni ai poveri.

Era nato a Sabaria Sicca, Martino, un avamposto della provincia di Pannonia, l’attuale Ungheria, nel 316. Erano trascorsi solo tre anni da quell’Editto di Milano con il quale Costantino aveva inaugurato un lunghissimo periodo di luce per la Chiesa, traendola dalla clandestinità delle catacombe. “Piccolo Marte” era il nome scelto da suo padre, un tribuno militare (grado abbastanza alto) venuto dalla gavetta, che si augurava per il figlio una brillante carriera fra le aquile di Roma. Una volta congedato, al padre veterano venne assegnato, come tradizione, un podere. La famiglia si trasferì così nei pressi di Ticinum, antico nome di Pavia, nella tranquilla pianura padana. Là il piccolo trascorse l’infanzia.
A quel tempo si diffondeva la vita eremitica in Egitto ed in Siria e la notizia era corsa veloce in tutto l’impero. Ecco quale sarebbe stata la sua volontà. A 10 anni il Piccolo Marte scappa di casa per 3 giorni e si rifugia in una chiesa per farsi cristiano. Ma nel frattempo, i barbari si erano di nuovo fatti minacciosi e Roma più che mai aveva bisogno del suo esercito. Perciò, un riluttante Martino quindicenne venne arruolato ed inviato nelle guardie imperiali, e ciò lascia intuire che fosse un ragazzotto piuttosto solido. Si trattava di un corpo scelto di 500 cavalieri magnificamente equipaggiati, le “scholae” imperiali, la guardia personale dell’imperatore che a seguito della riforma costantiniana avevano sostituito i pretoriani. Da Costantinopoli fu inviato di stanza alla frontiera in Gallia vicino a quello che era stato il quartier generale di Cesare, Samarobriva (l’odierna Amiens), un ponte sulla Somme di importanza strategica. Al cavaliere scelto Martino fu dunque assegnato un cavallo e uno schiavo, che tuttavia era spesso servito a tavola dal padrone, fra le risatine dei commilitoni.

Il fatto. Inverno 335. Un povero è lì mezzo nudo e tutto tremante. Martino non ha spiccioli e non trova che dividere la preziosa clamide a metà. La clamide bianca, foderata d’agnello, segno della guardia imperiale, i cui membri erano perciò chiamati “candidati”, che significa appunto “vestiti di bianco”. Non avrebbe potuto immaginare la portata del suo gesto: finché esisterà la Chiesa cattolica Martino continuerà a tagliare il suo manto. La notte seguente vede in sogno Nostro Signore Gesù Cristo, vestito della clamide, che dice a gran voce: «Martino, il quale non è ancora che un catecumeno, mi ha coperto con questa veste» - Martino infatti non era ancora battezzato, ma conosceva il Vangelo. Terminata la ferma, lascia quarantenne l’esercito nel 356, fra l’altro dopo aver bisticciato con l’imperatore in persona, quel Flavio Claudio Giuliano passato alla storia come l’Apostata (306 – 363), al quale aveva ottenuto senza colpo ferire una vittoria contro i Germani. D’altra parte in base alle parole di Gesù, ribadite dal Concilio di Arles del 314, i cristiani non devono abbandonare il servizio militare dopo il battesimo. Infatti nel cattolicesimo non si parla mai di guerra santa, ma di guerra giusta. Il militare si accontenti della sua paga da militare, non da disertore.

Viaggia molto, Martino, per tutta la vita. In Germania conosce Massimino di Treviri (fine III sec. – 349) strenuo avversario dell’arianesimo, perciò amico di sant’Atanasio (296 – 373), e, tornato in Gallia Ilario di Poitiers (315 – 367), saranno poi entrambi santi. Sant’Ilario voleva consacrarlo sacerdote, ricevutone il rifiuto, lo nomina almeno esorcista. Ma la strada è segnata. Proprio per strada, allorché vuole tornare a salutare i genitori, nel frattempo tornati a Sabaria, viene rapito dai briganti sulle Alpi. A seguito di una discussione con il carceriere, commiserato da Martino, il quale sosteneva che quel triste mestiere rendesse indegni della misericordia di Dio, il brigante lo lascia libero con la richiesta di pregare per lui. Sulpicio riferisce che in seguito il brigante ebbe una condotta di vita esemplare. Tuttavia è nei pressi di Milano l’incontro più drammatico. Un uomo dall’aspetto minaccioso gli dice: «Dovunque andrai e qualunque cosa tenterai troverai il diavolo davanti a te». Era il diavolo. Giunto a casa riuscì a convertire la madre, ma, bastonato dagli ariani, dovette fuggire. Andò in esilio sull’isola Gallinaria, ma in materia di erbe selvatiche non era tanto ferrato e quasi morì avvelenato dall’elleboro. Tornò in Gallia non lontano da Poitiers, dove, lasciatosi convincere da Ilario a prendere l’Ordine sacro, resuscitò un suo catecumeno deceduto che stava già davanti al Giudice.
Nel 371 viene fatto vescovo contro la sua volontà dalla folla, che lo scova nel pollaio dove si era andato a nascondere, grazie al baccano fatto dalle oche. Del resto era usuale l’acclamazione popolare, come accadde anche ad Ambrogio a Milano, il quale non era neppure battezzato. Vedendo certe nomine recenti, forse andrebbe rispolverata.
Da vescovo è notabile la sua attività di demolitore di diversi idoli e incendiario di templi pagani, non di rado usando solamente la preghiera, spesso fomentando le folle. Un giorno, fece tagliare un enorme pino secolare, sacro ai fedeli dell’antica religione celtica (ancora ce n’erano), che era inclinato, mettendosi in piedi serenamente sotto la traiettoria di caduta, ed esso, contro ogni legge della fisica, cadde dalla parte opposta. Si tratta di mostrare la potenza di Dio anche attraverso le opere. Ogni tempo ha i suoi idoli, i quali confessano satana. Ma se oggi le vestigia dei templi pagani possono essere il corrispettivo inconscio culturale di ciò che è l’ipofisi per l’encefalo, allora non simboleggiavano altro che l’errore.
Non amava gli alti scranni vescovili, Martino, ma prediligeva quel derivato che i medievali chiamano sgabello e i grecizzati tripode. Uomo semplice, infaticabilmente impegnato a predicare alla gente semplice, scacciava i demoni, come quello che si era impossessato di un cuoco, il quale digrignava i denti minacciando di dilaniare chiunque si avvicinasse. Il santo, infilate subito le dita in bocca all’ossesso, disse: «se hai qualche potere divorale!», il demonio, non potendo uscire dalla bocca… «fu evacuato con un flusso del ventre».
Martino di Tours è anche taumaturgo. Una volta, con estremo orrore di tutti i presenti, bacia un lebbroso e questi ne è guarito. Ciò non prima di aver resuscitato addirittura uno schiavo suicida.
A Marmoutier, dal latino maius monasterium, imbastisce de facto un monastero ante regulam, ciò ne fa il precursore di san Benedetto (480 – 547), mentre una terza resurrezione ne fa il corrispettivo occidentale del suo contemporaneo orientale san Nicola di Mira (270 – 343). Oggi i preti non parlano più di miracoli, se mai di “miracoli della scienza” che però non hanno proprio nulla di miracoloso. Paradossale, come Martino. Paradossale come la Chiesa del IV secolo che, ottenuta la libertà di culto, ben presto si aggroviglia nelle eresie, alle quali i santi risponderanno con l’ortodossia del monachesimo regolare. Si potrebbe dire che il sonno della religione genera chiostri.
Amava i poveri i vescovo di Tours, ma non i pauperismi, infatti, pur avendolo ripreso duramente, era solito frequentare la corte dell’imperatore usurpatore Magno Massimo (335 – 388), al quale fra l’altro predisse la sconfitta per mano di Valentiniano II (371-392) e la cui sposa cristiana, sull’esempio della peccatrice del vangelo, asciugatigli i piedi con i capelli, insistette per servirlo a pranzo.

Quando sente essere arrivata la fine convoca i suoi fratelli e fa loro sapere che sta morendo con queste parole: «Dura è la lotta che noi combattiamo, Signore, servendoti in questo corpo; bastano le battaglie che ho affrontato fino a questo giorno. Ma se tu vuoi che resti di guardia davanti al tuo campo per continuare a compiervi la stessa missione, non mi sottraggo affatto e non prenderò a scusa le debolezze dell’età. Adempirò fedelmente il compito che ti mi affidi. Finché tu stesso me ne darai l’ordine, servirò sotto le tue insegne. Anche se il desiderio di un vecchio è ricevere il congedo una volta terminato il suo servizio, il mio coraggio vince tuttavia gli anni e non sa cedere alla vecchiaia. E se tu risparmi la mia età ormai avanzata, la tua volontà è per me un bene. Quanto a costoro per cui io temo, li custodirai tu stesso». Il testamento di un soldato. E ai discepoli che vogliono portargli almeno una coperta e aiutarlo a girarsi: «Lasciatemi guardare il cielo piuttosto che la terra». In quel mentre, ancora una volta, spunta il diavolo. Martino lo apostrofa: «Perché sei qui bestia sanguinaria? Non troverai nulla in me, maledetto: il seno di Abramo mi accoglie». Pronunciando queste parole rende il suo spirito.

Morì a mezzanotte della domenica 8 novembre 397 e, stando a Gregorio di Tours c’è chi dice di aver sentito un concerto nei cieli. I funerali furono l’11 ed il suo corteo funebre, accompagnato da una turba di fedeli provenienti dalle zone di Poitiers e Tours, sembrava proprio il trionfo di un generale romano. E’ questo l’esempio iconico migliore per sintetizzare il grande passaggio di civiltà dall’Antichità al Medioevo. Poco meno di un secolo dopo la sua morte, infatti, viene deposto l’ultimo imperatore di Roma.

Martino è un santo quotidiano, un santo dell’umile dovere e delle mediocri soddisfazioni. Ha fatto sempre ciò che gli veniva chiesto da Dio. Martino con san Girolamo, sant’Ambrogio e sant’Agostino ha gettato le basi di quella res publica christiana che caratterizzerà il Medioevo, e lo ha fatto in un tempo particolare, un tempo in cui, insieme ad altri lugubremente impotenti spettatori di quella tragica catastrofe che fu la fine del Mondo Antico (come Claudiano o Venanzio Fortunato), Sidonio Apollinare lamentava riferendosi ai Burgundi: «Come comporre un verso di sei piedi con un patrono che ne misura sette in altezza?».
Nonostante tutto, il mantello fu conservato e venerato come miracoloso ed entrò a far parte della collezione di reliquie dei re Merovingi. Il termine latino per "mantello corto", cappella, venne esteso alle persone incaricate di conservare la clamide di san Martino, i cappellani; da questi venne applicato all'oratorio reale, che non era una chiesa, e veniva chiamato cappella. Sulla tomba del santo vescovo venne costruita una splendida cattedrale gotica, ma, dato che in ogni tempo esistono Patroni e “patroni”, verrà bruciata dagli Ugonotti e rasa al suolo dai giacobini. Ne rimangono, oggi, solamente due torri.

 

08 aprile 2014

Papa Francesco non scioglie lo IOR: fine del mito pauperista?

di Francesco Mastromatteo



Braccia listate a lutto, sguardi funebri, cuori infranti e fegati devastati dalla bile. Di che parliamo? Ovviamente, della notizia che ha gettato nello sconforto più nero milioni di papolatri neoconvertiti sulla via di Buenos Aires, gli atei devoti di sinistra, capitanati da Scalfari&co: Papa Francesco non scioglierà lo Ior. L'Istituto per le opere religiose, infatti, non sarà soppresso ed il Papa, riaffermandone "l'importanza della sua missione per il bene della Chiesa cattolica”, ha sostenuto che cui continuerà a fornire servizi finanziari specializzati in tutto il mondo, con l'impegno di realizzare un allineamento sostenibile alle norme internazionali.
 

24 maggio 2013

Dio accolga con sé don Gallo, ma ci liberi dai «gallini»

di Alessandro Rico

Don Andrea Gallo è tornato alla casa del Padre. Al Signore rivolgiamo le nostre preghiere, perché lo accolga nella Sua pace. La pietà per il defunto non elimina, ovviamente, la distanza che ci separa da ciò che quest’uomo ha voluto rappresentare: un movimentista, un pauperista, certamente un filantropo, ma non un sacerdote cattolico. Peggio di don Gallo sono però i «gallini», i suoi seguaci o ammiratori, dentro e soprattutto fuori la Chiesa. Perché, come diceva qualcuno, se un prete è un cattivo prete, trascina con sé un sacco di gente cui ha dato cattivo esempio.