
A noi Europei, Obama piace da
morire. In lui rivediamo un modo tutto nostro di concepire la politica, ovvero:
un mezzo per eliminare ogni forma di malcontento. Come tutti i democratici, Obama è
da questo punto di vista «meno americano»: la sua sensibilità lo porta ad
anteporre la giustizia sociale alla lotta contro il Big Government, ossessione dei padri costituenti.
Così, la sua
rielezione accelera lo scivolamento degli Stati Uniti verso una governance economica interventista che,
forse, ha precedenti solo nel New Deal. Probabilmente le conseguenze non
saranno identiche, visto che i Repubblicani mantengono la maggioranza alla
Camera, mentre Roosevelt, divenuto al terzo mandato praticamente un ducetto,
godeva di un appoggio quasi incondizionato anche da parte dell’opinione
pubblica (ora più severa nei confronti di Obama, apparso infatti decisamente
più realista in questa campagna elettorale). Fatto sta che la politica
economica del suo governo si è iscritta perfettamente nel solco del
tradizionale keynesismo: e, anche se negli USA, la celebre «piena occupazione» è
lungi dal realizzarsi, è in questo senso che erano indirizzate, ad esempio, la
scelta di aumentare il tetto del debito pubblico (in parole povere: siamo
troppo indebitati? Stampiamo più soldi), o il salvataggio dell’industria
automobilistica, come nel peggiore dei costumi corporativisti all'italiana.
Si conferma, insomma, un trend
del tutto irrazionale: nonostante la crisi sia stata provocata dagli effetti di
lungo termine di queste stesse politiche, peraltro promosse, dalla seconda metà
del ‘900, pure dai Repubblicani – è comprensibile: sono misure che manifestano
conseguenze incoraggianti nel breve periodo, giusto il tempo per farsi
rieleggere –; nonostante sia proprio l’attaccamento morboso al keynesismo ad
averci trascinato nel baratro, la gente se la prende col capitalismo, convincendosi
che servano regolamentazioni ancora più limitanti, e un intervento dello Stato
ancora più pervasivo.
D'altronde, se sono gli stessi
americani ad aver abbandonato l’antica idea che Tremonti chiamerebbe
spregiativamente «mercatista», vieppiù il Vecchio Continente, incline al welfare
e alla politica redistributiva, subisce il fascino di Barack; che ai meno
politicizzati, poi, evoca l’American
dream oramai infranto, il reietto che si riscatta perseverando nella sua «ricerca
della felicità». Eppure, se non ci fermassimo in religioso ossequio di fronte
alle faccine di Obama, icona pop stile Andy Warhol, ci renderemmo conto che non
è solo sull'economia, che il presidente non convince. Qualcuno ricorda
Guantanamo? Il supercarcere per terroristi detenuti in condizioni disumane, quello
che Obama promise di smantellare? Ebbene, nonostante un ordine di chiusura del
2009, quella prigione è ancora funzionante. E il Patriot Act? Il decreto di Bush che, ad esempio, consente alle
forze dell’ordine di sfondare la valigia a un viaggiatore per «motivi di
sicurezza»? Nel 2011, l’amministrazione Obama l’ha prorogato per altri quattro
anni. Potete fumare uno spinello, magari allestire un matrimonio gay, ma scordatevi
il bagnoschiuma in aereo.

E poi ci sono i bombardamenti che
i droni statunitensi conducono dal Pakistan allo Yemen, coinvolgendo spesso e
volentieri i civili. Se ‘sta roba l’avesse fatta Bush, ci saremmo sorbiti una
marea di «vispe Terese» a piagnucolare per i diritti umani. Invece, a Obama
hanno dato il premio Nobel per la pace.
È certo che il GOP non andrà
molto lontano, se non produrrà un leader con il carisma di Barack e, cosa ancor
più importante, se non sancirà una tangibile discontinuità nell'agenda politica:
senza voler tirare fuori l’utopistico End
the Fed di Ron Paul, tuttavia non mi pare che il programma dell’Elefantino
sia così lontano dal mezzo New Deal di Obama, nonostante quel pizzico di
retorica antistatalista, ultimo lascito di un classical liberalism relegato a qualche esponente di nicchia.
C’è una via d’uscita? Il sistema
democratico ha inesorabilmente trasformato la politica in un distributore
automatico di privilegi: da un lato, il governo ha avocato a sé poteri
d’intervento che nessun padre costituente americano gli avrebbe accordato; dall'altro, poiché ottenere la maggioranza è una questione
di voti, i politici subiscono la pressione di qualunque coalizione di interessi,
in cambio del suo appoggio elettorale. Forse questo è un circolo da cui non ci
sarà più possibile venir fuori. Sarò pessimista, ma mi viene da dire: No, we can’t.