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08 giugno 2019

Elezioni. Vince il buonsenso, perdono le derive etiche

di Giorgio Enrico Cavallo
A bocce ferme, è possibile tracciare un quadro non tanto dei vincitori delle ultime elezioni (cosa evidente) ma piuttosto degli sconfitti, almeno nel nostro orticello di casa, che poi piccolo non è. La Lega di Matteo Salvini ha vinto perché è stata capace di creare un fronte unico contro alcune derive culturali e politiche degli ultimi anni, palesemente in rotta con il buonsenso (ed è per questo che lo slogan della Lega è stato incentrato sul ritorno del buonsenso in politica). Un anno di governo ha permesso alla Lega di confermarsi anche al Sud, diventando partito nazionale con numeri che la equiparano alla vecchia Dc. In questo caso, una “Dc” per far tornare il buonsenso nel settore della burocrazia, delle imposte, dell’immigrazione. E via dicendo. Senza dimenticare il buonsenso anche nei rapporti con i cattolici, da troppo tempo sbertucciati da una sinistra allegramente pro-islam e fautrice di ogni legge contro natura.

Questo sembra essere il motivo delle percentuali da prefisso telefonico dei partiti satelliti del PD (+Europa dell’abortista Bonino non viene eletta in Europa… se ne faranno una ragione e magari i radicali cambieranno ancora una volta casacca), bocciata ovunque già da anni e ancora una volta presa a sberle elettorali dagli italiani. Ma è stato anche il motivo del crollo verticale dei Cinque Stelle, che dopo il susseguirsi delle sconfitte nelle regionali hanno cercato di ritrovare se stessi cavalcando i classici cavalli (perdenti) della sinistra estrema. C’è stato anche un disperato tentativo di trasfigurazione del Movimento in Comitato di Salute Pubblica, nel nome di quella onestà che i grillini considerano caratteristica propria del loro solo partito. Come i Robespierristi. Male: buona parte dell’elettorato Cinque Stelle, che è eterogeneo, non ha apprezzato la svolta radicale del Movimento. Del Pd ogni tacere è bello: il partito di sinistra che “inspiegabilmente” piace a Santa Marta ha avuto leader che si dicevano cattolici, per poi compiere una politica antitetica con i valori cattolici di cui sopra. Anzi, per compiere una politica che favorisce tutti gli altri, ma umilia i cristiani (e gli italiani). Ogni riferimento all’immigrazione incontrollata e gaudente è ovviamente casuale. Dopo aver saccheggiato e piegato l’Italia per assecondare i padroni del vapore di Bruxelles e Berlino, il Pd non si è guadagnato il secondo posto per meriti, piuttosto perché i media hanno continuato a propinarlo come unica alternativa alla Lega. Pessima alternativa, viene da dire; ma pur sempre di alternativa si tratta.

E di Berlusconi che dire? Il partito del Cavaliere poteva essere un’alternativa al Pd; peccato che la realtà anagrafica del leader di Forza Italia non giovi; soprattutto, non ha giovato la perdita di credibilità e di identità seguita all’appoggio che gli azzurri diedero al governo Monti (dopo il golpe bianco che giubilò in quattro e quattr’otto lo stesso Berlusconi nel novembre 2011…), e da lì alcune uscite di dubbio gusto di alcuni suoi esponenti: dal supporto alle istanze LGBT al placet agli animalisti. Entrambe, vere urgenze per un paese che sopporta il peso di gioghi enormi; ma gli animaletti da compagnia vengono prima di tutto, evidentemente. In sostanza, Forza Italia pare un guscio vuoto, che non sa più che strada prendere senza un Berlusconi in forma smagliante. E forse è bene così.

Alla fine dei conti, l’unica forza politica capace di raccogliere istanze di buon senso è stata la Lega, assieme a Fratelli d'Italia. Con tutti i suoi difetti, sia chiaro; ma un merito bisogna darglielo: ha saputo intercettare e far proprie le richieste di una nazione fino a questo momento sopite o addirittura ridicolizzate. Specialmente il malcontento contro la incomprensibile Unione Europea, realtà ormai in completa antitesi con la logica e la ragione. E alla fine non sorprende che le istanze lontane dai problemi del paese, dalle follie omosessualiste ai deliri degli appassionati di cagnolini e gattini, dai soliloqui dei paladini dell’accoglienza (ma con il portafoglio degli altri, eh) ai mantra dei veneratori dell’onestà, siano state sonoramente bocciate dagli italiani. Nel penoso panorama politico odierno, basterebbe, in ogni fronte politico, recuperare il buon senso. Ma forse è chiedere troppo.



 

02 marzo 2018

Cattolici chi votare/7. Appello di un sovranista cattolico

di Marco Muscillo
Mi sono deciso a scrivere queste righe in chiusura della campagna elettorale per esprimere dei pensieri e delle opinioni che tengo conservate del mio animo da diverso tempo, ma che spero che ora possono magari essere condivise da altri cattolici come me.

Non nego che a spingermi a scrivere abbia contribuito anche il giuramento sul Vangelo fatto da Matteo Salvini in Piazza Duomo a Milano, lo scorso sabato 24 marzo. Matteo ha ricevuto tantissime critiche per quel gesto, provenienti anche da ambienti cattolici e dal clero, ma io personalmente l’ho molto apprezzato. L’hanno accusato di essere un opportunista, di voler raccattare voti anche tra i cattolici, di aver attentato alla laicità dello Stato e addirittura alcuni l’hanno accusato di aver compiuto un vero e proprio sacrilegio. A me personalmente non interessa affatto il motivo per cui lo ha fatto, ne apprezzo il gesto in sé, ma allo stesso tempo vorrei ricordare a Matteo Salvini che con il Signore non si scherza e che un giuramento fatto, rimane pur sempre un giuramento e per questo va rispettato.

Non a caso, nel Vangelo di Matteo, Gesù ordina di non giurare proprio: “Avete anche inteso che fu detto agli antichi: Non spergiurare, ma adempi con il Signore i tuoi giuramenti; ma io vi dico: non giurate affatto: né per il cielo, perché è il trono di Dio; né per la terra, perché è lo sgabello per i suoi piedi; né per Gerusalemme, perché è la città del gran re. Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno” (Mt 5, 33-37).
Matteo quindi si è fatto carico di un bel fardello e delle sue azioni, un giorno, ne darà conto al Signore, nel bene e nel male.

Mi dichiaro sovranista e apprezzo il percorso di crescita fatto da Fratelli d’Italia e Lega dall’epoca Monti in poi. Ho seguito dal 2011-2012 l’evoluzione e lo sviluppo dei partiti sovranisti in Italia, dopo essermi avvicinato alle posizioni no Euro seguendo Alberto Bagnai, Claudio Borghi, Vladimiro Giacché, Nino Galloni e tanti altri. Sul piano economico, quindi, condivido pienamente la critica macroeconomica alla moneta unica, alla globalizzazione, all’ordoliberismo europeo.
Sul piano materiale non ho nulla da aggiungere, perché sia Giorgia Meloni che Matteo Salvini hanno già trovato le guide giuste da questo punto di vista. Vorrei invece fare un discorso di tipo etico e spirituale.

A mio modo di vedere queste elezioni vedono contrapposte due visioni del mondo, della politica e della società: Sovranismo contro Globalismo, Identità contro Multiculturalismo, Politica contro Finanza, e aggiungo: Bene contro Male.
Non è un caso che nella coalizione di centrosinistra ci sia un partito chiamato “+ Europa” e che questo partito sia guidato dalla radicale Emma Bonino. Da quarant’anni a questa parte la Bonino, insieme ad altri, è stata l’artefice della sovversione della società italiana fondata sui valori cristiani. Divorzio, aborto, matrimonio e adozioni omosessuali, testamento biologico ed eutanasia, legalizzazione delle droghe: sono tutti temi cari alla Bonino, la quale ha lottato strenuamente tutta la vita per realizzarli.

Oggi la Bonino è paladina degli Stati Uniti d’Europa e dell’accoglienza dei migranti. Le sue antiche battaglie si legano a quelle che i partiti sovranisti oggi combattono. Oggi la Bonino chiede di cedere sovranità all’Unione Europea, di “congelare la spesa pubblica per 5 anni” per abbattere il debito pubblico, cioè di fermare per 5 anni le rivalutazioni e gli aumenti delle pensioni e degli stipendi pubblici, di ritardare il pensionamento o l’assunzione nel settore pubblico e di continuare se non aumentare il programma di accoglienza dei migranti, aiutata dalle Ong sorosiane. Ma accanto a ciò chiede di legalizzare le droghe, di trasformare le unioni civili in matrimonio omosessuale, di permettere agli omosessuali di poter adottare ed avere figli tramite maternità surrogata, di trasformare il testamento biologico in eutanasia vera e propria.

Questo programma è condiviso dai suoi alleati di coalizione, dal Partito Democratico e da alcuni famosi personaggi che dal 2011 hanno contribuito alla rovina materiale del nostro Bel Paese: Elsa Fornero, Mario Monti, Giorgio Napolitano.
Cari Matteo e Giorgia, quello che vi ho appena descritto, per me cattolico, è il Male. E’ l’azione del Maligno nella società e nella politica.

Quello che vi chiedo in queste righe è di essere voi il Bene. Se davvero siete intenzionati a realizzare un progetto di Italia e di società diametralmente opposto alla precarizzazione, alla disoccupazione, al multiculturalismo, alla globalizzazione sfrenata, alla sottomissione dello Stato ai mercati finanziari, allora dovete contrappore anche una visione etica e valoriale diametralmente opposta a quella della Bonino, della Boldrini e di Renzi.
Temi etici e questioni materiali sono estremamente collegati. Vi faccio soltanto un esempio: uno Stato che smette di pensare materialmente agli ultimi, ai deboli, agli innocenti e ai malati, non può trovare nessun’altra soluzione se non la morte. Ecco a cosa serve l’eutanasia: a disfarsi di un peso, a gettare un arnese rotto e non più utile, a liberarsi un costo che pesa sul bilancio statale.
La vostra visione del mondo ha bisogno quindi di poggiarsi su quei valori che, come ha giustamente capito Matteo Salvini, si fondano sul Vangelo di Nostro Signore Gesù Cristo, sulla Parola di Dio, il Verbo di Dio incarnato.

Entrambi sapete che il mondo cattolico è attualmente orfano di rappresentanti politici e di partiti che si pongono come obiettivo quello di difendere i cosiddetti “valori non negoziabili”. Negli ultimi tempi si è diffusa una certa confusione sia nelle istituzioni ecclesiastiche che nel mondo cattolico laico tanto che si è arrivati a trascurare il lavoro svolto su questi temi durante i pontificati di San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI e ad approvare due leggi inique come quelle sulle unioni civili e sulle DAT.
Vi chiedo quindi di riempire questo vuoto e di prendere sul seriamente la causa dei cattolici. So che in questo periodo non siete stati con le mani in mano e avete preso impegni, assieme agli altri partiti del centrodestra, con alcune associazioni cattoliche ad abrogare o modificare queste leggi inique. Per questo vi ringrazio, ma allo stesso tempo vi chiedo di fare di più.
Sapete, nell’Antico Testamento leggiamo che le carestie e i problemi materiali subiti dal popolo d’Israele possono essere delle punizioni divine, mandate con l’intenzione di correggerne la condotta. Tutto il popolo, assieme ai suoi Re, abbandonano il Signore e non seguono più la sua Legge e ciò provoca la punizione materiale; Dio non concede più il Suo aiuto e lascia il popolo in balìa delle calamità.

Riscoprire il cristianesimo, non solo dal punto di vista culturale e tradizionale, ma anche ponendo attenzione ai valori non negoziabili è prerequisito essenziale per il successo materiale.
Vi chiedo di seguire l’esempio dei vostri colleghi sovranisti in Europa e nel mondo, a cui voi per molte ragioni vi ispirate. Il Presidente degli Stati Uniti ad esempio, quel Donald Trump inviso all’establishment progressista ma che dopo un anno di governo sta facendo molto bene, sta attuando il suo programma, sta risollevando l’economia e facendo calare la disoccupazione. Ebbene, Donald Trump è un pro-life dichiarato, oltre a ottime cose sul piano materiale sta attuando anche politiche in contrasto all’aborto, sta tagliando i fondi alla più grande multinazionale dell’aborto, la Planned Parenthood e nei suoi discorsi cita continuamente la religione e Nostro Signore Gesù Cristo, senza provarne vergogna e disinteressandosi delle critiche. Per questi motivi Donald Trump ha il pieno appoggio dell’elettorato cattolico negli USA.

Stessa cosa vale anche per il suo collega russo, Vladimir Putin, il quale ha fatto accompagnare la rinascita economica e politica del suo Paese, con la rinascita della fede ortodossa e dei valori del Cristianesimo. Un vero e proprio miracolo, nella Russia che fino a poco tempo prima era la Patria dell’ateismo e del materialismo.
Venendo poi in Europa, abbiamo gli esempi di Polonia e Ungheria. In Polonia sta rinascendo fortemente il sentimento cristiano, tanto che la nazione polacca è stata consacrata alla presenza delle autorità politiche e religiose e Nostro Signore Gesù Cristo è stato consacrato Re di Polonia.
Anche in Ungheria, il Paese in forte crescita dal punto di vista economico, i valori cristiani sono tenuti in profonda considerazione. Il governo ungherese, ad esempio, è l’unico che sta agendo per aiutare i cristiani perseguitati dagli islamisti in Siria e in Iraq. Giorgia Meloni durante la sua visita nel Paese magiaro, avrà poi sicuramente avuto il privilegio di vedere la corona di Santo Stefano, simbolo dell’Ungheria cristiana, custodita nella sua teca di vetro. Fu portata lì in processione e Viktor Orbàn camminava in testa al corteo. Quella reliquia ricorda al popolo ungherese che un tempo venivano consacrati i Re e che non c’è potere politico senza Cristo.
Cristo è Principio di ogni cosa, anche dell’autorità e del potere politico. Egli sta preparando qualcosa di grande in questo mondo e sta mettendo a poco a poco i tasselli giusti per realizzare il Suo progetto. Io spero che in questo progetto divino in Terra possiate e vogliate rientrare anche voi.
Domenica 4 marzo, tra pochi giorni, gli italiani si recheranno alle urne e decideranno chi dovrà governare il nostro Bel Paese. Ma prima di loro, sarà Nostro Signore a dover decidere a chi affidare l’Italia.
Siatene quindi consapevoli e affidate voi stessi e i vostri progetti politici al Signore. Egli vi ascolterà, vi accoglierà e vi aiuterà. Ma prima, dovete ascoltare voi Lui:

Sapienza - Capitolo 6
II. SALOMONE E LA RICERCA DELLA SAPIENZA
I re devono ricercare la sapienza
[1]Ascoltate, o re, e cercate di comprendere;

imparate, governanti di tutta la terra.

[2]Porgete l'orecchio, voi che dominate le moltitudini

e siete orgogliosi per il gran numero dei vostri popoli.

[3]La vostra sovranità proviene dal Signore;

la vostra potenza dall'Altissimo,

il quale esaminerà le vostre opere

e scruterà i vostri propositi;

[4]poiché, pur essendo ministri del suo regno,

non avete governato rettamente,

né avete osservato la legge

né vi siete comportati secondo il volere di Dio.

[5]Con terrore e rapidamente egli si ergerà contro di voi

poiché un giudizio severo si compie

contro coloro che stanno in alto.

[6]L'inferiore è meritevole di pietà,

ma i potenti saranno esaminati con rigore.

[7]Il Signore di tutti non si ritira davanti a nessuno,

non ha soggezione della grandezza,

perché egli ha creato il piccolo e il grande

e si cura ugualmente di tutti.

[8]Ma sui potenti sovrasta un'indagine rigorosa.

[9]Pertanto a voi, o sovrani, sono dirette le mie parole,

perché impariate la sapienza e non abbiate a cadere.

[10]Chi custodisce santamente le cose sante sarà santificato

e chi si è istruito in esse vi troverà una difesa.

[11]Desiderate, pertanto, le mie parole;

bramatele e ne riceverete istruzione.
 

28 febbraio 2018

Cattolici chi votare/6. Contro il rancore mondiale

di Matteo Donadoni
Siamo alle politiche. Premesso che, se fosse per me, regnerebbero gli Asburgo o i Borboni e fine del cinema. Ma, dato che siamo in democrazia, abbiamo il diritto dovere di votare. E di parlarne. Quindi funziona grosso modo così, prima ti chiedono cosa voterai - chissà cosa si aspettano – poi, dato che ormai gli spiattelli in faccia senza timore che voterai la Meloni, iniziano a farti l’elenco di tutti i difetti della candidata più in gamba in Italia. In questo caso le quote rosa non contano, anzi, quando sostenevo Trump mi chiedevano non senza una nota di livore cosa mai avessi contro le donne, ora che voto una donna, sono retrogrado se l’interlocutore è una donna, e poco cristiano se l’interlocutore è progressista. Perché? Perché molte persone covano, come tanti cervelli di gallina, delle uova metafisiche. Covano per anni, covano un’ossessione. Finché alla fine nasce un pulcino che pigola: “fascisti!”

Ora, io non ho nulla contro le ossessioni. Non sempre le ossessioni sono pericolose, lo sono in certi casi, ad esempio se sei su una barca di legno e se l’ossessione è una balena bianca. Però, francamente, non si può pretendere come fanno certi esponenti di sinistra che ho difficoltà a nominare, che si candidi solo chi sta simpatico a loro, o che il gioco democratico sia veramente democratico solamente se attuato fra partiti progressisti. Squalificare come fascista l’avversario politico in quanto tale, per quanto abbia ampiamente dimostrato di accettare e rispettare le regole della convivenza democratica, denota irresponsabilità e non è certo un atteggiamento né un’operazione degna di una persona che abbia capito cosa sia la democrazia. E in fondo non la merita.

I progressisti hanno un concetto peculiare di democrazia, va bene votare solo se il voto è progressista. Altrimenti un Mario qualsiasi preso da una banca a casaccio fa al caso loro. Intanto chiude un negozio ogni ora, le tasse aumentano, i servizi diminuiscono, gli Italiani diventano un popolo di poveri costretti a mantenere altri poveri importati a bella posta per abbassare i tetti salariali e disintegrare la nostra cultura e la nostra religione. Ma in fondo che cos’è il progresso? Avere il supermercato aperto ventiquattro ore e il medico dalle sedici alle diciotto. Tutti democraticamente responsabili, tutti sull’attenti con la parola d’ordine di turno, tutti moderni, trasparenti, inclusivi. Tutti pronti ad accogliere, ascoltare, aiutare. Ma prova a dissentire, prova a rifiutarti di lasciarti andare fra le spoglie morte della mutabilità, a ergerti saldo anche sopra una minuscola convinzione che li contraddica. Diventi subito un populista un fascista, un ignorante.

Già, forse è vero, sono ignorante. Come diceva C. S. Lewis «Non è necessario manipolare le persone istruite, credono già a tutto. Quelli che sfogliano le riviste intellettuali vanno già bene così». È vero, i politici sulla piazza non sono perfetti, non mi dilungo su chi votare perché molti hanno già chiarito il quadro, ma queste elezioni sono forse l’ultima occasione politica per fermare la distruzione umana ed economica del nostro paese ad opera del vero potere internazionale, che è sempre apolitico, ed è espresso da personaggi autonominati nei gangli dell’Unione Europea. Un potere che impone la propria ideologia a tutti i popoli europei ormai debilitati da routine geriatriche e già oggi senza un reale potere. Queste elezioni (e la vittoria dei sovranisti) sono più importanti di quanto non si creda, ad esse è affidata la “questione antropologica” e il nostro diritto ad esistere come civiltà italiana, perché quando la nostra cultura non verrà più insegnata: «gli ideali e i legami ereditati dal passato spariranno e la nostra civiltà dovrà fronteggiare, indifesa, la marea montante del rancore mondiale» (R.Scruton).
 

26 febbraio 2018

Giuramenti con Rosario e cristianesimo in politica

di Franco Ressa
I fatti: Sabato 24 Febbraio 2018 il segretario della Lega Nord, Salvini, al termine del suo comizio in piazza del Duomo a Milano, tenendo un rosario in mano ha affermato: “Giuro di applicare davvero la costituzione rispettando gli insegnamenti contenuti nel Vangelo”. La curia arcivescovile di Milano ha le sue finestre proprio sulla piazza del Duomo, l’arcivescovo Delpini deve aver udito direttamente Salvini e si è affrettato a far sapere che “Nei comizi si parli solo di politica”. Il Monsignore non si è mai accorto di quanta politica sia mai stata fatta dalla chiesa Cattolica in appoggio a tanti (troppi) governi democristiani (poco edificanti)?
Né Delpini né alcun altro ha l’autorità di imporre ciò che si può dire o no in un libero comizio. L’arcivescovo dovrebbe poi rileggere nel Vangelo la frase di Gesù: “Beato è colui che non si scandalizza di me” (Matteo 11,6). Da quando in qua si può proibire ad un cristiano di affermare pubblicamente la fede nella parola di Dio ? Questo veniva fatto in tempi pagani, durante l’impero romano. Chi dichiarava la propria fede in Cristo veniva gettato ai leoni nell’anfiteatro. Ma i cristiani di allora non recedevano, e neanche quelli di oggi dovrebbero chiudersi nelle chiese per dichiarare la loro fede, perché Gesù aveva detto: “Quello che dico a voi nelle tenebre proclamatelo nella luce; ciò che udite nell’orecchio, annunciatelo sui tetti” (Matteo 10, 26). Si potrebbe obiettare che il politico fingerebbe una fede per ottenere il voto dei fedeli. C’è però da riconoscere che costui si prende una responsabilità non solo con gli elettori, ma con Dio stesso. Gli elettori hanno la mente labile, Dio no, e gli chiederà conto di ogni sua parola. Concludendo, a ciascuno il suo campo d’azione, ma nessuno si senta padrone esclusivo di quella fede che prima di essere nostra fu di tante generazioni di nostri antenati, ben prima che sorgesse qualsiasi ideologia politica.

 

19 febbraio 2018

Cattolici chi votare/3. La macronizzazione di Forza Italia

di Marco Sambruna.

Nelle ultime elezioni francesi abbiamo assistito a un interessante esperimento politico finalizzato alla conservazione del potere al di la delle sigle, dei partiti e delle leadership: il Potere infatti ha mostrato quanto sia abile nel clonare se stesso e perpetuarsi con una nuova fisionomia apparente, ma con gli stessi contenuti politici.

Il Partito Socialista, ossia la realtà politica incaricata di dileguare l’identità e la sovranità francese, guidato dal machiavellico Hollande ormai in caduta libera prima delle elezioni ha compiuto due mosse da maestro: ha eliminato Fillon candidato conservatore favoritissimo all’Eliseo prima di essere travolto da uno scandaletto tutto sommato risibile – avrebbe fatto assumere la moglie presso un ente di prestigio – di cui a tutt’oggi non c’è alcuna sentenza di colpevolezza; ma soprattutto ha clonato il Partito Socialista trasferendone il programma verso la nuova formazione politica “En Marche” dell’enfant prodige già consulente Goldman Sachs, Emmanuel Macron.

“En Marche” non ha fatto altro che raccogliere l’eredità che il Partito Socialista gli ha trasmesso: un passaggio del testimone, o meglio una metamorfosi, che ha permesso al Potere mondialista, nichilista e denatalista di restare saldamente al governo nel paese transalpino e quindi di garantire la prosecuzione del programma di disgregazione della civiltà europea: Macron proseguirà il programma di delocalizzazione delle imprese, di secolarizzazione della società, di dissoluzione dell’identità culturale che già furono di Hollande. Non bisogna infatti dimenticare che, nonostante il richiamo al socialismo evochi scenari politici di segno contrario, il Partito Socialista Francese era libertario sul piano etico, liberalista sul piano giuridico, liberista sul piano economico, e dunque in virtù di tutto questo come naturale conseguenza tenacemente europeista.
“En Marche” è esattamente omogeneo a questo profilo politico: infatti è anch’esso libertario, liberalista, liberista e dunque tenacemente europeista. Solo i più sprovveduti fra gli elettori, tra cui come spesso accade i cattolici, hanno pensato che Macron rappresentasse la svolta rispetto alle politiche mondialiste di Hollande.

LO SCENARIO ITALIANO
Come sappiamo a breve anche in Italia si svolgeranno le elezioni politiche.
I temi più dibattuti si possono riassumere in tre macro categorie:
  • Lavoro e previdenza.
  • Bioetica.
  • Europa ed euro.
In tutti questi ambiti dopo le prime roboanti dichiarazione tese a smarcarsi il più possibile dal progressismo mondialista, Silvio Berlusconi ha cominciato a convergere su posizioni così moderate da apparire pressoché organiche a quelle del PD tanto da configurare uno scenario di tipo francese in cui il PD clona se stesso in FI e Berlusconi si “macronizza” cioè si traveste da innovatore ed elemento di rottura col passato mentre in realtà non fa altro che adeguarsi alle politiche progressiste della legislatura uscente magari con qualche ridimensionamento strategico.
Insomma esiste un patetico parallelo fra gli ex principi non negoziabili della Chiesa attuale e quelli di Forza Italia: in entrambi i casi si stanno verificando clamorosi dietrofront.

In ambito lavorativo e previdenziale gli oggetti del contendere principali sono due: il job act e la “riforma Fornero”. Sul primo Berlusconi dopo averne paventato l’abolizione ci ha ripensato: non si parla più di abolizione, ma semmai di correzione perché a parte qualche emendamento la legge va bene così com’è (vedi qui ).
Idem sulla legge Fornero: secondo il leader di Forza Italia “alcune cose vanno mantenute” tra cui l’età pensionabile (vedi qui ).
Capitolo bioetica: fermo restando che ormai, tranne qualche posizione isolata, Forza Italia ha abbondantemente metabolizzato sia l’aborto che il cosiddetto divorzio breve, resta sul piatto degli ex “principi non negoziabili” indicati dalla Chiesa solo la questione DAT cioè le Disposizioni Anticipate Trattamento ossia il biotestamento: mentre nel centro destra Lega e FdI hanno votato compattamente contro, la dirigenza di Forza Italia ha lasciato libertà di voto ai propri parlamentari. Di più: mentre Lega e Alternativa Popolare hanno proposto alla legge più di 3000 emendamenti con l’intento di bloccarne il percorso, Forza Italia non ha frapposto alcun ostacolo di natura giuridica o procedurale alla legge ( qui ).
Sull’Europa Berlusconi non ha dubbi: il futuro d’Italia è l’Europa. E’ vero che indica la necessità di un’ Europa liberale e cristiana diversa da quella attuale, ma l’esperienza storica ci induce a molte riserve circa la compatibilità fra istanze liberali e cattoliche. E la possibilità di un eventuale referendum sulla permanenza o meno del paese nella zona euro? per Berlusconi non se ne parla nemmeno, tanto più che il candidato premier più probabile nel caso in cui Forza Italia risulti il primo partito alle elezioni in seno alla coalizione e che Berlusconi risulti ineleggibile, è Antonio Tajani, presidente del parlamento europeo, liberale, cattolico e convinto europeista.

FORZA ITALIA = EN MARCHE ?
Del resto Berlusconi ha già dichiarato di auspicare un prolungamento di legislatura guidata da Gentiloni e quindi dal PD nel caso in cui dalla consultazione elettorale non risulti una netta maggioranza in attesa di tornare al voto ( qui ). E’ un’altra ambiguità: infatti non è chiaro perché prolungare una legislatura dimissionaria se una nuova coalizione vince sia pure di misura se non per permettere l’approvazione di alcune leggi rimaste in sospeso. Come quella dello “ius soli” che verrebbe così realizzata da un governo agonizzante e non dal nuovo esecutivo che si trova così sollevato dall’imbarazzo di dibattere su una legge che a più riprese ha dichiarato di non volere.
Ora se l’ipotesi di un Berlusconi macronizzato che catalizza voti assumendo le sembianze dell’innovatore, ma il cui programma è mutuato dal PD il quale, prima di eclissarsi definitivamente similmente a quanto fatto dal Partito Socialista in Francia, trasmette i suoi cosiddetti valori a una realtà politica ancora vitale ci si domanda seriamente perché un cattolico, specialmente se di ascendenze sovraniste e identitarie, dovrebbe votare Forza Italia.

E’ vero che un tale elettore all’interno della coalizione di centro destra può votare altri partiti, ma occorre che i voti a loro favore siano numericamente consistenti o rischiano di favorire indirettamente la formazione di un governo a guida Forza Italia che su determinati temi, come visto sopra, non appare troppo combattivo. In altri termini i voti cattolici possono determinare la vittoria del centro destra, ma se Forza Italia sarà il primo partito della coalizione sarà esso a trarne beneficio. In questo caso il partito di Berlusconi potrà infatti esprimere il premier e a dettare un’agenda politica che le ambiguità berlusconiane sopra delineate già lasciano intravedere: libertaria in ambito etico, liberalista in ambito giuridico e liberista in ambito economico.
Insomma la versione italiana di “En Marche”.

 

16 febbraio 2018

Cattolici, chi votare/2. La disunità è una ferita

Mentre si avvicinano le elezioni politiche, i cattolici tornano a porsi l’eterno dilemma: chi votare? Campari e de Maistre, ovviamente, non fa campagna per nessuno, tuttavia riteniamo opportuno aprire una seria riflessione in proposito. L’articolo presente  fa parte di una serie a cui chi vorrà potrà partecipare, specificando sin da ora che quella esposta è solo la personale posizione dello scrivente. Lo stesso varrà per tutti contributi.

di Daniele Laganà
Il Magistero della Chiesa ci regala uno stupendo patrimonio per agire rettamente nell’arena pubblica che prende il nome di dottrina sociale, la quale non ha come destinatari esclusivi i fedeli, bensì essa è «un insegnamento espressamente rivolto a tutti gli uomini di buona volontà», pertanto è assolutamente possibile che questo «cantiere sempre aperto, in cui la verità perenne penetra e permea la novità contingente, tracciando vie di giustizia e di pace» possa essere la comune fonte da cui credenti e non credenti possono attingere per costruire una proposta politica che sia in assoluta continuità con il messaggio evangelico e che, al contempo, incarni un’attenzione all’integralità della realtà che può essere colta anche da chi non ha ancora riconosciuto la divinità di Cristo.

Compito ineliminabile del laicato cattolico è l’attuazione della dottrina sociale in tutte le dimensioni del vivere comune, dall’economia sino alla politica, e in quest’ultimo campo, negli ultimi tempi, sembra emergere sempre di più una grande difficoltà, a causa della crescente irrilevanza del cattolicesimo in seno all’alveo politico italiano; gli uni sostengono che la causa è da ascriversi alla secolarizzazione galoppante della nostra nazione, gli altri criticano la tragica frammentazione dei politici cattolici nelle diverse formazioni partitiche: molto probabilmente l’attuale ininfluenza è dovuta alla somma dei due fattori, per cui risulta oltremodo urgente agire su ambedue.
Nella Prima Repubblica l’unità politica dei cattolici è stato assolta dalla Democrazia Cristiana, un grande partito che ha permesso la convergenza di una moltitudine di sensibilità all’interno del mondo cattolico per strutturare una proposta politica comune: nonostante i gravi errori che nel tempo sono stati commessi, non posso che provare nostalgia dello Scudo Crociato scorgendo l’attuale drammatica disunità dove non vi è vergogna a dirsi cattolici e contemporaneamente votare partiti e schieramenti che promuovono e approvano politiche che contraddicono apertamente la dottrina cattolica. Chiaramente la dottrina sociale mette in guardia dal ridurre la capacità di giudizio del laico credente all’adesione ad una formazioni che si dichiari di ispirarsi al Magistero, in quanto «pretendere che un partito o uno schieramento politico corrispondano completamente alle esigenze della fede e della vita cristiana ingenera pericolosi equivoci», pertanto «la sua adesione ad uno schieramento politico non sarà mai ideologica, ma sempre critica»; inoltre, interessante è la sottolineatura che la scelta elettorale debba essere sia personale sia comunitaria, poiché «spetta alle comunità cristiane analizzare obiettivamente la situazione del loro paese, chiarirla alla luce delle parole immutabili del Vangelo, attingere ai principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive d’azione nell’insegnamento sociale della Chiesa».

In una recente intervista rilascia a Il Corriere della Sera, il cardinal Camillo Ruini ha rinnovato la sua preoccupazione dinnanzi al rischio per i cattolici di «essere sempre meno rilevanti, nonostante il loro grande contributo nella vita sociale», evidenziando quanto sia «indispensabile potenziare la capacità di tradurre la fede in cultura e in azione politica», in piena continuità con le parole che aveva consegnato al medesimo quotidiano nel 2007: «È preferibile essere contestati che essere irrilevanti!».

Sulla necessità dell’unità politica dei cattolici per garantire la rilevanza della visione cristiana e l’attuazione della dottrina sociale, è paradigmatica la distanza di vedute tra il Servo di Dio Luigi Giussani, fondatore del movimento di Comunione e Liberazione, ed il “presbitero” David Maria Turoldo: quest’ultimo, reso celebre dalla sua contrarietà ai referendum abrogativi sul divorzio e sull’aborto, accusava Giussani di disattendere il Concilio, in quanto esso prevedeva la possibilità per i cattolici di impegnarsi in partiti politici diversi tra di loro; la risposta acuta e diretta a quest’accusa non può che rispondere ad una lettura limpida del rapporto tra fede e politica: «Noi di Comunione e liberazione non gridiamo all'untore se c'è chi, nel mondo cattolico, pensa di prendere vie diverse dalla Democrazia cristiana, noi abbiamo anzi un rispetto doloroso e dolente per chi tenta altre vie. Però pretendiamo che non si dia dell'untore a noi, se crediamo che la tensione all'unità, anche politica, derivi naturalmente dal fatto cristiano vissuto o, per dirla con le nostre parole, se questa tensione è un «segno» della realtà del popolo cristiano.». Saggiamente Giussani non disgiunge la tensione all’unità del popolo cristiano anche nell’agone politico alla dimensione critica dell’adesione ad una formazione unitaria: «È vero, noi critichiamo la DC e, ci sia dato atto, anche duramente, durissimamente.  Però io non vedo in questo, fra la critica e il voto, proprio nessuna contraddizione. Io credo che il dovere di un cristiano sia innanzi tutto quello di collaborare con altri cristiani, prima che con qualsiasi altra forza. Perché con costoro io avrò un punto di vista, antropologico o, se si vuole, storico più vicino, «a priori». Non vedo quindi i motivi dello scandalo. […] Il cosiddetto «dissenso cattolico» è nato da un rilievo giusto, da un grido contro certe forme dispotiche della Chiesa, da un'opposizione, in sostanza, a una vita non ecclesiale della Chiesa. L'errore sta nel fatto che per urlare questo grido il «dissenso» si pone, psicologicamente e metodologicamente, fuori dalla Chiesa. E accusa. E, per quanto riguarda il temporale, mutua la sua saggezza da altre ideologie diverse da quella cristiana. Distingue fra la propria religiosità e il proprio credo politico. Per noi invece ogni dualità è mortale per la fede. Il grande insegnamento di Cristo in croce è che «morendo dentro la Chiesa» si possono cambiare le cose, non al di fuori.»

Tra le pagine di L’io, il potere e le opere ancor più splendidamente Giussani esorta a «tendere all’unità anche in politica, perché i cristiani debbono tendere all’unità in tutto, dato che sono un corpo solo. Perciò è un dolore non trovarsi dello stesso parere, non un diritto conclamato sconsideratamente. È dolorosa, anche se tante volte inevitabile, la diversità, e bisogna essere tutti tesi a scoprire il perché il fratello la pensa diversamente e comunicargli nel modo migliore i motivi della propria convinzione, nella ricerca dell’unità», mentre in un’intervista rilasciata a Il Sabato difendeva il cardinal Ruini violentemente attaccato da Il Corriere della Sera: «Ho in mente quel titolo: “Cardinale, lasci stare”. Quasi un ordine insolente a un servo. Ruini difende l’incarnazione, il centro dell’esperienza cristiana, oggi minacciato più che mai. È tanto semplice: Cristo con il battesimo ti assume, così che siamo membra gli uni degli altri. È una cosa dell’altro mondo, ma questa è l’unità cristiana. Se tutti siamo una cosa sola non possiamo non cercare di esprimerci concordemente. E perciò ci raduniamo in azione unitaria. Se uno non se la sente o non ci fossero le condizioni, è un dolore non poterlo fare, non un diritto da sbandierare! C’è un altro criterio che viene oltraggiato, ed è invece così umano: l’obbedienza. È il criterio supremo dell’azione cristiana. Il criterio della verità è ultimamente fuori di noi – e questo fa imbestialire i nemici del cristianesimo. Sì: obbediamo! Ci toglie dalla balìa del potere che occupa e dirige le coscienze illudendole della loro autonomia e invece, credendo di essere liberi, obbediscono a uomini. 
 L’obbedienza cristiana pesca nel mistero. E invece chi si dipinge come autonomo obbedisce a quella ridicola menzogna che ha come criterio di base la valutazione morale dell’altra persona. Una cosa atroce, disumana.»

In questa drammatica situazione in cui versiamo non possiamo non gridare il dolore per questa disunità che cagione una lancinante ferita alla comunione ecclesiale e calpesta manifestamente la difesa dei valori non negoziabili e l’attuazione della dottrina sociale; solo un cieco potrebbe affermare che la disgregazione politica dei cattolici italiani abbia contribuito positivamente alla concretizzazione della dottrina sociale, solo un vile potrebbe affermare che la tensione all’unità politica sia un obiettivo irrealizzabile e obsoleto: curiamo questa ferita, rinsaldiamo il nostro legame fraterno e combattiamo a tutela della verità e del valore insopprimibile della persona umana!



 

15 febbraio 2018

Cattolici, chi votare/1. Voto utile

Mentre si avvicinano le elezioni politiche, i cattolici tornano a porsi l’eterno dilemma: chi votare? Campari e de Maistre, ovviamente, non fa campagna per nessuno, tuttavia riteniamo opportuno aprire una seria riflessione in proposito. L’articolo presente si pone come il primo di una serie a cui chi vorrà potrà partecipare, specificando sin da ora che quella esposta è solo la personale posizione dello scrivente. Lo stesso varrà per i successivi contributi.

di Paolo Maria Filipazzi

Iniziamo col dire che, abbandonata la linea Ruini e collassata la strategia adottata dal governo Monti in poi, ci troviamo di fronte ad un pauroso deragliamento da parte delle gerarchie cattoliche e di tutto il mondo di riferimento. In pratica, oggi le gerarchie ecclesiastiche e l’intellighenzia cattolica, per la prima volta forse nella storia, non hanno uno straccio di visione, di progetto, di strategia. Nulla. Tocca quindi a ciascun cattolico fare i conti con la propria coscienza e, in quest’ottica, varrà ricordare che i principi non negoziabili, per quanto ormai non ne parli più nessuno, non sono stati aboliti e non potrebbero esserlo, dato che si fondano nel diritto naturale, indisponibile a mano umana.

Ci permettiamo inoltre, sommessamente, di ricordare che, oltre ai principi non negoziabili, esistono anche altri importanti problemi a cui chi andrà a governare l’Italia sarà chiamato a fare fronte, ed anche in questo caso è necessario valutare con sguardo cattolico le proposte sul tavolo.
Oggi in tutto l’Occidente è in corso una lotto per la dignità umana, calpestata da una visione tecnocratica che rischia di svuotare di effettivo potere decisionale le classi politiche, assoggettando qualunque azione al rispetto di parametri finanziari, in tal modo affermando il predominio dell’economia sull’uomo.

Concludiamo ricordando che, con buona pace dei deliri immigrazionisti di una parte del clero tristemente accodatasi a logiche mondane, esiste un problema assai drammatico di difesa dell’identità dei popoli europei che altro non è che difesa del retaggio della civiltà cristiana, destinato ad essere cancellato financo dalla memoria nelle mirabolante società multiculturale che i nostri scellerati governanti stanno cercando di tirare in piedi.

In tutta onestà, chi scrive ritiene che un qualunque partito che si fregiasse della difesa dei valori cattolici senza porsi in una posizione chiara e netta di contrasto all’ideologia dominante anche in questi campi, sarebbe un vero buco nell’acqua, un bel contenitore vuoto o pieno solo a metà.
Aggiungiamo, inoltre, un sano appello al realismo cristiano: anche se si presentasse una lista che vuole abolire in un colpo solo aborto, divorzio, unioni civili, fecondazione assistita e testamento biologico, sarebbe comunque doveroso un esercizio di raziocinio. Sarebbe, a nostro avviso, necessario chiedersi se quella lista abbia davvero la possibilità concreta di avere un risultato tale da permetterle di realizzare il proprio programma, oppure se il voto per questa non avrebbe il solo effetto di indebolire un’altra proposta con concrete possibilità di vincere e fare almeno qualcosa. Dobbiamo infatti renderci conto che riedificare in quattro e quattr’otto la società cristiana è impossibile e che abbiamo avanti lungi anni di lotta in cui si dovrà procedere realisticamente per gradi.

A questo punto il lettore avrà capito che lo scrivente ritiene che l’opzione più ragionevole, anche in queste elezioni, sia quella per la coalizione di centrodestra. Si tratta dell’unica forza politica realisticamente in grado di battere PD e Movimento 5 stelle che, sul piano dei valori sopra enunciati, sono egualmente catastrofici. E, per quanto si sia perfettamente coscienti del fatto che anche in seno al centro-destra la difesa dei principi non negoziabili sia molto più debole e disarticolata di otto-dieci anni fa e di come il ruolo d’argine di Berlusconi & Friends sia sempre più residuale, sarebbe sbagliato mettere questi partiti sullo stesso piano dei loro avversari.

Il 27 gennaio scorso a Roma, durante un convegno organizzato da Alleanza Cattolica e dal comitato Difendiamo i nostri figli, presente il leader del Family Day Massimo Gandolfini, esponenti di spicco del centro-destra hanno promesso, in caso di vittoria, di adoperarsi per l’abolizione della legge Cirinnà. Fra questi i leader della Lega, Matteo Salvini, di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, e di Cantiere per l’Italia, Stefano Parisi, i quali, in tal modo, hanno in pratica impegnato i rispettivi partiti. Per Forza Italia erano presenti Maurizio Gasparri ed Eugenia Roccella. Lo stesso Berlusconi, il 12 febbraio, ai microfoni di Radio Lombardia, pur in maniera abbastanza ambigua, ha lasciato intravedere la prospettiva di un’abolizione delle unioni civili.

Certo, nel centro-destra ci sono anche esponenti, sotto questo aspetto, impresentabili, a partire da Mara Carfagna che, il giorno dopo le dichiarazioni di Berlusconi, era in televisione con lo sguardo di marmo a negare categoricamente l’eventualità e a preannunciare un imminente smentita del diretto interessato. Siamo parimenti coscienti che potrebbe ben trattarsi di promesse da marinaio, ma d’altro canto anche le promesse di chiunque altro potrebbero esserlo.

In tutta franchezza, siamo però convinti che un voto per una lista diversa da quelle appartenenti alla coalizione di centro-destra finirebbe per fare il gioco dell’avversario.

Facciamo un esempio pratico: nel collegio uninominale di Roma 1 si fronteggiano Federico Iadicicco ed Emma Bonino. Il primo, cattolico, responsabile del dipartimento Vita e Famiglia di Fratelli d’Italia e fra gli organizzatori del Family Day, è sostenuto dal centro-destra, la seconda, che non ha bisogno di presentazioni, è sostenuta dal centro-sinistra. La vittoria di Iadicicco non solo impedirebbe alla nemesi di tutto ciò in cui crediamo di entrare in Parlamento, ma permetterebbe di essere eletto ad un esponente che si è contraddistinto per la difesa dei valori cattolici. La battaglia è talmente emblematica che è scesa in campo perfino una ONG, tale Avaaz, ovviamente una succursale della Open Society, per cercare di tirare la volata alla Bonino, facendo trasparire un certo nervosismo. E allora non possiamo che condividere quanto affermato da Enzo Pennetta sul suo sito: “Il voto al collegio Senato Roma I è molto più che un semplice confronto tra partiti, è la possibilità di sconfiggere il potere eversivo di chi ha interferito con le sorti di interi popoli. Siamo in un confronto elettorale diverso da quelli precedenti, chi va a votare stavolta non ha davanti a sé la scelta di un partito ma quella tra l’affermarsi, forse irreversibile, delle forze globalizzanti della società liquida ordoliberista e l’inizio di una fase nuova in cui lo Stato torni ad essere un corpo solido a tutela delle persone. Sarà un referendum sull’ingerenza di Soros e della sua ONG, il 4 marzo a Roma I si giocherà una battaglia decisiva e, senza guardare in faccia i simboli elettorali, chi vuole fermare le mani della Open Society Foundations non ha altra scelta che puntare sull’unico che può farlo: Federico Iadicicco.”.
E’ chiaro che preferire un altro candidato che, pur avendo un programma meritorio, avrebbe probabilità di elezione nulle, sarebbe un favore alla Bonino. Lo stesso si potrebbe dire in molti altri casi.

 

27 novembre 2017

A proposito della Leadership


di Niccolò Mochi-Poltri

E’ risaputo che tre indizi fanno una prova. In ordine cronologico, il primo indizio è stata l’amara sconfitta alle elezioni del comune di Roma. Il secondo indizio sono state le numerose e talvolta sorprendenti vittorie alle elezioni amministrative. Il terzo indizio infine è stata l’elezione di Nello Musumeci a governatore della regione Sicilia. Tre indizi dunque che provano in maniera inequivocabile come l’unica possibilità per le forze politiche di cdx di vincere le prossime elezioni politiche sia coalizzarsi.

Eppure all’approssimarsi dell’appuntamento elettorale pare che la discussione politica si stia vieppiù affossando nella questione della leadership, ovverosia su chi dei tre leaders delle tre maggiori forze politiche di cdx debba essere il candidato dell’intera coalizione. Già qui sarebbe opportuno fugare un’ambiguità imbarazzante a proposito di come quei tre leaders interpretano il ruolo a cui ambiscono. Le possibilità possono essere fondamentalmente due: 1) essi interpretano la candidatura come mero espediente di contabilità elettorale, nel senso che ritengono il proprio nome più adeguato strategicamente a condurre la coalizione alla vittoria e per giustificare il proprio peso specifico all’interno della coalizione stessa 2) essi interpretano la candidatura in un’accezione ad un tempo più nobile e più gravosa, cioè proponendosi come “guida” della coalizione: in tale senso il candidato sarà anche colui che condurrà il popolo del cdx fuori dal deserto degli ultimi cinqu’anni, verso la terra promessa del governo d’Italia. Nei discorsi politici pubblici tale ambiguità non viene affatto risolta, ma anzi viene aggravata dalla malcelata faziosità con cui i capi stessi o i loro epigoni interpretano i dati delle vittorie e le ambizioni della coalizione. Si tratta di un atteggiamento che invece di rafforzare la coalizione la rende vulnerabile, e che soprattutto mortifica  tutti quegli elettori, assicurati o putativi del cdx, che prima di tutto tengono alla sconfitta della sx e del M5S, anziché ai giochetti di gabinetto.
L’ambiguità che ho poc’anzi rilevata falsa a priori una possibile soluzione alla questione della leadership. Ma volendo indagarla più a fondo, è possibile scoprire ulteriori difficoltà. Anzitutto, i possibili candidati non sono adeguati ad assumere la leadership, e pertanto, qualunque sistema possano escogitare per stabilirla, sarà destinato a fallire. Silvio Berlusconi si è compromesso in maniera imbarazzante all’epoca del “patto del Nazareno”; Matteo Salvini è persona troppo intemperante e pressapochista; Giorgia Meloni, infine, è immacolata ma decisamente troppo debole e troppo poco carismatica. A tale problema di merito, si aggiunge un problema di metodo: è da mesi che si sente insistere sul “problema della leadership” come in ambito calcistico si potrebbe discutere del “problema del top-player”. L’attenzione viene fossilizzata sul singolo talento, distraendo dall’evidenza che è il gioco di squadra ad assicurare la vittoria; che le giocate del talento possono sì risultare incisive, ma la gestione della partita è affidata fondamentalmente a tutta la squadra, panchinari e società compresa, che devono credere nel progetto.
Quest’ultima constatazione ci conduce a rilevare qual è il vero problema della leadership in Italia. Negli ultimi venticinque anni di storia politica del nostro paese ci siamo assuefatti all’idea che una forza politica possa vincere solo se condotta da un leader carismatico, ma contemporaneamente abbiamo smarrito il senso autentico del “carisma”. In altri tempi il potere politico non avrebbe potuto sussistere senza la legittimazione carismatica. Ma in una democrazia liberale sarebbe opportuno diffidare del “leader carismatico”, perché una tale figura tende a dirigere la società verso lo scivoloso crinale di quella che uomini più saggi di noi avrebbero stigmatizzato come oclocrazia – governo delle masse dirette da un demagogo.
L’idea della necessità di un leader carismatico anche in una democrazia liberale fu introdotta e sviluppata in Italia da Silvio Berlusconi, e poi adottata da pressoché chiunque, Matteo Renzi, Matteo Salvini, Giorgia Meloni [sic!], Giuliano Pisapia (Pisapia!), etc. Oltre al problema inerente al concetto di “carisma”, quell’idea ne pone immediatamente un altro, a mo’ di corollario: alla crescente importanza del leader corrisponde l’indebolimento e la rarefazione della forza politica, incarnata nella forma del partito. Il partito smette progressivamente d’essere luogo di elaborazione e diffusione di idee e di proposte, smarrisce il suo ruolo di trait d’union coi cittadini, per diventare una mèra cassa di risonanza per la volubilità del leader. E mentre al leader vengono attribuiti troppi poteri e conseguentemente troppi oneri, i militanti del partito vengono corrispettivamente deresponsabilizzati, quando invece dovrebbero esser loro i primi responsabili di un’attività politica sana ed onesta.
Da tutte queste considerazioni, non posso che trarre una conclusione: nell’attuale circostanza storica, in cui il supremo obiettivo è coalizzarsi per vincere, le forze politiche del cdx devono comprendere come il “problema della leadership” sia in verità un falso problema, su cui è sterile, per non dire dannoso, indugiare. Che le forze politiche del cdx, e dunque i loro leaders, si comportino alle prossime elezioni politiche come si sono comportate alle scorse elezioni amministrative e regionali: cioè investendo del loro potere un candidato alternativo che sia essenzialmente una figura politicamente credibile ed onesta umanamente. A conferirgli il mandato di governo sarà infine l’elettorato italiano.



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11 dicembre 2016

Da Trump a Hofer

di Enrico Maria Romano
Certe volte la propaganda del Sistema riesce e certe volte no. Questa è la prima differenza che salta all’occhio nel confronto tra l’elezione di Donald Trump in America e la sconfitta di Norbert Hofer in Austria.
La piccola repubblica austriaca, spesso vantata per i motivi più diversi da chi mal ne conosce la storia, non è certamente un paese invivibile, insicuro o particolarmente soggetto al terrorismo e la disoccupazione come per esempio lo è la Francia o in misura minore la stessa Italia.
Eppure, a partire dal 2000 almeno, le cose sono cambiate in modo piuttosto rapido e sempre per la solita infausta ragione: la politica migratoria assurda e assassina, specie verso l’islam, da parte delle sinistre e dei verdi, dei poteri forti e dei gruppi bancari.
L’economista mondialista Alexander van der Bellen (Vienna, 1944), che da domenica 4 dicembre 2016 è il nuovo presidente austriaco, aveva probabilmente perso nell’elezione precedente, tenutasi il 22 maggio scorso: l’elezione fu annullata dalla Corte costituzionale austriaca per irregolarità e per i voti inventati attribuiti proprio al nuovo presidente. E ciò in seguito alla denuncia di Hofer e dei suoi: anche per questo l’attuale elezione è emblematica. Ha vinto chi aveva fruito dei brogli alla precedente tornata elettorale, ha perso chi li aveva denunciati!
Nel piccolo microcosmo mitteleuropeo e germanico, questa piccola elezione è davvero rappresentativa. Con Hofer erano in genere i contadini, i montanari, gli abitanti dei piccoli centri e i ceti impiegatizi e operai. Con il neo-presidente invece tutti i giornali, la casta in tutte le sue declinazioni, i poteri forti, la cultura, i sindacati…
Van der Bellen non è un austriaco da sette generazioni, ma è figlio di un padre russo e di una madre estone, entrambi fuggiti dal comunismo, partito in cui poi militerà il giovane Alexander… La carriera di Van der Bellen si è fatta prima con i social-democratici poi soprattutto con i Verdi. Il nuovo presidente austriaco ha dichiarato, almeno una volta, di appartenere alla massoneria, essendo stato iniziato ad Innsbruck negli anni ’70.
In tutte le questioni importanti è all’opposto di Norbert Hofer e della tradizione austriaca. Europeista convinto, vuole riempire l’Austria di profughi e poveracci, mantenendo e aggravando la linea lassista fin qui adottata da democristiani e social-democratici. Poca severità e poco rigore verso lo spaccio di droghe e la violenza urbana, tolleranza verso qualunque deriva etica (gender, nozze gay, utero in affitto), ma intransigenza assoluta verso ciò che i media hanno chiamato “l’ultra-nazionalismo” di Hofer.
Domanda: ma cos’è l’ultra-nazionalismo rispetto al puro e semplice nazionalismo? Un nazionalismo sostenuto dagli ultrà del calcio austriaco? I servizi televisivi italiani che hanno parlato dei due candidati, sono stati egualmente falsi e bugiardi come lo furono con Trump. Addirittura si è detto che con la vittoria del candidato dei verdi, l’Austria fuga le paure e i fantasmi del passato. Quale passato, di grazia? Quello nazional-socialista di 70 anni fa, in cui Norbert Hofer neppure esisteva? Quel passato in camicie brune in cui l’Austria fu occupata manu militari dai tedeschi, a prescindere dal fatto che molti austriaci auspicavano tale occupazione? Fu proprio l’Austria “nazificata” dell’Anschluss (1938) che accolse i genitori di Van der Bellen in quanto esuli anti-comunisti…
Norbert Hofer, il grande sconfitto, era un candidato politico e assieme simbolico. Politico nel senso più alto della parola, per la sua volontà di dare tutto per la sua amata patria e difenderla contro l’invasione degli stranieri e ancor di più dalle pastoie dell’Unione europea e delle sue arcigne e indebite commissioni. Ma anche un candidato simbolico: rappresentava al meglio la storia e l’identità austriaca.
Noi italiani, a volte assai campanilisti, non dobbiamo limitarci ora a gioire per la sconfitta di Renzi nel suo referendum. Dobbiamo anche guardare con più attenzione a ciò che succede intorno a noi e così saper captare i segni dei tempi e delle svolte storiche che si impongono. La vittoria di Trump, benché oltre Oceano, ha certamente il senso di una cesura storica senza precedenti. Ma anche le vicine e confinanti Austria e Francia debbono interessarci. Chi ama visceralmente la propria patria (senza nasconderne i difetti storici però) ama anche coloro che, nelle altre nazioni, hanno gli stessi sentimenti. Così Norbert Hofer, Marine Le Pen, Vladimir Putin, Donald Trump, e molti altri sono certamente uniti da più di ciò che li divide e li separa. Parafrasando Marx non ci resta che dire: patrioti del mondo intero unitevi, e fatelo presto! Il rullo compressore della modernità e del mondialismo, della globalizzazione e del secolarismo, vuole rendere indistinguibili i popoli, le culture, le etnie, le religioni, le società e intercambiabili gli individui, resi meri numeri di un ingranaggio mortale al servizio degli interessi dei soliti padroni del vapore.
Qualunque sussulto patriottico, qualunque volontà di recupero dei valori della tradizione (Dio, patria, famiglia, moralità, sussidiarietà, buon senso, difesa degli anziani e dei poveri, eroismo disinteressato per il bene comune…) è la benvenuta. Uniamo le forze per creare una alternativa almeno europea, se non mondiale, al pensiero unico laico, al dio mercato, alla distruzione delle identità e delle storie di ognuno.
Così facendo, dall’Austria all’America, dall’Italia alla Francia, avremo lottato per la civiltà umana come tale e contro i suoi potentissimi affossatori.
 

12 novembre 2016

Il Presidente Pesche e Panna Montata

(dove si spiega la banalità taciuta)

"Buonanotte, andate a casa..." (John Podestà)

di Matteo Donadoni

Si conclude così, con un beffardo motto in stile bergogliano interpretabile a rovescio, l’elezione presidenziale americana più aspra e incompresa dai giornalisti di tutto il mondo. Buonanotte. Sì, buonanotte all’ideologo delle “primavere cattoliche”.

Il pomeriggio dell'8 novembre, ben prima del rosario, ho whatsappato senza paura al buon Filipazzi la vittoria certa di Trump. Il mio informatore in America, Andrea Esposito, mi aveva appena riferito di aver raccolto diverse dichiarazioni di voto repubblicano nel cuore delle grandi città yankee, roccaforti democratiche. Informatore affidabile, facilmente camuffabile da americano per via della stazza (si pesa in libbre già dalla terza media), ha la spigliatezza di uno scugnizzo e una maglia pro Donald, con la quale riuscirebbe a far sbottonare qualsiasi “trumpista” occulto. Prima speranza. Fattasi convinzione in breve tempo a seguito di tre indizi:

Primo - Indizio stocastico: statisticamente chi prende la Carolina del Sud diventa poi presidente.
Secondo - Indizio storico-culturale: mi sono reso finalmente conto che il nero medio non alzerà mai le chiappe per andare fino al seggio a dare il proprio supporto ad una vecchia riccona bianca.
Terzo - Indizio sociologico: i famigerati ispanici. Gli ispanici non sono un popolo omogeneo, ma provengono da più nazioni. Gli esuli cubani ad esempio sono arrabbiati con Obama per le concessioni ad una dittatura crudele che li ha affamati e scacciati. Fatto generale da unire al fatto particolare: un messicano preso a caso, intervistato dal nostro agente inviato per l’occasione a Boston (a spese sue), ha espressamente affermato con decisione il suo voto per Trump.

Tre indizi non fanno una prova e un messicano non fa primavera, ciò nonostante, appena ho visto che le proiezioni davano Trump vincente in Florida alla faccia di tutta la prosopopea dei giornalisti italiani tramutati improvvisamente in vedove inconsolabili, me ne sono andato a dormire, certo della sconfitta della senatrice più temuta dai nascituri.

Al risveglio stamane ho scoperto alcune novità, carissimi giornaloni nostrani:
A - evidentemente non ci sono ispanici in Florida.
B - evidentemente non ci sono donne in Ohio.
C - evidentemente non ci sono operai in Pennsylvania.
D - evidentemente non ci sono neri in Carolina del Nord.

L’ideologia, come al solito, non collima con la realtà.
Chissà cosa direbbe oggi di questa elezione quella che potrebbe essere definita la scrittrice più amata dal dottor House, Flannery O’Connor. In qualche modo il mondo descritto nei racconti dell’autrice cattolica di Savannah ha avuto la meglio sui chiacchieroni di città.
Aveva ragione il professor Victor Davis Hanson, uno dei maggiori storici conservatori americani, docente alla California State University: «Di tutte le crescenti divisioni dell’America – rosso-blu, conservatore-liberal, repubblicano-democratico, bianchi-non bianchi – nessuna è più tagliente di quella tra città e campagna».

Quella del quarantacinquesimo presidente degli stati Uniti d’America è la storia della la vittoria degli onesti lavoratori della provincia sui maneggioni buoni a nulla di Wall Street, finanziatori sbracati di una senatrice navigata e senza scrupoli a Bengasi. Soprattutto la sconfitta di chi pretende di fare soldi con l’aria fritta, cioè senza lavorare. La vittoria del figlio di un “self made man” contro l’intero sistema mediatico e perfino una parte del proprio stesso partito. La vittoria dei padri di famiglia “middle class” contro i radical-chic omosessuali. La vittoria dei cristiani contro gli atei. La vittoria del paese reale contro l’ideologia. Donald Trump, la barzelletta dei benpensanti, l’8 novembre 2016 ha stravinto, aggiudicando ai Repubblicani anche il Congresso.
Da ragazzo di provincia che lavora in città (bè lavora… pigia bottoni più che altro), mi son sempre chiesto come sia stato possibile arrivare al punto perverso di impilare case letteralmente una sopra l’altra e non conoscere mai l’inquilino del piano di sotto. Questo è il grande inganno urbano: gli abitanti delle città possono lavorare per lunghe ore in ufficio in mezzo a centinaia di migliaia di persone, ma spesso rimangono al riparo dal mondo naturale, sono esseri umani sociologicamente individualizzati, avulsi dal proprio habitat naturale. In campagna sappiamo tutto di tutti, e, nonostante ciò, non ci spariamo addosso l’un l’altro. Anche se non abbiamo ancora realizzato l’antico sogno chestertoniano di tre acri ed una vacca, sappiamo sopportarci almeno quanto sappiamo che le città sono un male necessario. «La vita rurale storicamente ha incoraggiato l’indipendenza, e lo fa ancora, anche nel globalizzato e cablato XXI secolo. Il buon cittadino è definito come qualcuno che possa prendersi cura di se stesso». Questa è la ragione reazionaria che dalle praterie ha sospinto Trump alla Casa Bianca.
Non è cattolico Donald e certamente non sarà il miglior presidente possibile, ma, visto Barack Hussein Obama, nemmeno il peggiore. Inoltre ha una peculiarità: sarà il primo presidente USA ad essere amato dai Russi.
A me, tutto sommato, Donald non fa paura, mette appetito. Pesche con panna montata.

 

11 novembre 2016

Come Davide contro Golia


di Niccolò Mochi-Poltri

Ebbene ha vinto le elezioni presidenziali statunitensi dell’a. D. 2016 il tycoon newyorkese Donald J. Trump, sconfiggendo la favorita Hillary Clinton, dopo uno scontro che rievocava, parodiandolo, quello biblico tra David e Goliath, dove però quest’ultimo si è reincarnato nella persona di una donna resa apparentemente gigantesca dall’allure mediatico, mentre il primo in uno stravagante ed a tratti grottesco miliardario armato solo della fionda con la quale scagliare contro l’avversario le pietre durissime ed acuminate del proprio ego. Tanto nell’episodio biblico quanto in questa sua parodia contemporanea ancora noi ci scopriamo sorpresi di come si sia infine risolto lo scontro.
Ma in verità, se riusciamo ad emanciparci dai pregiudizi ideologici e dai moralismi spiccioli dei commentatori filistei, e proviamo ad osservare la realtà fattuale della politica statunitense per come è emersa da questa tornata elettorale, potremmo scoprire che l’esito del voto non è poi così inaspettato e sconvolgente, o quantomeno non lo è nelle ragioni che lo hanno prodotto - mentre per le conseguenze che produrrà sarebbe per il momento meglio non pronunciarsi ed avere, come sempre, fiducia nella Provvidenza.
Dunque, Donald J. Trump ha vinto procedendo in direzione ostinata e contraria: contraria al suo stesso partito, contraria alla grande finanza ed al suo apparentemente fondamentale assenso, contraria alla quasi totalità dei mass-media ed ai loro pronostici ed endorsments, ma soprattutto contraria alle variegate correnti progressiste, dall’intellighentia salottiera e benpensante alla patinata galassia delle stelle hollywoodiane, passando da quelle enclaves narcisiste degli immigrazionisti, degli internazionalisti, delle LGBTQ, etc.
Per confrontarsi con tutto questo, si diceva, Trump ha dovuto caricare la sua fionda con l’unica arma di cui poteva disporre liberamente, cioè sé stesso: ed è sé stesso che ha scagliato in tutta la sua realtà e concretezza, nella sua immagine di self-made-man miliardario e di successo; così come nei suoi tratti caricaturali e talvolta grotteschi, che però, se a noi italiani ed europei ci hanno fatto ridere o inorridire, hanno invece evidentemente risvegliato qualcosa nella maggioranza del popolo elettore statunitense. Qualcosa che noi ed i nostri ottusi commentatori politici non siamo riusciti a scorgere perché abituati, anzi direi assuefatti, ad osservare gli U.S.A. da una prospettiva distorta dalla lontananza, geografica e culturale ad un tempo; ma che non sono riusciti a scorgere nemmeno i loro progressisti, data l’atrofia delle loro menti verso un futuro che è solo ideologia, irrealtà artificiale: qualcosa che perciò avevano dimenticato esistesse, ma che difatto ha dimostrato di esistere e di essere forte.
Tale qualcosa consiste in una coscienza pragmatica delle necessità del quotidiano vivere, che si sviluppa in quel suggestivo ideale dell’opportunità così intrinseco al Volksgeist statunitense, ma che decenni di ideologia progressista avevano offuscato e distorto. Di questa coscienza Trump si è fatto interprete, e gli elettori della “migliore delle democrazie” lo hanno eletto, cosicché gli U.S.A. hanno riottenuto il presidente che spetta loro, e la civiltà occidentale una fondamentale lezione su quanto siano importanti le radici storiche dei popoli.
 

10 novembre 2016

La rivolta delle masse


di Roberto De Albentiis

La sconfitta della Clinton, e di tutto l’establishment liberal (e anche neo-con, del resto il Potere non conosce etichette o differenze) che la sosteneva, ad opera di Donald Trump, è un fatto clamoroso: dopo anni di prese in giro, i cittadini americani si sono voluti riprendere il proprio futuro, mandando al diavolo sondaggisti, giornalisti, opinionisti, professionisti di partito, star del mondo musicale e cinematografico. Questa vittoria di Trump giunge dopo tante altre, pur se di segno diverso: le vittorie elettorali, in Europa orientale, in Ungheria e Polonia, e in Francia, di formazioni identitarie e comunitarie, l’incredibile vicenda elettorale austriaca, il referendum inglese sulla Brexit, la vittoria, nelle Filippine, di un altro impresentabile, Rodrigo Duterte, peraltro di sinistra e non certo attento ai c.d. principi non negoziabili e comunque sfanculatore (letteralmente; non gli piacciono i toni moderati e conciliatori) delle elites e dei grandi del mondo.
Che significa tutto ciò? Dopo decenni di predominio di asfittico pensiero unico (non si creda solo di sinistra, sia chiaro, anche la destra liberale rappresenta al meglio il pensiero unico globalista e mondialista, e del resto la stessa maggioranza liberale e conservatrice del Partito Repubblicano non voleva sostenere Trump), di propaganda asfissiante e martellante, subdola, fatta non solo attraverso le dichiarazioni ufficiali, ma pure attraverso gli strumenti di comunicazione di massa e il cinema, le masse paiono essersi svegliate e abbiano iniziato a reagire a questo pensiero totalitario, che vuole imporre ovunque individualismo, atomismo, immoralità, che vuole distruggere le religioni, gli Stati, le famiglie, per imporre ovunque il dominio del Capitale e del Consumo, consumo tanto di beni materiali quanto di (pseudo)diritti.
In un mondo che si vuole senza barriere o differenze, perfino personali, biologiche e antropologiche, pare invece che si voglia rivendicare con forza tali barriere e differenze, che, se ci si pensa bene, sono connaturate all’essere umano stesso; in un mondo in cui si vuole imporre ancora la moribonda e mortifera globalizzazione, che ha comportato proprio l’impoverimento delle masse (anche americane, non si creda che gli States, e ve ne parlo io che li ho visitati due volte e ho potuto vedere di persona la grande povertà che vi regna, abbiano ricevuto solo benefici dalla globalizzazione) e l’arricchimento di pochi profittatori, guarda caso profeti della “società aperta” e del nuovo “mondo libero”, ecco che le masse, pur se non coordinate, magari poco informate e votando movimenti e partiti non certo assimilabili tra loro, reagiscono. Reagiscono forse di pancia, come si dice, ma del resto non si campa di belle parole e di “diritti civili”, un lavoro, un tetto, un pasto servono a campare, gli sciocchi slogan non riempiono gli stomaci.
Non possiamo certo sapere come sarà la presidenza di Trump, che deve ancora iniziare, per quanto fare peggio di Obama e della Clinton sia difficile; non possiamo neanche sapere cosa riserverà il futuro “populista” o la prevedibile reazione dell’establishment, ma due cose sono chiare: la partita non è affatto chiusa, tutt’altro, e, soprattutto, se ci si impegna bene, può essere vinta, le elites possono essere sconfitte, se solo si è consapevoli di ciò e lo si vuole!
E le masse cattoliche, in tutto questo? Ora, non sono qui per parlare del voto cattolico dato a Trump o alle altre scelte “populiste”, ma per parlare di un fenomeno diverso: da tre anni pare essere arrivata, per la Chiesa Cattolica, una nuova “primavera” (certo permessa da quell’altra, quella “conciliare”; non si creda che i problemi siano iniziati con l’attuale pontificato, ma affondano le loro radici in almeno un cinquantennio precedente), che non ha certo portato frutti di vocazioni, anzi, e in compenso ha aumentato le fratture tra fedeli e la perplessità di molti. Ebbene, sempre più fedeli cattolici, anche, come vedo, chi prima mai aveva sentito parlare o parlato di “crisi nella Chiesa”, ora si fanno delle domande, reagiscono, come possono, in relazione alla loro cultura e al loro stato, al nuovo corso progressista della Chiesa, con le armi a propria disposizione: l’insegnamento catechistico e la preghiera. Se anche nella Chiesa si deve parlare di pensiero unico (che nulla ha a che vedere con l’unità di insegnamento dottrinale, anzi, spesso, pur se non ufficialmente, lo soffoca), altrettanto, ora, si deve parlare di una sorta di resistenza, silenziosa ma crescente, dei fedeli alle perniciose novità che si vogliono loro imporre.
La resistenza al pensiero unico mondano e ai governi terreni ci riguarda; più ancora ci riguarda, quando necessario, la resistenza al pensiero unico ecclesiale, non certo in nome delle nostre personali opinioni o dei nostri gusti, ma proprio in nome di quella fede che ci è stata donata col Battesimo. Oggi si festeggia San Leone Magno, uno dei più grandi Papi che la Chiesa abbia mai avuto: di lui, intervenendo al Concilio di Efeso, i Padri conciliari dissero: “Pietro ha parlato per bocca di Leone!”. Noi crediamo che sul trono di Pietro sieda oggi Francesco, e vogliamo, vorremmo che parlasse da Papa e Pastore ai suoi figli, per confermarli nella fede e non lasciarli soli contro le battaglie, terrene e interiori, che li aspettano; per citare un grande ecclesiastico missionario del secolo scorso, Monsignor Marcel Lefebvre, di cui lo stesso Papa Francesco ha detto di aver due volte letto e apprezzato la sua biografia, noi siamo sempre “per il Papa come successore di San Pietro a Roma. Tutti noi chiediamo che il Papa sia, infatti, il successore di San Pietro, non il successore di Jean Jacques Rousseau, dei massoni, degli umanisti, dei modernisti e dei liberali.”
 

09 novembre 2016

La vittoria di Trump e la morte dei sondaggi


di Giuliano Guzzo

Ieri pomeriggio, mentre gli esperti più autorevoli davano il 90% e oltre di possibilità di vittoria elettorale a Hillary Clinton, la quale doveva quindi avere dinnanzi a sé una passeggiata o poco più, scrivevo  su Facebook – dopo essermi consultato con amici molto esperti e competenti – che la partita era apertissima. Una tesi costatami anche l’affettuoso rimprovero di qualche amico («Giuliano porti sfiga, non vendere false speranze»), ma della quale ero certo tanto, appunto, da espormi a condividerla pubblicamente. Una tesi che tra l’altro, sempre su Facebook, in buona sostanza avevo messo in evidenza il 20 ottobre, anche in quella occasione preso in giro da alcuni, sottolineando – mi scuso, è poco carino citarsi – «i giochi sono apertissimi». Perché ero sicuro del fatto che Donald Trump sarebbe potuto arrivare alla Casa Bianca? Una certa passione per il rischio o per la scommessa? No, affatto.

La sua vittoria richiederà un enorme sforzo a molti analisti – direi a tutti, considerando che nessuno lo dava vincente – , ma la mia consapevolezza di questo probabile evento derivava infatti da un aspetto soltanto: l’erroneità dei sondaggi. Proprio così: da anni – si pensi al boom, totalmente imprevisto, del Movimento5Stelle o alla altrettanto imprevista Brexit – le rilevazioni demoscopiche falliscono clamorosamente. E questo per due ragioni. La prima, spesso non sono metodologicamente affidabili. La seconda, ma anche quando lo sono, debbono fare i conti con un fatto inatteso: risponde ai sondaggisti circa una persona su 10 (dieci anni fa era 1 su 5, un dimezzamento), molta gente si vergogna di dire il candidato che voterà (potete immaginarvi uno come Trump, deriso da mezzo mondo fino a ieri: da oggi, immagino, sarà un tantino più riverito), ma soprattutto circa il 70% degli americani diffida dei sondaggi.

Aggiungeteci il fatto che molti commentatori anche italiani di cose americane – da Rampini e Severgnini – vivono, anche se fanno tremendamente fatica ad ammetterlo, in un mondo dorato e tutto loro, lontano anni luce dall’America profonda che detesta il politicamente corretto (di cui loro, assieme a tanti altri, sono magnifici alfieri) e soprattutto da un Paese che, impoverendosi drammaticamente in questi anni, era ad altissimo rischio di quello che si chiama «voto di protesta». Da ultimo, non andavano sottovalutate né le folle oceaniche ai comizi di Trump (con la Clinton costretta a salire sui palchi degli amici cantanti, pur di avere molto pubblico) né il doppio di seguaci sui social da parte del nuovo inquilino della Casa Bianca, espressione di una sorta di delocalizzazione del consenso che molti ancora non capiscono. Cari giornalisti perbene e cari sondaggisti, date retta, fatevi una bella vacanza. Ne avete bisogno.

https://giulianoguzzo.com/2016/11/09/la-vittoria-di-trump-e-la-morte-dei-sondaggi/

 

08 novembre 2016

Il potere cambia volto. E Trump non potrebbe vincere (anche se vincesse)


di Alessandro Rico

Il sabato prima delle elezioni americane, il Corriere della Sera ha presentato una “equilibrata” panoramica della situazione. Un articolo paventava che Trump potesse mandare in giro squadroni di sostenitori armati di cani e fucili per spaventare gli elettori. Un altro proponeva un confronto tra il programma del magnate newyorchese e quello della Clinton: se vincerà Trump, borse a picco, presidenza bloccata dal Congresso, guerra mondiale alle porte; se vincerà Hillary, economia col vento in poppa, giustizia sociale come in Paradiso, escalation militare in Medio Oriente spacciata per una provvidenziale rottura con le indecisioni di Obama. Non che qualcuno oltreoceano legga il Corriere. Ma dato che l’élite che regge le sorti dell’Occidente ha ormai un carattere transnazionale, la sostanza cambia davvero poco se da via Solferino ci si trasferisce al Washington Post, al New York Times o alla CNN. E questo spiega perché Trump non potrebbe vincere, anche se vincesse.
Il problema non è se Trump piaccia o meno all’America. Il problema è che lui non piace a una cordata composta da guru dell’alta finanza, banche d’affari e altre concentrazioni di capitale che stipendiano esponenti politici e la maggior parte dell’editoria. Quanto ci metterebbe George Soros, che a queste strategie è avvezzo (impossibile dimenticare l’attacco speculativo a lira e sterlina, all’inizio degli anni Novanta), a scatenare una tempesta finanziaria, se martedì notte il mondo scoprisse che il quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti dovrebbe diventare Donald Trump? La Gran Bretagna, ad esempio, ha già serrato i ranghi. Il bello della cultura liberale di quel Paese è che una sola attivista pro-UE può averla vinta sulla maggioranza del corpo elettorale e costringere la Brexit ad attraversare un altro, rischioso passaggio (visto che la maggioranza dei parlamentari, sulla carta, era favorevole al remain). Nella culla del garantismo e delle libertà costituzionali, si può forse narrare la storia romantica di un sistema di potere che bilancia le manifestazioni della volontà popolare con il principio della sovranità del Parlamento. Ma gli Stati Uniti dovevano essere una nazione senza aristocrazia, nella quale i contrappesi alla tirannia della maggioranza, temuta già da Tocqueville, andavano ricercati nella Costituzione (l’interpretazione della quale fu presto avocata dalla Corte Suprema), nel Senato (eletto su base territoriale), nel meccanismo indiretto di nomina del Presidente e nella possibilità di veti incrociati tra costui e il Parlamento. 
La realtà, però, è che a governare sono i soldi. Un tempo i Fugger tenevano in pugno Carlo V, sovvenzionandone il dominio imperiale. Oggi c’è Wall Street – non tutta Wall Street, solo un ristretto circolo di personaggi che conoscono l’indirizzo e-mail di John Podesta, il responsabile della campagna elettorale della Clinton. Un circolo (vizioso) nel quale danzano i politici attraverso fondazioni private finanziate da capitani della Borsa, quando non da potenze straniere che con una mano danno a Hillary e con l’altra all’ISIS (almeno è questo che sostiene Julian Assange).
Machiavelli insegnava che una delle caratteristiche del potere sono gli arcana. E mai come oggi il potere è arcano, nascosto, ineffabile, eppure pervasivo, perché globalizzato. Mai come oggi la dimensione propria della politica, cioè il conflitto tra ideologie e visioni del mondo, appare “neutralizzata”, come denunciava già Carl Schmitt, dall’egemonia di una tecnocrazia planetaria che sente sempre meno il bisogno di occultarsi dietro i riti della democrazia parlamentare. Di quest’ultima, non resta che l’illusione di poter scegliere tra i candidati (preselezionati dalle élite stesse), mentre i paladini “anti-establishment” sono destinati o a diventare essi stessi “classe politica”, come sosteneva Gaetano Mosca, oppure a essere fagocitati dall’ordine costituito. E con l’aiuto dei grandi gruppi editoriali compiacenti, dei loro corsivi e delle loro macchine del fango, l’élite transnazionale trova sempre parvenze di giustificazione alle proprie scelte, dinanzi a un’opinione pubblica istupidita dai pettegolezzi e ridotta a un ectoplasma. Che ci piaccia o no, sotto la spinta di questa globalizzazione dei nuovi centri di potere, la vecchia tecnologia politica occidentale, la democrazia liberale, ha cambiato volto. Per questo Trump non potrebbe vincere, anche se vincesse.

 

La speranza per The Donald si chiama Jesusland

di Michele Pisano
È Jesusland l’unica speranza di Donald Trump per ottenere la presidenza degli Stati Uniti d’America. Tutto ruota attorno a quella mappa disegnata nel 2004 e che riassume le tendenze di voto degli americani Stato per Stato. Ciò che appare è una suddivisione territoriale con gli Stati Uniti del Canada e Jesusland. I primi sono colorati di blu, i secondi di rosso, e indicano gli uni gli Stati con una maggioranza progressista e liberal, gli altri quelli invece conservatori e con un voto religioso che incide sul processo elettorale.

Prima di commentare la mappa, è necessario ricordare che non vince il candidato che prende più voti popolari, bensì quello che conquisterà 270 delegati. Ogni Stato, infatti, assegna un determinato numero di delegati al candidato che prende un voto in più dell’altro in quel determinato territorio. In quasi tutti i casi, esclusi due Stati, il metodo è “winner-takes-all”, il vincitore prende tutti i delegati.
Per questo motivo Donald Trump sta compiendo un incredibile tour negli Stati in bilico, che tra l’altro sono proprio quelli in cui il voto religioso ha inciso particolarmente. Sta di fatto che i repubblicani questa volta non hanno scaldato il cuore di cattolici ed evangelici, e che probabilmente opteranno per il GOP all’ultimo momento e non compattamente. Per Trump l’unica speranza di vittoria passa proprio da qui: dal voto operaio e da quello religioso, sperando inoltre in una forte astensione da parte di comunità afroamericana e latinos, piuttosto tiepidi nei confronti della Clinton.

Dando un’occhiata alla mappa Jesusland, depurata dal Canada, e all’elaborazione di RealClearPolitics, possiamo notare che i tre Stati che si affacciano sul Pacifico sono saldamente in mano a Hillary, così come Minnesota, Wisconsis e Illinois. Stesso discorso per lo Stato di New York, Vermont e Stati confinanti. Per Hillary ci sono pochi altri sicuri. Donald invece potrebbe vincere solo ed esclusivamente se riuscisse a recuperare gli Stati in bilico, che altro non sono quelli disegnati nella mappa Jesusland e molti dei quali non è stato in grado di conquistare. È riuscito a mettere in cassaforte lo Utah, dove un candidato conservatore indipendente, Evan McCullin, era riuscito, a inizio campagna elettorale, a risultare primo nei sondaggi grazie al voto dei mormoni, delusi da Donald Trump. Poi il repubblicano ha risalito la china, assicurandosi ipoteticamente anche Texas, Tennessee e South Carolina.
Insomma, il voto passa dai pro-life, dalla Chiesa cattolica e dalla destra evangelica, a cui The Donald ha parlato poco direttamente e in pubblico, ma che sicuramente avranno difficoltà a optare per la candidata democratica. Insieme al voto operaio, ormai in cassaforte, le sue ultime ore dovrebbero essere impegnate per riordinare un voto religioso in libera uscita. La sua ultima speranza è convincere gli Stati di Gesù.

 

07 novembre 2016

Trump o l'abisso


di Lorenzo Roselli

Scrivo queste poche righe di getto, quasi ispirato. Si, decisamente ispirato da una musa... Della polemica politica.
Questa musa è un'attrice per adulti (come si usa definire oggi chi si prostituisce di fronte una telecamera) spagnola, che in terra iberica è recentemente divenuta un'opinionista tout court e di cui, per non darle ulteriore e immediata fama, celerò il nome.
Ebbene la signorina ha dichiarato che il voto di domani potrebbe far retrocedere gli Stati Uniti e con essi il mondo occidentale "indietro di 50 anni". Occorre quindi andare "tutti a votare per impedire che un personaggio del genere ottenga un ruolo di così tanto potere".
Non so perché, ma leggere questa insulsa notizia rilanciata da media ispanici di quart'ordine ha come acceso nel sottoscritto un desiderio, combattuto e represso duramente negli ultimi mesi.
Questo desiderio è quello di esprimere un concetto in se abbastanza conciso: Donald Trump non è semplicemente il male minore, il repubblicanello con la pettinatura vagamente riecheggiante lo stile reaganiano da contrapporre al democratico laicista. No, amici miei, Donald Trump non è Mitt Romney, Bush Senior o Bob Dole. Non parliamo di un inutile e sgradevole conservatore perfettamente speculare ad uno spocchioso e petulante liberal, al primo lievemente peggiore.
Il vituperato Trump, il “deplorabile” Trump come viene definito dalla stampa avversa. Ovvero tutta, per lo meno in Europa.

Disprezzato dal suo partito, ufficialmente in quanto becero e incompetente, ufficiosamente perché antinterventista, simpatizzante di politiche protezionistiche, lontano dai circoli che formano l'elité repubblicana almeno quanto lo è da certo conservatorismo fiscale ultraliberista che si è in parte riversato sul candidato libertario Gary Johnson.
Maltrattato dai principali sistemi d'informazione statunitense che certamente ne hanno garantito, per eterogenesi dei fini, la scalata di consensi durante le primarie, ma come rileva l'ultimissima soffiata di Wikileaks, ha tentato di affossarlo in maniera abbastanza palese nei dibattiti. Addirittura la CNN avrebbe concordato con l'entourage della Clinton le domande da fare all'imprenditore newyorkese.

Ah si, il deplorabile e malevolo Trump. Un candidato repubblicano che per primo si è espresso in maniera favorevole ad un sistema pubblico di assistenza sociale nella sanità. 
Un candidato alla Casa Bianca che ha condannato senza se e senza ma la sciagurata avventura iraqena, anteprima dello scenario disastrato a cui assistiamo in Medio Oriente.
Un candidato alla presidenza degli Stati Uniti che ha ammesso il ruolo ambiguo giocato dalla NATO nella “rivoluzione libica” e le responsabilità innegabili di Washington nell'avanzata del salafismo tafkirita in Siria, Libia ed Iraq.

Contro di lui una donna che di questi crimini è stata indiscussa protagonista, facendo di tali abiezioni quasi un vanto.
Una donna che ha rivoltato contro Donald Trump le sue proposte di pacificazione con Mosca come “propaganda russa”, arrivando persino a definire il proprio avversario “marionetta di Putin”.
Una donna che durante un dibattito presidenziale, di fronte a milioni di spettatori in tutto il mondo, si è espressa favorevolmente ad un aborto tardivo fino all'ottavo mese di gravidanza.

Insomma, ogni persona di buon senso può fare le dovute considerazioni rispetto al quadro finora espresso. Tuttavia, io avevo taciuto. Quasi a voler anche questa volta glissare l'endorsement, forse per l'orgoglio di non dover “tapparmi il naso” come solitamente faccio al momento della chiamata alle urne.

Ma la premura di taluni intellettuali nostrani ed esteri, di artisti pop di valore dubbio fino ad arrivare a Robert De Niro, tutti sommamente preoccupati del “sessismo”, della demagogia, delle offese vere o presunte che un cittadino occidentale proietta sulla narcistica percezione di se stesso... Il loro comodo sdegno piccolo borghese fare sempre più la voce grossa mentre i bambini di Aleppo vengono torturati dai “ribelli moderati” e i cristiani di Libia patiscono l'inferno in terra... Questo mi ha costretto a parlare.

E mi obbliga a rammentarvi che a dispetto dell'ironia che ciascuno di noi può aver fatto su questa bizzarra campagna elettorale, il voto di domani rappresenta una scelta drammaticamente ineluttabile: “Trump o l'abisso”.
Perché se questo clown paffuto non la scampa, il futuro sarà molto tetro e non solo per i cittadini d'Oltreoceano ma per tutti noi. Ricordatevene perché, di quanto detto o omesso in queste ultime ore sarete chiamati a testimoni. Lo saremo tutti.