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01 ottobre 2017

Invito al cinema: “Tiro libero”


di Roberto De Albentiis

Visto in anteprima la sera del 19 settembre nel cinema multisala di Macerata, uscito nei cinema italiani il giorno 21 del medesimo mese, “Tiro libero”, per la regia di Alessandro Valori, è un film italiano di genere drammatico che tratta di temi seri come la malattia e la sofferenza, il rapporto tra genitori e figli, il vero innamoramento; Alessandro Valori, attore, produttore e regista dichiaratamente cattolico, autore di film (ultimo, dell’anno 2016, “Come saltano i pesci”, avente peraltro una parziale ispirazione autobiografica) e cortometraggi, riesce a parlare della fede e del suo rapporto con la realtà concreta in maniera leggera ma presente.
In questo film semplice e insieme toccante, Dario (Simone Riccioni), giovane promessa del basket di Montegranaro, tanto bravo quanto strafottente, riceve un’inaspettata “batosta” dalla vita sotto forma di malattia invalidante; condannato per il suo comportamento arrogante e rissoso a tre mesi di lavori socialmente utili, inizialmente scansati, diverranno il mezzo del suo miglioramento nella maniera inaspettata di una squadra di basket di bambini disabili ospiti dell’oratorio salesiano di Macerata, di cui diverrà il motivato allenatore; aiutato anche dall’amicizia e poi dall’amore di Isabella (Maria Chiara Centorami), inizialmente scettica ma poi convinta sempre più del suo cambiamento e della sua sincerità, Dario riuscirà a migliorarsi e a vivere in maniera più consapevole e matura la sua malattia.
Film di buoni sentimenti, “Tiro libero” lo è nell’accezione positiva del termine: le grandi tematiche del dolore, del perché del dolore, della teodicea, del dialogo e perfino dello scontro con Dio, pur se trattati in maniera lieve, non sono affatto scansate, e non si ha un “happy ending” classico; eppure, il vero protagonista, che viene accennato in varie scene del film, anche se non parla, è Dio, il Quale appare inizialmente lontano per poi essere percepito come presente, anche e soprattutto nella difficoltà e nella malattia. Perché esistono il male, la sofferenza, il dolore, che colpiscono tanto gli “stronzi” (come lo stesso Dario si auto-appella) come le persone buone o normali (il marito della sorella di Dario, gli ospiti dell’oratorio salesiano)? Non viene data una risposta, ma viene dato un modo di affrontar, offrirli a Gesù, inchiodato e silente sulla Croce, inizialmente sfidato da Dario e poi accettato e accolto.
Girato interamente in Italia, anzi, nelle Marche, tra Ancona, Falconara, Macerata, Civitanova e Montegranaro, questo film è un omaggio ad una regione italiana martoriata tanto dal terremoto dell’ottobre scorso quanto da una silente ma larvata e sempre più diffusa crisi economica, e che però ha da offrire tanto, sia quanto a bellezza (meravigliose le verdi colline e il bel mare che si vedono) quanto a umanità (i sacerdoti che si vedono nel film sono i veri preti dell’oratorio salesiano di Macerata, città natale del regista); il film vede certo la presenza di volti noti del cinema e della televisione, come Biagio Izzo e Nancy Brilli, ma, parimenti, vede parecchi volontari e comparse non professionisti, in primis i ragazzini disabili della squadra di basket.
Chi andrà a vedere “Tiro libero” (che prende il nome dalla nota mossa di pallacanestro) non vedrà solo dei begli scenari naturali, ma vedrà soprattutto una lezione su come sopportare bene le avversità e il dolore, tanto recitati – e bene ad opera di Simone Riccioni – quanto reali  - si vedano i ragazzini disabili e gli anziani e i malati dell’oratorio – e concreti; non c’è, come detto, l’happy ending (del resto, la vera realtà, che non è un film, non lo prevede), ma c’è un’importante lezione: le avversità, il dolore, la malattia, il male, hanno senso solo se sopportati e sofferti insieme, solo se servono di lezione, solo se offerti al primo Sofferente, Gesù. “Tiro libero”, nella sua semplice linearità, ha il pregio tanto di intrattenere quanto di insegnare, è una visione che merita.


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09 agosto 2017

Nessuna legge può dare la forza di amare: si ama perché si è amati

di Marco Parnaso
L’amore se è meritato, è meretricio.
Questa Parola sull’amore di Dio– amore meritato e amore meretricio – anzi questa esperienza sintetizzata in questa mirabile frase, rappresenta il passaggio – la mia personale pesach/pasqua - dal Vangelo vissuto come legge al Vangelo vissuto come grazia.
Ho sempre desiderato essere come Paolo, teologo, capace di farsi tutto a tutto e di adattarsi all’interlocutore, ma mi ritrovo sempre ad essere come Pietro, con tutti i suoi difetti e le cui mancanze mi fanno da specchio.

All’inizio di un cammino di conversione vi è la fase dell’innamoramento: avviene che uno diventa ‘praticante’ e si cade nella presunzione (il peccato per eccellenza dell’uomo religioso!) di essere diventato bravo perché si fanno o si pensa di fare tante attività e preghiere per Dio.
Si ama certamente Dio, ma si rischia di amarlo nel modo sbagliato, in quanto al centro della relazione non c’e’ il TU di Dio, ma l’IO di me.
Come Pietro si pensa di potere dire “ovunque andrai Signore, io ti seguirò” (la frase dell’ultima cena prima di consumare il tradimento, ogni volta che la ascolto nel film di Gibson è il primo momento di singhiozzo); quello che sto cercando di comunicare è che sono io che volevo amare il Signore, mentre è Lui invece che mi ama per primo e ha dato la sua vita per me. 

Da qui la frustazione dell’uomo religioso quando si prefigge degli impegni con Dio e non riesce a rispettarli; l’errore è quello di cercare di volere fare le cose senza la grazia di Dio, senza affidamento a Lui, confidando nelle proprie forze. Volevo essere amato solo perché ero bravo.
Pensavo in altre parole di meritare l’amore di Dio.
Amavo Dio come oggetto di possesso: anziché aprire e tendere la mia mano verso di lui, volevo prendere lui nel mio pugno e farlo oggetto di mio possesso anziché essere posseduto io da Lui.
In questa prima fase non attingevo alla sorgente della Parola, ma ero pieno di dottrina (documenti, encicliche, etc.): non sto dicendo che siano sbagliati, ma prima viene il Vangelo e dopo i documenti della Chiesa, che lo spiegano il Vangelo!).

Ma poi avvenne una sorta di seconda conversione, una sorte di rivoluzione copernicana: la prima mi aprì la mente, la seconda mi aprì il cuore: prima giudicavo in base alla legge, ora mi sforzo di avere uno sguardo sulle cose secondo lo spirito di Dio.
Tutto è avvenuto grazie alle logo-terapia (Terapia del Logos)
E' stata una vera e propria terapia della Parola che mi ha svelato il mio essere figlio e non padrone delle cose; come Pietro ho capito (finalmente) che Dio mi ama semplicemente, a prescindere ed indipendentemente da come sono e quello che faccio; che Lui mi è fedele a prescindere dalle mie infedeltà, piccole e grandi.

Si vive da Figlio quando non si esce dalla grazia di Dio, cioè si ha lo sguardo in direzione di Dio, come il Davide dell’AT, e non si ricade nella schiavitù della propria giustizia. La differenza tra un cristiano e un non cristiano è che il primo (noi) sa di essere un peccatore, che vive di grazia e di perdono, mentre il secondo non ancora e deve quindi ritenersi giusto e sempre giustificarsi.
Una volta quando mia sorella non riusciva in una cosa, non riusciva a superare un ostacolo insormontabile, essendo entrata in un momento critico e vedendola come non la avevo mai vista, mi alzai dalla scrivania davanti al computer ove mi trovavo, andai ad abbracciarla e le dissi: “anche se non riesci in questa cosa, ti voglio bene lo stesso”…con queste parole il suo cuore si quetò. Mi venne così spontaneo e naturale allora! Da allora glielo ripeto ogni qual volta manca o non riesce in qualcosa!

La salvezza di Dio non può essere conquistata con una vita impossibile, tutta intesa a redimersi dal debito di essere nati – la colpa di vivere! La salvezza deriva dall’essere figli, per questo i figli ereditano il regno, che è la naturale conseguenza del nostro reazionarci. Il nostro essere figli è solamente un dono da ricevere.
Ciò che ho compreso infine è che impossibile acquistare meriti presso Dio: vive fuori dalla grazia di Dio il figlio che si persuade che solo se è buono, allora è amato: la triste conseguenza sarà che, più sarà bravo, più si sentirà infelice ed amato. Che bello invece scoprire di essere amato per il solo fatto di essere, ed anche per la nudità e la debolezza di quello che si è! che forza liberante e dirompente. 'Li hai amati (noi) così come hai amato me', dice Gesù nei discorsi dell'addio; cosa ho fatto io per 'meritare' di essere amato da Dio con lo stesso amore che Dio ha per il Figlio ? Niente.
E’ più facile amare o essere amato? Probabilmente è più bello amare perché implica una attività positiva e una forza dirompente in chi ama, ma è più difficile lasciarsi amare, in quanto ciò implica fare entrare (Dio o uomo che sia) qualcuno nella nostra vita, così come è più bello parlare ma è più difficile ascoltare (non sentire) una persona: si fanno più resistenze insomma quando si è in uno stato di 'passività' perché bisogna accogliere l’altro che si propone.
 

14 luglio 2017

L'uomo senza Dio è un navigante senza bussola e senza stelle


di Paolo Garlando

L'uomo, dal Seicento in qua, vuole fare a meno di Dio e fare di testa sua. Questo per sentirsi libero! Ma questo è l'inganno del maligno!

L'uomo vuol sentirsi libero, ma da cosa? Dai dogmi della religione che lo induce a credere nell'indimostrabile, che non può essere contenuto nella nostra mente limitata e che, quindi, va scartato in quanto irrazionale?

L'ha fatto tante volte e ha sempre fatto danni, per i popoli, e prodotto benefici per i ragni dell'economia mondiale, che "fanno la storia".

L'uomo si libera di Dio, per che cosa? Per buttare alle ortiche la parola di Dio e rendersi schiavo di una rete di regole, frutto della mente umana, limitata e, quindi, soggetta all'errore, che lo opprime, fino a soffocarlo.

La vicenda di Charlie si colloca proprio qui: Charlie ha bisogno di amore (già, ma che senso ha parlare di amore se l'Amore viene escluso dalla nostra vita?) e di cure, ma il suo diritto si scontra con il sapere scientifico (che non è mai definitivo!) di chi ritiene di poter decidere se il bimbo possa continuare a lottare oppure no, senza prendere in considerazione l'eventualità di altre soluzioni che la scienza, tuttavia, pare proporre. Il parere dei medici viene sottoposto all'attenzione di importanti collegi giudicanti, che lo recepiscono e, per Charlie è finita. Ma Dio, come la pensa? No, no! Lasciamo stare Dio! Piuttosto, visto l'interesse mediatico suscitato dalla vicenda, torniamo dagli stessi giudici: chissà che non cambino idea?

L'uomo senza Dio è un navigante senza bussola e senza stelle... meditate gente, meditate...

https://labaionetta.blogspot.it/2017/07/lettera-dal-fronte-luomo-senza-dio-e-un.html

 

20 gennaio 2017

La solitudine dei terremotati


di Amicizia San Benedetto Brixia

Parliamo ancora di terremoto. Poche settimane fa abbiamo pubblicato una riflessione di san Giovanni Bosco attorno al dramma del terremoto, oggi continuiamo sulla stessa tematica.

Suggerisco, quale esercizio istruttivo per lo spirito, di confrontare il commento che due personaggi di Chiesa hanno dato in merito alle catastrofi del Centro Italia. Da un lato propongo il monologo di don Luigi Maria Epicoco alla trasmissione Nemo (Rai2) dello scorso Novembre, dall’altro l’intervista rilasciata dal monaco benedettino Benedict Nivakoff a Tracce (11, dicembre 2016, 12-15), i cui concetti si trovano anche nel Te Deum di tempi.it.
Don Luigi chiarisce anzitutto che, alla domanda su Dio in caso di terremoto, “non risponde il prete, risponde il sopravvissuto”, il quale con sincerità asserisce “la mia fede è rimasta seppellita là sotto”. Il terremoto dunque scuote la fede del prete, che è costretto a rimettersi in gioco e si scopre essere come “un bambino, quando pensa che siccome c’è la mamma e il papà che lo amano, non gli capiterà mai niente di male”, quale il bambino tale il prete: “anche io ho pensato questo: se ci ami, perché ci fai questo?” Donde la riflessione “abbiamo una idea forse non giustissima di che cosa sia l’amore”, che porta il parroco a comprendere che l’amore è dire “io ti amo, per questo tu puoi vivere anche una cosa difficile”, mentre al contrario “si bara, quando si dice, ti amo e ti proteggo dai problemi”. Morale della favola: “questo fa l’amore, quando uno ti ama non ti evita la vita, ma ti dice che tu puoi affrontarla”.

Diverso il contenuto della riflessione di dom Benedict Nivakoff, che a scossa avvenuta si è messo in ginocchio davanti alla chiesa in rovina, perché “mettersi in ginocchio innanzitutto è stata la supplica di protezione”, ma anche perché è “un gesto di penitenza. E questo è molto importante, soprattutto dopo una tragedia”. La disgrazia infatti pone una domanda ai sopravvissuti: “Il Signore mi ha salvato la vita. Perché? Io che cosa devo cambiare? E’ la possibilità che Dio ti dà di cambiare vita”. Dunque “quello che è avvenuto ci spinge... a convertirci”, che significa “riconoscersi fino in fondo piccoli, peccatori, riconoscere quanto si è lontani da Dio”. Morale della favola: “l’importante è che quando Norcia rinascerà, trovi una fede più forte e seria di oggi”.

Non reputo né sciocca, né fuori luogo la risposta di don Luigi Maria Epicoco, solo, come abbiamo già notato nella lettera di san Giovanni Bosco, essa è lacunosa e sbilanciata, in accordo con la moda teologica corrente: si parla dell’uomo più che di Dio, di psiche più che di spirito, peraltro lasciando in silenzio il fatto che il terremoto è un male che Dio potrebbe evitare, mentre le disgrazie della vita sono mali che i genitori davvero non possono evitare ai propri figli (quando possono le evitano: es. con i vaccini).
Dall’altra parte abbiamo la confessione del monaco benedettino: ad essere imputato non è Dio o la sua credibilità, bensì l’uomo e la sua peccaminosità; la reazione poi non è quella di farsi domande, di agitarsi, di chiedere conto del sangue altrui, quanto quella di inginocchiarsi, prevenendo nella preghiera e nella mortificazione qualsiasi altra esternazione; entrambi, va notato, ammettono la propria lontananza da Dio, solo che Epicoco insiste sulla lontananza di comprensione mentale e psicologica, mentre Nivakoff focalizza la lontananza ontologica del peccatore dal Santo; l’esito è coerente, per il giovane parroco diocesano: l’orizzonte è di forte immanenza, davanti a noi sta la vita, più o meno incomprensibile, da affrontare con l’amore in uno slancio dal sapore solitario, mentre per il consacrato davanti a noi sta la storia, opaca e irsuta, nel cuore della quale si deve porre il seme della fede, perché le società di domani avrà questo solo talento di cui render conto.

Interessante, però, che nelle rovine della tragedia a sentirsi meno soli e meno defraudati siano coloro che da sempre scelgono di vivere soli (monaci) e senza niente. Che aggiungere? Anche niente. Mettiamoci in ginocchio e preghiamo.

 

13 novembre 2016

Male fisico, bontà e Giustizia divina


di Riccardo Zenobi

Nel mio precedente post ho analizzato la questione dei disastri naturali alla luce di una visione prettamente filosofica; qui intendo invece dare un taglio più teologico alla vicenda, la quale mi porterà a trattare anche del problema dell’esistenza dei castighi divini.

Tutto parte dalla constatazione dell’esistenza del male fisico nel mondo, dato questo del tutto innegabile e che non può essere svicolato. Cosa si intende con “male fisico”? Solitamente designiamo con ciò un evento non causato dall’agire umano, il quale arreca della sofferenza e del dolore. Di fronte a tali eventi, non serve a nulla l’ottica determinista (filosofica, non scientifica) secondo cui tutto ciò che accade è meccanicamente determinato fin dall’inizio del tempo: trovatemi un terremotato che se la prende con il determinismo meccanicista. La prima domanda che ogni persona colpita da una catastrofe naturale si fa è “perché a me?”, aggiungendo solitamente “cosa ho fatto di male?” È questo il punto di partenza da cui intendo abbozzare una replica, che non intende essere esaustiva – sarebbe puramente utopico – ma che ha l’intento di non far cadere nell’assurdo, che è l’esatto opposto di una risposta.

La prima cosa da mettere in chiaro per poter dare una qualche risposta è che il rapporto del cristiano con Dio non è un do ut des, del tipo “io prego, vado a Messa, ma in cambio mi deve andare tutto bene”, cosa questa che si può assimilare ad un “sia fatta la volontà dell’uomo”. Anche perché i progetti umani interferiscono sempre tra loro: è chiaro che una visione do ut des è assurda sotto tutti gli aspetti. E questo è una prima risposta, sebbene molto cruda: Dio non è ai comodi nostri, che io sia Papa, capo di stato o semplice fedele e mendicante. Ma sorge spontanea la domanda: Dio allora può fare quello che vuole, senza curarsi di nulla e nessuno? Se ci fate caso, ponendo questa domanda non fate altro che ridurre Dio ad uno spettatore che interferisce col mondo quando ne ha voglia – cosa questa che Lo renderebbe soggetto al tempo, e dunque non staremmo parlando di Dio, ma di qualcos’altro che nemmeno esiste. Va tenuto presente che Dio non ha i nostri limiti temporali e prospettici: non essendo soggetto al tempo, ed essendo il creatore, non c’è nulla che sia esterno alla sua influenza, né nello spazio né nel tempo, e quindi non ha alcuna difficoltà a conoscere tutte le conseguenze di un evento, per quanto nel lontano futuro. Non porterebbe all’essere degli eventi dai quali non potrebbe trarre del bene, per quanto a noi sfugga tutto ciò: alzi la mano chi di voi sa cosa accadrà tra 200 anni ad Amatrice, o ad Arquata o a San Severino Marche – se non lo sapete voi, Dio lo conosce, e quindi è più indicato di voi a rispondere alla domanda “perché il male nel mondo?” Va chiarito che dei singoli eventi traumatici non possiamo sapere il motivo. Non possiamo sapere nel dettaglio che un certo evento ha portato certi beni, oltre a far crollare paesi ed a causare la morte di alcune persone: ciò che intendo sostenere è che Dio conosce cose che noi ignoriamo, e questo è sufficiente per fidarsi del Suo agire.

Ma c’è un ultimo tassello in questo puzzle: se Dio è buono per essenza, tutto ciò che fa o crea è necessariamente buono? La risposta è no. Solo in Dio essere e bene coincidono, per cui tutto ciò che è creato non è buono nella sua essenza. La questione è difficile, ma chiunque di noi sa di non essere buono per essenza, e ciò vale anche per le cose inanimate. Se perciò noi e il mondo non siamo buoni quanto lo è Dio, l’unica cosa che possiamo fare di fronte al male nel mondo è rivolgerci a Dio in preghiera perché sia fatta la Sua volontà e non la nostra. Se infatti non siamo buoni, perché Dio non potrebbe sconvolgere i nostri piani, visto che ne conosce le conseguenze meglio di noi? Ecco quindi che dare l’essere ad una catastrofe naturale non implica che Dio sia malvagio perché sconvolge i nostri piani con degli eventi traumatici.

Ma se non siamo buoni, vuol dire che possiamo anche fare del male. E Dio sa meglio di noi quanto le nostre azioni possano portare male nel mondo, e per quanto tempo. Ecco quindi il fondamento teologico del castigo divino: la non permissione di certe azioni umane, per evitare mali peggiori. Vista sotto questo punto di vista, è chiaro che anche il castigo divino non compromette la bontà divina, anzi: correggere un figlio, evitare che faccia una cosa che farà del male a lui e ad altri è tutt’altro che incompatibile con la bontà divina. “Punizione” infatti non è da intendere come “fare del male a Tizio perché così impara” – visione questa molto infantile della questione. Purtroppo il discorso sulle punizioni divine è spesso viziato da tale concezione del castigo, che è del tutto erronea, e sono il primo a dire che una cosa del genere è da rigettare a tutti i livelli, anche umani. Ma ciò non vuol dire che Dio non possa sconvolgere i nostri piani per evitare un male peggiore.

A livello teologico e scritturale, la Bibbia contiene degli eventi che vengono indicati dagli agiografi come “castighi divini”, sia nell’antico testamento (cos’è infatti la cattività babilonese se non il castigo divino dei peccati del popolo? E non lo dico io, lo dicono i profeti) che nel nuovo: pensate a Mt 11, 20-24: questo passaggio (come altri) difficilmente si possono interpretare diversamente da correzioni divine verso borgate precise (che peraltro oggi non esistono più). Oppure pensate all’Apocalisse: il messaggio fondamentale non è che l’uomo si castiga da solo, ma che certe sue azioni gridano vendetta al cospetto di Dio. Come è del tutto testualmente infondato sostenere che certi eventi non sono indicati dalla Bibbia come castigo divino, così è altrettanto assurdo dire che le punizioni riguardano solo il tempo precedente la venuta di Cristo: forse il Dio dell’antico testamento non era lo stesso di quello di Gesù Cristo?

Ciò che certi giornalisti e che molti ecclesiastici non capiscono è che la loro “teologia” che esclude le punizioni divine è viziata da una visione preconcetta del termine “castigo”, ed è in nome di questo che affermano urbi et orbi che Dio non può punire perché è buono. Ci sarebbe da aprire il discorso di quanto siano buoni gli ecclesiastici che hanno censurato e punito padre Cavalcoli o. p., ma qui conviene ringraziare Dio del fatto che costoro non sono Dio – anche se ogni tanto occorre rammentarglielo.

 

27 ottobre 2016

Il Catechismo in busta

(ovvero i 5 pippoli d’arancio teologali)

di Matteo Donadoni

"Quando il generale Lee depose le armi, mio zio tornò alla piantagione…"
(A.C. Doyle, Cinque semi d’arancio)

Già, prima o poi doveva accadere. Il mio parroco don Benvoglio, del quale vi ho parlato, è andato in pensione. Intendiamoci, solo da sacerdote, perché in qualità di docente otime manebit in cathedra. Francamente non mi mancherà l’ex parroco, e già questa è una notizia infelice. Ma, dato che l’infelicità è tenace come un mastino che ha fiutato l’usta e imprevedibile come trovare cinque pippoli d’arancio in una busta, ecco che in curia hanno pensato bene di mandarmi un nuovo parroco, che chiameremo qui “don Ariano”. Chissà se avrà influito sulla scelta una mia vecchia lettera in richiesta di un sacerdote con smanie tradizionaliste. Tanto ormai tutto ciò che riguarda il cattolicesimo applicato è per me un giallo. Forse sarebbe stato meglio scrivere allo zio Elias Openshaw piantatore, o che so, ai fratelli Marx.
Perciò, si può intuire che la mia assenza da queste pagine non è dovuta tanto alla mia scocciatura per il fatto che la vita sembra banale perché i giornali non dicono nulla, ma ad una disarmante vicenda insolita che mi ha causato uno choc dal riflesso parateologale coatto, per riprendermi dal quale ho rischiato di farmi anacoreta o almeno agrumicoltore.
Dunque, ora che sono passati i venti equinoziali e la pioggia autunnale sta spazzando le strade come il ponte di un brigantino, dobbiamo cercare di innalzare le nostre menti al di sopra del rollio della routine e darci da fare.
Ecco qui il mio cliente, l’uomo da cui l’epifenomeno che spezza la noia: un’ora e mezza di catechesi, o, per meglio definirla, di introduzione alla catechesi. Una catechesi mignon, un minibabà, un discorso che secondo don Ariano doveva farci venire, proprio a tutti, l’acquolina in bocca. Un idioma teologico gassoso e stucchevole come una Coca-Cola di sottomarca, che si è rivelato, invece, una dottrina in busta come i semi d’arancio del K.K.K. Letale.
Più che spremuto, però, è il caso di dire frullato. Nonostante sia ben conscio del fatto che la polemica sia un atto di carità, questa volta non ho saputo reagire; sono stanco di discutere con i sacerdoti che dovrebbero confermarmi nella fede e invece fanno di tutto per farmela perdere. Ho deposto le armi come il generale Lee e me ne sono andato via con l’acidità di stomaco. Ma, gastrite a parte, se quella catechesi fosse stata in busta, la busta conterrebbe questo biglietto (Telegramma prepagato. Da leggere):

I 5 PIPPOLI

La Bibbia non è la Parola di Dio, ma ne contiene il succo.
La chiesa non è la casa di Dio, ma Dio è in ognuno di noi. - Corollario: vietato inginocchiarsi.
Gesù ha infranto tutte le Regole della religione ebraica, non volute da Dio, ma inventate (sic!) dai sacerdoti per profittarsi economicamente del povero popolo di Dio. - Corollario: Gesù è venuto per distruggere la religione (sic!). - Corollario n°2: non si serve Dio, ma l’uomo.
(Ergo) Il tabernacolo non è il centro della chiesa e fa bene chi lo mette di lato (ma andrebbe tolto del tutto), ma è la tavola – che non è un altare! – il centro della chiesa.
(Ergo) Non c’è nessun sacrificio perché il perdono è gratis. Dio non sa cosa farsene dei sacrifici, soprattutto quelli animali dell’AT. Dio è amore, Dio è mio papà. - Corollario: idem con il punto 2, non mi inginocchio davanti a mio padre.

A questo siamo arrivati: la “chiesa dei pippoli”.
Ora, io non sono un eresiologo, ma a me pare che da questi cinque assiomi derivino almeno un paio di semplici considerazioni.
La prima è che l’intero iter para esegetico ben si affianca allo scandalo vaticano della diabolica statuetta rossa di quel Martin Luther (1483-1546), considerato ormai un mistico cristiano (vedi Edizioni Dehoniane), esposta al termine del pellegrinaggio (?) dei luterani a Roma svoltosi in vista delle celebrazioni dei 500 anni della sua epocale rampogna con le 95 tesi di Wittenberg. Affatto peculiare. Libero esame allo stato brado, l’altare è una mensa, la Messa una conferenza. D’altra parte il parroco ha esplicitamente detto che “inizialmente” aveva ragione Lutero. Ergo non ho nemmeno iniziato ad imbastire una discussione, non ci può essere dialogo teologico con un luterano: l’eresia luterana è teologicamente inconfutabile, in quanto un luterano non rifiuta un particolare articolo di fede, ma rinnega il principio di tutti gli articoli e cioè il principio stesso del magistero della Chiesa cattolica circa l’intera interpretazione della Bibbia. Non la Chiesa dà autorità divina, ma l’autorità del singolo avvalora l’esegesi. Romano Amerio lo definisce pirronismo protestantico. In soldoni vale tutto.
Tuttavia, se vogliamo ben vedere, secondo la chiesa dei pippoli, ex post, in definitiva Gesù è solo un uomo. Niente sacrificio uguale niente presenza reale. Infatti non l’uomo serve Dio, ma Dio serve l’uomo. Una teologia che non tiene conto del semplice fatto che è Dio a rendere amabile l’uomo e che il motivo di doverlo amare è scaturito dall’amore per Dio stesso. Una teologia ribaltata secondo la quale, di conseguenza, il Regno di Dio non è nell’aldilà, ma al di qua. Concetto non esplicitato ma accennato. Dunque, se il regno di Dio è al di qua, il fine della Chiesa non è salvare le anime, ma salvare i corpi. Definiamo questa dottrina somatolatria. Uomini che servono altri uomini e non Dio, a prescindere da Dio. Peccato, però, che questi sacerdoti loquacemente conturbanti, sempre indaffarati ad inzaccherarsi di materia fino alla barba, diversamente da quanto accadeva nei secoli della Chiesa antica, non guariscano più nessuno dalle malattie e non resuscitino più nessuno dalla morte.
Di conseguenza la religione di don Ariano è una metatesi – per non usare una parola simile – teologale che utilizza il cristianesimo per deviarlo, per piegarlo, ancorché a fin di bene (ragion pratica), ai propri interessi mondani, cancellando il mistero della costituzione ontologicamente teandrica di Cristo. Apposta ha fatto sequestrare ai bambini tutti i catechismi già pagati dalle famiglie (quelli CEI che già erano insulsi) per utilizzarne uno scritto dall’amico suo, fotocopiato. Pare, tuttavia, che questa sia la concezione che va per la maggiore ultimamente, ridurre la Chiesa cattolica da Corpo mistico di Cristo ad una fantomatica Amateur Mendicant Society.
Se così fosse, non serve essere Sherlock Holmes, la stessa tragica evidenza del reale lo impone, Gesù sarebbe morto invano. Dio avrebbe fallito. La povertà, infatti, è eterna. La prepotenza mutevole ma imperitura. La malattia un mostro camaleontico impalpabile ed invisibile fino al manifestarsi fenomenologico della sintomatologia patognomonica, quando può essere ormai tardi e si va a far compagnia al senno del poi. L’ultima ratio di un discorso del genere è un epitaffio nietzschiano.
L’ermeneutica secondo cui la Legge di Dio è invenzione umana diviene nullificante l’intera religione ebraica e di conseguenza cattolica, che ne è compimento. E poi, quale enunciato testamentario sarebbe succo e quale no? E chi lo deciderebbe? E se il perdono è gratis perché Dio sarebbe morto in croce? Ha mai sentito parlare di Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo? A volte anche a me vien voglia di mandare a giro semi d’arancio, così, a titolo esplorativo, ma non è da buoni cattolici deviarsi dai buoni fini dei primordi come un Ku Klux Klan qualsiasi. Perché la saggezza è discernimento pratico dei mezzi e non si concilia con l’abbandono del fine.
Un uomo curioso, don Ariano, nonché simpatico. Molto simpatico, anzi, mi sta decisamente simpatico, devo ammetterlo con travolgente perplessità emotiva. Non tanto perché ha portato la carambola, ma soprattutto per la sua genuina giovialità (almeno tale voglio sperarla, altrimenti ci sarebbe di mezzo una malizia sulfurea). E poi ha messo un flipper d’antologia. Amo i flipper. I flipper, metaforicamente parlando, sono l’eziologia di uno stile di vita. Palle d’acciaio. Eppur girano, girano e rimpallano, come pirotecnici solidi, come emozioni luccicanti dominate dalla mente in ragione di traiettorie ben ordinate e, ogni tanto, con uno sparo improvviso, hai vinto una partita.
Per ora ho abbandonato una parrocchia le cui vestigia cattoliche gemono, sconfitte dall’aggressività ariana in clergyman. Vago, reduce, in cerca di una Messa domenicale almeno decente. E a volte, come un soldato in grigio sconfitto e sofferente, medito in spirito eutimico su ciò che sarà e su ciò che avrebbe dovuto essere, sapendo che per la Legge della Conservazione Storica della Chiesa risorgeremo, vagliati come l’oro, purificati dai nostri peccati. Per ora torno anche io alla mia piantagione, anche se spirituale, cercando di salvare il seme, almeno sulla mia terra.
Un agrumeto a Bergamo non era decisamente un’avventura romanzesca, né una grande idea, d’altra parte.

 

07 giugno 2016

Il miracolo del matrimonio cristiano


a cura di Parco Miazza

È uscito da poche settimane "Lettere a una moglie", il terzo libro della collana “UOMOVIVO - umorismo, vita di coppia, Dio”, scritto da Giuseppe Signorin, disponibile (in formato cartaceo e digitale) presso la libreria online di Berica Editrice e presso IBS. Per maggiori informazioni è possibile scrivere un’email a mienmiuaif@gmail.com.

Per approfondire le tematiche del libro, particolarmente vicine alla sensibilità del blog, abbiamo fatto qualche domanda (impertinente) all'autore.

Il titolo del libro, "Lettere a una moglie", presuppone che ci sia alle spalle un matrimonio. Nella prefazione si scopre che si tratta di un matrimonio cristiano, definito come una "magia gigantesca". Guardandomi un po' attorno pare invece che il matrimonio, in particolare quello cristiano, sia considerato un malocchio, 'na fattura, altro che magia... Confermi?

Sì, fino a poco tempo fa il matrimonio cristiano era qualcosa di ovvio. Oggi non più. Addirittura fra i cristiani. Basta discutere di fidanzamento, sessualità, apertura alla vita, ruoli, indissolubilità, preghiera... e si viene presi per pazzi (non sempre direttamente, ma la sensazione è un po' questa). Per me e per mia moglie Anita, che abbiamo iniziato un cammino di fede circa quattro anni fa, è stato sorprendente scoprire di andare controcorrente rispetto all'opinione comune, non solo dei più giovani, nel momento in cui abbiamo deciso di provare a "praticare" la fede. Il libro nasce in questo contesto... Mentre scrivevo le "Lettere a una moglie" mi pareva quasi di avere fra le mani, paradossalmente, materiale di contrabbando...

Ma certo! Noi giovani abbiamo bisogno di forti emozioni, lo vogliamo fa' strano, non sappiamo che farcene della barbosa quotidianità...

Appunto, oggi il matrimonio è visto come qualcosa di noioso, se non peggio... Pensare di stare sempre con la stessa persona... di legarsi... In effetti è una follia, una sfida impossibile, ma proprio per questo vale la pena provarci. Chi riesce a convivere senza la grazia del matrimonio deve avere dei poteri soprannaturali. Per la mia esperienza l'unico modo di poter stare insieme è mettere al centro Cristo. Lui fa il miracolo. Quindi ogni lettera si chiude con una richiesta di benedizione a Dio. Poi io e Anita abbiamo scoperto quest'altra cosa, con la fede: l'umorismo. Soprattutto grazie a Chesterton e a Guareschi. L'umorismo è un'arma incredibile, trasforma il quotidiano, è un vero e proprio esorcismo contro le tentazioni di tutti i giorni. Mi sono convinto che più si ama una persona più la si deve prendere per i fondelli: la presa per i fondelli per me è il supremo atto di amore domestico che si possa fare nei confronti della propria consorte... Per questo sono nate le lettere...

Genio, prendi allegramente in giro tua moglie e dici che è il modo migliore di amarla, mo' me lo segno...
Nelle lettere tra le altre cose spieghi che significa mienmiuaif, questa parola che appare già nel titolo e che solo provare a pronunciarla ti manda in bestia. Ma che vuol dire?

Nel libro racconto, in maniera anche un po' demenziale, di questi "Mienmiuaif"... Siamo io e mia moglie che ci riprendiamo mentre suoniamo delle canzoncine "coniugali" (ma non solo) e le mettiamo su YouTube, spesso e volentieri indossando occhiali da sole. È una storia vera, in effetti... I "Mienmiuaif" esistono e anzi si sono ingranditi, si sono aggiunti un chitarrista e un batterista e abbiamo iniziato a suonare in giro e molte persone hanno iniziato sorprendentemente a seguirci, innescando una rete di amicizie che sono un vero dono del Cielo... Ci mettiamo gli occhiali da sole perché per noi oggi le vere rock star sono gli sposi - e ritorniamo a quando detto prima... A noi piace quest'idea, di provare a seguire gli insegnamenti della Chiesa senza sconti (pur fra mille cadute), ma di proporli in maniera non convenzionale.

Occhiali da sole? Ho visto che in alcuni video indossate anche improbabili k-way... Rimaniamo in tema musicale: le canzoni sono carine, anche se il genere non mi sembra molto in linea con la tradizione bi-milenaria della Chiesa... Non sarà mica panc miusic?

Scherzando (ma anche no) ho definito le lettere e le canzoni "punk"... Non perché lo siano effettivamente (anche se alcune caratteristiche stilistiche - come la brevità, la semplicità, i toni - possono sembrare un po' tali) ma perché "punk" dovrebbe essere qualcuno che va controcorrente, e in un'Italia capovolta come quella attuale, tornare alle origini è diventata un'azione rivoluzionaria. In questo mi ha ispirato un libricino di Emanuele Fant, scrittore e regista/autore teatrale che qualche anno fa ha scritto "La mia prima fine del mondo", dove appunto racconta la sua conversione da punk a punk vero, cioè cristiano cattolico alla "corte" del camilliano fratel Ettore dei poveri. E ora è diventato pure un caro amico.

Andare controcorrente perché si è vivi... Questa frase l'ho già sentita.

 

10 marzo 2016

God’s not dead



di Cecilia McCamerons

“Dio non è morto” recita il titolo del film: il professore di filosofia Jeffrey Raddison – orgogliosamente ateo – all'inizio del corso che il protagonista Josh sta frequentando vorrebbe appunto saltare l’“insensata disputa” e far dichiarare per iscritto ai suoi alunni che Dio è morto. Quasi fosse un assioma, una verità di fede.
Josh, unico della classe, dopo un tentennamento ha il coraggio di dire al professore che lui è cristiano e che quindi non può rinnegare Dio. Il professore quindi lo coinvolge in una sfida, ovviamente impari: dovrà dimostrare l’esistenza di Dio, e saranno i suoi compagni di corso a decretare il vincitore tra i due. Il ragazzo è spronato dal suo pastore perché “se accetti questa sfida potrebbe essere l’unico incontro significativo con Dio di tutta la loro [nda  dei compagni di corso] vita”. Ed inoltre è in gioco il suo futuro accademico (e non solo).

Il film è scorrevole, non annoia mai grazie anche all’intrecciarsi di numerose storie – dolorose, simpatiche, realistiche – delle quali non si sa nella maggioranza dei casi l’esito; ha una bella fotografia e colonna sonora.
Mi è piaciuto molto perché ti mette in discussione: cosa avrei fatto io al suo posto? Sono disposto a giocarmi tutto per la mia fede? Ne varrebbe la pena? Ci credo davvero? Sono un testimone di Cristo nella vita quotidiana? E poi obbliga ad immedesimarti in uno dei personaggi e a vedere come va a finire la sua storia personale. Un po’ come con i personaggi delle parabole dei Vangeli.

Il film è di matrice protestante, quindi con tutte le lacune del caso: carenza nelle argomentazioni filosofiche e teologiche – per esempio san Tommaso e sant’Agostino nemmeno citati –, affidamento alla sola Scrittura, sacerdoti molto “casual”, qualche americanata… ma ciò non toglie che questo film induca lo spettatore a prendere posizione: o Dio c’è o non c’è, con tutte le conseguenze del caso.
Il mio giudizio è complessivamente positivo: è un film adatto per cineforum, lezioni di catechismo, ore di religione (senza dimenticare di segnalarne le problematicità); un film che ti fa prendere una posizione, che ti mette davanti ad una domanda esistenziale, anzi LA domanda per eccellenza. Ed è una pellicola tratta da storie vere accadute negli USA, ispirate a dei casi di discriminazioni avvenuti in college americani, in cui alcuni studenti sono stati puniti per aver manifestato il proprio credo religioso.
Chiuderei però con questa provocazione: come mai i cattolici devono ridursi a fare il tifo per film chiaramente protestanti?

Buona visione!

 

18 maggio 2015

Salvate l’uomo maschio


di Giuliano Guzzo

In principio fu la depilazione, poi venne la chirurgia plastica, ed oggi siamo al reggiseno. Per uomini. Purtroppo non è uno scherzo ma l’ultima trovata che qualcuno – con amara ironia – commenta con la parola “mancession”, recessione del maschio. Di certo, a livello sociale, la figura che sconta maggiore crisi, prima di quella maschile in senso lato, è quella paterna, progressivamente assente: in una grande capitale europea come Berlino ben 134.000 nuclei familiari su 430.000 sono composti da ragazze madri sole con il loro bambino (Repubblica, 20.4.2011) e la musica, in Italia, è la stessa se non perfino peggiore con oltre l’80% dei nuclei monoparentali costituito da donne: significa che nel nostro Paese, stando ai dati del 2011, a più di due milioni di figli non è assicurato il riferimento paterno (Istat, 30.7.2014). Oltre che assente, il padre potrebbe perfino diventare superfluo: a sentire i ricercatori del laboratorio Kallistem di Lione, infatti, a breve, nel 2017, la produzione di spermatozoi artificiali consentirà, pensate, la nascita dei primi senza padri biologici. Polverizzata o quasi la figura del padre – sempre più e già ora, da un lato, allontanato dai figli tramite il divorzio e, dall’altro, rimpiazzato dall’invisibile donatore di sperma – rimane però un’ultima decisiva demolizione da compiere: quella dell’identità maschile, che di quella paterna è la fondamentale premessa. E quale modo migliore di destrutturare l’uomo se non quello di de-virilizzarlo, di presentarlo come donna mancata, come penosa parodia di se stesso?
Attenzione: qui non si incita a nessuna forma di discriminazione verso i maschi con tendenze omosessuali né si vuole fare del complottismo antropologico. No, qui si vuole semplicemente prendere atto della realtà, sempre che i fatti non diano fastidio. E i fatti sono chiarissimi, come dettagliatamente denuncia il celebre testo del francese Éric Zemmour, L’uomo maschio (Le Premier sexe, Denoël 2006): viviamo sempre più una società sempre più “femminilizzata”, dove l’essere maschi in senso tradizionale – evidente, virile, senza particolari indecisioni – è considerato disvalore. Perché in fondo l’uomo maschio, si dice, è solo uno dei tanti maschi possibili. Perché l’uomo maschio, si insinua, è spesso violento, insensibile, facilmente molestatore mentre invece la donna – questo il messaggio che passa – è figura intrinsecamente buona e aliena, salvo trascurabili eccezioni, da ogni malvagia inclinazione. Perché è giusto che le persone con tendenze non eterosessuali siano orgogliose di come sono, perché è sacrosanto che lo siano le donne, ma l’uomo maschio no, lui deve redimersi e fuggire da un’identità caricaturale, da un “potere” che nella storia e nella civiltà ha finora esercitato abusivamente, approfittando di un ruolo che non gli appartiene. Al di là di inutili giri di parole l’idea di fondo, in sintesi, è questa. E la soluzione non sta certo nel rispolverare «l’omo ha da puzzà», inelegante adagio caro a Monica Bellucci, né nel rilanciare il mito primordiale del cacciatore: il problema, qui, è molto più serio.
E il solo modo per uscirne, la sola possibilità di capire come diavolo sia stato possibile arrivare fin qui, con la non dichiarata ma effettiva colpevolizzazione dell’uomo maschio, è alzare lo sguardo osservando come l’ormai prossima rimozione antropologica del maschio sia stata preceduta da quella sociale del padre, e come la rimozione del padre in famiglia, a sua volta, sia stata preceduta quella religiosa del Padre. A qualcuno apparirà semplificativo – in parte lo sarà pure -, ma se pensiamo che il rimedio alla virilità minacciata sia il Viagra, beh, siamo fuori strada. La realtà è che il femminismo, culturalmente parlando, ha conquistato molto più spazio di quanto si pensi. E lo stesso vale per il movimento LGBT, come dimostrano le tesi di Umberto Veronesi, diffuse senza imbarazzo alcuno, per cui esisterebbe un amore, guardacaso quello omosessuale, più puro degli altri, o i pensieri – un tempo dai più rigettati, ma che di questo passo verranno a breve riconsiderati – di Mario Mieli (1952–1983) guru della cultura omosessualista italiana secondo cui «l’eterosessualità […] è patologica» (Elementi di critica omosessuale, Feltrinelli 2002, p. 39). Ma tutto questo non sarebbe stato possibile senza l’originale rimozione religiosa del Padre. Smettendo di credere in Dio, guida celeste della vita, la comune stima verso il padre, guida terrena della famiglia, è andata offuscandosi con la conseguenza che oggi neppure dell’uomo maschio, in fondo, si sa che farsene. Inizio di un cambiamento? Sarà. Ma le culle vuote e le proiezioni demografiche dicono che questo trend, almeno in Europa, somiglia più che altro all’inizio della fine.

http://giulianoguzzo.com/2015/05/15/salvate-luomo-maschio/

 

19 novembre 2014

Il cancro è la prova che Dio esiste


di Alessio Calò


Con tutti i problemi che ci sono in Italia, ci mancava solo il Veronesi teologo: "Dopo Auschwitz, il cancro è la prova che Dio non esiste". E continua, per rafforzare "emozionalmente" la sua tesi ateista, chiedendosi: "Come puoi credere nella Provvidenza o nell'amore divino quando vedi un bambino invaso da cellule maligne che lo consumano giorno dopo giorno davanti ai tuoi occhi?"

In effetti, quando succedono fatti come questi si ripresenta inesorabile la domanda di come essi possano succedere e di come Dio li abbia potuti permettere. L’esistenza del male è infatti un mistero insondabile, utilizzato da sempre come prova della non esistenza di Dio: si parte dalla delusione rispetto alle proprie idee (errate) circa l’Assoluto, fino ad arrivare alla ribellione, se non al rifiuto. La presenza del male può anche generare dei dubbi che, se affrontati correttamente dal punto di vista filosofico (e poi teologico), possono rappresentare un punto di ripartenza, nella vita (e nella fede).

Questo è il ragionamento che si fa spesso: se Dio è il Massimamente Perfetto, quindi buono, onnisciente ed onnipotente (in caso contrario non sarebbe Dio), come può essere compatibile con l’esistenza del male?
Una risposta che propende per l’incompatibilità, oltre alla negazione tout court di Dio (che è la risposta sommamente errata, risolvibile con un po' di sana metafisica), è il rifiuto di uno degli attributi di Dio sopra elencati (e quindi non avendo una chiara conoscenza di Lui): Egli potrebbe non essere buono, e presentarsi quindi o indifferente alla sorte degli uomini, oppure (peggio ancora) malvagio; ancora, Egli potrebbe non essere onnisciente, e quindi o non intelligente (una sorta di forza impersonale), oppure incapace di conoscere il futuro; infine, potrebbe non essere onnipotente, e in tal caso il mondo sfuggirebbe al Suo governo. Resta infine la risposta positiva, quella della compatibilità: se un Dio buono, onnipotente od onnisciente detestasse il Male e potesse evitarlo, potrebbe avere ottime ragioni (a noi sconosciute) per permettere che esso esista, in quanto ad esempio evitare il male potrebbe impedire alle creature di raggiungere il loro Bene più grande. Continuando questo ultimo esempio, possiamo supporre che Dio lasci evolvere la natura secondo regole che di fatto permettono il male: se Egli ci ha creati come realtà materiali e ci rende partecipi delle sorti delle realtà corporee in un mondo che segue proprie leggi (fisiche, chimiche, ecc.), saranno inevitabili processi come nascite e morti, guarigioni e cancri. Dio riesce a trarre il bene perfino dalla vulnerabilità della libertà umana, non essendo possibile obbligare una persona ad essere buona. 
Però a questo punto sorge l’ennesima provocazione dello scettico! Come possono conciliarsi l’onniscienza di Dio e l’attività autonoma delle creature, se Egli conosce il futuro? Semplicemente, Dio non esiste nel tempo ma è fuori dal tempo, avendolo creato: i Suoi piani vengono costruiti nel (Suo) presente, nel rispetto delle leggi di natura e del nostro libero arbitrio, per mezzo di cause seconde, diverse dal Suo intervento diretto. Il fatto divertente è che i Suoi piani si manifestano comunque, anche se, come si è visto sopra, l’uomo può comportarsi come gli pare.

Come ciliegina finale, nella filosofia tomista si può partire proprio dal male per provare l’esistenza di Dio (a patto di accettare i presupposti della sua metafisica): come scrive l’Aquinate nella Somma contro i Gentili, “il male non ci sarebbe, se non esistesse l’ordine del bene, la cui privazione costituisce il male. Ma codesto ordine non esisterebbe, se non esistesse Dio.”

Sarà bene che il signor Veronesi si legga le vite dei Silvio Dissegna, delle Chiara Corbella Petrillo, delle Nennolina Meo, che hanno trovato in Cristo un senso alle loro sofferenze fisiche. E una buona volta taccia!

 

17 agosto 2014

Bruce, Brenda, David


di  don Mauro

«Questi sono bambini che non avevano un pene», mi disse Reiner, «che erano stati cresciuti come femmine e tuttavia sapevano di essere maschi. Non dicono: “Vorrei essere un maschio” o “Preferirei proprio essere un maschio” o “Credo di essere un maschio”. Dicono; “Io sono un maschio”». (p. 251)
 

16 luglio 2014

Il moderno pluralismo e il Cristianesimo

di Fabrizio Cannone
In un editoriale intitolato “I miraggi del pluralismo”, l’intellettuale Bernard Dumont scrive che “nella sua accezione più diffusa, si tratta di un concetto fabbricato dall’ideologia democratica d’origine americana, diventato dopo il periodo della Seconda Guerra mondiale, e soprattutto dopo la scomparsa del regime sovietico, un leitmotiv dell’ordine occidentale e della sua invadente promozione” (cf. Catholica, 124, été 2014, p. 4). Il termine pluralismo ha acquisito una valenza positiva e ottimistica, visto che designa abitualmente l’idea di “convivialità degli individui e delle comunità” nella società, sulla base dell’ipertrofico concetto del “politeismo dei valori”. Il pluralismo contemporaneo è divenuto un modo un po’ aulico per indicare “un regime di tolleranza universale verso tutte le opinioni e tutti gli stili di vita”. Cosa in realtà negata ogni giorno dal sistema: certi stili di vita vengono infatti esaltati, mentre altri vengono pubblicamente disprezzati, ciò che mostra d’emblée la falsità del presupposto pluralista.
 

23 gennaio 2014

2014: l’anno del riscatto?

di Fabrizio Cannone
E’ impossibile, pur con tutta la buona volontà del mondo, negare la spaventosa crisi di civiltà che stiamo vivendo. Forse in passato ci furono delle crisi più gravi, ma per noi che stiamo vivendo questa, è questa la crisi che deve interessarci maggiormente, la crisi più importante e forse la più esiziale.

Lo stesso Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, in un illuminante articolo pubblicato sull’Osservatore Romano (8.12.2013), parlava ripetutamente della crisi del sacerdozio in termini inequivocabili: “Penso in particolare alla crisi della dottrina del sacerdozio, avvenuta durante la Riforma protestante, una crisi a livello dogmatico, con cui il sacerdote è stato ridotto a un mero rappresentante della comunità, mediante una eliminazione della differenza essenziale tra il sacerdozio ordinato e quello comune a tutti i fedeli. E poi alla crisi esistenziale e spirituale, avvenuta nella seconda metà del XX secolo ed esplosa dopo il Concilio Vaticano II, delle cui conseguenze noi oggi ancora soffriamo” (corsivo mio). Ma se il sacerdozio è in crisi spirituale ed esistenziale, la Chiesa tutta è in crisi. E se la Chiesa è in crisi, il mondo intero e tutte le società umane sono in crisi, anche quelle che ignorassero Cristo e la sua Divina Rivelazione. La crisi di fede, cioè nel pensiero, comporta una crisi nella morale, cioè una crisi nell’azione, nella vita quotidiana dei credenti. La vita mal impostata poi genera confusione, caos, perdita di punti certi di riferimento, specie al livello dell’educazione dei figli e della scuola. Il legame tra queste varie crisi è precisato dallo stesso Mueller in un brano successivo dello stesso articolo, quando scrive: “La crisi del sacerdozio nel mondo occidentale, negli ultimi decenni, è anche il risultato di un radicale disorientamento dell’identità cristiana di fronte a una filosofia che trasferisce all’interno del mondo il senso più profondo e il fine ultimo della storia e di ogni esistenza umana, privandosi così dell’orizzonte trascendente e della prospettiva escatologica”. Parole forti e tutte da meditare… Se c’è in effetti un “radicale disorientamento dell’identità cristiana”, allora la crisi culturale della modernità esiste ed è molto seria. Tant’è che il Presule usa ripetutamente lo stesso termine: la “crisi del sacerdozio” è infondo la sintesi e la ricapitolazione di tutte le altre crisi, come la crisi della fede (o altrimenti detta della Chiesa) o la crisi sociale. Terminando la sua riflessione, che partiva dagli scritti del card. Ratzinger sul sacerdozio, Mueller invita ad una “riconquista dell’identità sacerdotale”, sapendo che lo “sguardo e le parole di Gesù” ci sostengono “oltre il deserto di ogni crisi”. Dopo la constatazione realista e amara, è bene concludere con ottimismo sovrannaturale. Per sconfiggere o almeno per allontanare la crisi globale o di civiltà che stiamo vivendo osiamo proporre per questo 2014 già iniziato, tre riconquiste ormai difficilissime ma improcrastinabili: la riconquista dell’identità sacerdotale, la riconquista dell’identità familiare e la riconquista dell’identità nazionale e culturale.

1. La riconquista dell’identità sacerdotale. Essa appare come la più urgente, ma forse altresì come la più ardua, vista l’immane crisi spirituale del XX secolo, esplosa dopo il Concilio, come diceva argutamente Mueller. Il sacerdote non è un angelo, è un uomo come tutti gli altri. E proprio per questo, cioè per mantenere integra la sua identità, la sua vocazione e la sua missione, deve vivere in primis non per servire gli altri, ma per servire Dio, e Dio solo. Dall’assunzione volontaria e decisa di questo concetto di fondo verrà la soluzione alla crisi del sacerdozio, e non da altro. Non serve o non basta la formazione scientifica e spirituale, fosse pure “permanente” e comunitaria. Né gli incontri tra sacerdoti, i pellegrinaggi ai bei santuari della cristianità (Lourdes, Fatima, Pompei), il ritiro spirituale annuale, l’aggiornamento teologico, etc. Tutte cose utili, ma né strettamente necessarie, né tanto meno sufficienti per restaurare il senso della missione sacerdotale. Ancora meno giovano certe letture, di riviste e giornali che preferisco non menzionare, fatte per essere al corrente della vita della Chiesa. Dopo tanto essere al corrente e aggiornarsi, torniamo allo studio sapienziale e meditato della Bibbia, della Patristica, della Dogmatica e del Magistero. Se questo studio sarà fatto per servire Dio e poi i fratelli, esso sarà proficuo. Ma se queste due finalità saranno invertite (prima i fratelli e poi, eventualmente, Dio) tale studio sarà inefficace e aggraverà la crisi invece che risolverla. Si è arrivati infatti fino al punto di strumentalizzare la Bibbia per suffragare le istanze più balorde della modernità e della democrazia. Certi pretini televisivi moderno-democratici hanno fatto il loro tempo, e dobbiamo augurarci che scompaiano al più presto nel nulla da cui sono venuti. Tutto per Dio e per Dio solo: questa deve essere la divisa del sacerdote cattolico del XXI secolo e se lo sarà saranno poste le vere basi per una ripresa storica fondamentale. Logicamente, se Dio deve avere il primo posto, lo deve avere nelle occupazioni sacerdotali tutto ciò che ha a che fare direttamente e immediatamente con Dio e il suo onore, ovvero il Culto. La prima occupazione del sacerdote sarà dunque la celebrazione della sacrosanta liturgia cattolica. Ma anche qui la celebrazione non deve essere finalizzata in primis all’edificazione del Popolo di Dio, ma all’adorazione della Divina Maestà. Solo così l’edificazione sarà reale e non funzionalistica, e solo così il culto sarà sentito e vissuto, e non meramente ritualistico. D’altra parte, dopo la celebrazione del santo sacrificio della Messa, il sacerdote, sia che si nutra, sia che conversi, sia che usi il computer o lavori, deve sempre tener a mente l’ordine delle priorità: prima Dio Ottimo Massimo, dopo il Popolo da Lui redento. Questo dopo non è evidentemente un dopo cronologico, ma un dopo assiologico: Dio viene sempre prima anche se deve parlare ai fedeli prima di celebrare o pregare. Avendo messo Dio al centro della giornata, e non più ai margini come avviene oggi, il sacerdote rinnovato ad mentem Dei, deve riprendere alcune attività che sono sparite ormai da tempo. Prima fra tutte secondo noi è la lettura spirituale seria e coerente, usando i classici testi della spiritualità cattolica (come l’Imitazione, sant’Agostino, sant’Alfonso, lo Scupoli, Francesco di Sales, Garrigou-Lagrange). Una lettura pacata e attenta, sapienziale più che scientifica, cioè per mettere in pratica degli insegnamenti di vita, più che per conoscere la formazione storico-critica del testo. Se ogni giorno, oltre alla Messa (mezz’ora), al Breviario (un’ora) e al Rosario (20 minuti), ogni sacerdote cattolico, facesse un’oretta, anche suddivisa in 2 momenti, di codesta lettura, non ci saremmo già instradati sulla soluzione della crisi sacerdotale? Come contrappeso psicologico alla profondità meditativa di queste attività, che generano un certo stress che il clero conosce, sarebbe bene leggere anche riviste di svago e attualità, soprattutto quelle che possono divagare e assieme formare. Si pensi tra quelle in lingua italiana al Timone, a Radici Cristiane, a Notizie ProVita e al Settimanale di Padre Pio.

2. La riconquista dell’identità familiare. Questa riconquista si basa sulla stima della famiglia tradizionale cattolica, delle sue regole non scritte e delle sue leggi. Tutti i cattolici debbono stimare la famiglia tradizionale, debbono lottare per essa e debbono vedere in essa uno dei più grandi beni della civiltà umana universale. Se la famiglia scomparirà nel mare del nulla, scomparirà la stessa società, civile ed ecclesiale. Gli attacchi dell’Occidente ateo e nichilista alla famiglia non hanno nulla di casuale. Dobbiamo essere consci del valore storico di questa crociata per la difesa e il rilancio della famiglia cattolica, monogamica, eterosessuale, aperta alla vita e tendenzialmente numerosa, altrimenti noi stessi resteremo vittime dell’influsso malefico del sistema anti-familiare egemone. Un punto decisivo è questo: tornare al padre! Dopo oltre un secolo di disprezzo e di odio verso la figura del padre-padrone, giova formare delle famiglie fondate, oltre che sul necessario amore materno, anche e in primo luogo sull’autorità paterna. Questa autorità, sabotata dal comunismo, dal socialismo e oggi dal liberal-capitalismo, è il miglior antidoto a tutte le deviazioni morali dell’anti-famiglia proposta dal sistema. Questo consiglio vale sia per i padri che per le madri: riscopriamo subito l’autorità del padre. Egli, quale capo della famiglia, non ha uguali diritti agli altri membri della stessa, ma ne ha evidentemente di più, come il capo dello Stato ha più diritti del cittadino comune. Disuguaglianza protettiva e benefica, come il clero che possiede un’autorità spirituale non condivisa dai laici, e così via. Il bene comune sociale, l’educazione dei figli, la coesione della famiglia dipendono in larga parte dalla presenza di questa benefica autorità. Proprio le donne cattoliche (mogli, madri e figlie) debbono oggi, nel contesto culturale ammorbato dal femminismo, essere le prime sostenitrici dell’autorità paterna. Sarà una riconquista non facile, ma sicuramente felice e risolutiva.

3. La riconquista dell’identità nazionale e culturale. Oggi come italiani ci troviamo sottoposti ad una propaganda esterofila davvero scriteriata e assurda. Non perdiamo mai il santo orgoglio dell’italianità! Abbiamo mille motivi per amare l’Italia che, ricordiamolo, nasce con Dante e san Francesco e non con Cavour. San Pio X definiva l’Italia la più illustre nazione della terra e Pio IX esclamò: "Benedite Gran Dio, l’Italia!". Restiamo dunque amanti della nostra patria, stimiamo tutti gli amanti della propria patria e disprezziamo invece tutti i sabotatori e i livellatori di questo mondo. Non senza riconoscere le cose che non vanno e che non sono poche (la mancanza di patriottismo è una delle nostre carenze storiche più evidenti). Senza un forte, convinto, sincero e propositivo amor di patria, la società collassa, specie oggi sotto il rullo compressore dell’Europa e dell’Occidente laicista. Si può discutere sulla validità o meno di un ritorno alla lira, o di un’uscita dall’Unione Europea, ma non si deve discutere sull’amor di Patria, uno dei più nobili sentimenti che mai debbono mancare in un cuore cristiano.

Il sacerdozio (Dio), l’Italia (la Patria) e la famiglia: siano ancora una volta questi i 3 punti fermi e inamovibili della nostra lotta per la riconquista della vera civiltà.
 

07 novembre 2013

Il sano e cattolico amor di Patria

di Andrea Virga
Lo scorso 4 novembre, trovandomi in centro a Lucca con molto tempo libero, ho deciso di partecipare alle celebrazioni cittadine relative alla Festa Nazionale delle Forze Armate, in memoria della Vittoria finale ottenuta dalle nostre forze contro l’Austria-Ungheria nel 1918.

In generale, sono stato sorpreso molto positivamente. La chiesetta di Santa Maria della Rosa, la stessa frequentata da Santa Gemma Galgani, di per sé molto pregevole dal punto di vista artistico, era gremita di gente per la Santa Messa. Non mancavano, allineati lungo le pareti, le varie rappresentanze d’arma: alpini, paracadutisti, bersaglieri, reduci, mutilati e invalidi di guerra, volontari della libertà, carabinieri, poliziotti, ecc. Tutti erano in alta uniforme, coi labari e i gonfaloni, recanti le medaglie al valore. Insieme a loro, svettavano i gonfaloni dei comuni di Lucca e della provincia, e in prima fila stava il Sindaco con la fascia tricolore. I banchi erano poi riempiti da intere scolaresche delle elementari e delle medie, accompagnate dalle maestrine, che hanno seguito la funzione senza creare confusione.

Il sacerdote ha celebrato coram Deo la Messa in forma ordinaria, accompagnata dall’organo e dai canti dei fedeli. Nell’omelia si è dilungato senza tuttavia riuscire noioso, riuscendo ad attirare anche l’attenzione dei bimbi presenti sull’importanza non solo della difesa della Patria come virtù civile e religiosa, ma anche della buona battaglia contro il peccato, riallacciandosi al noto brano paolino sull’armatura della fede. Grande emozione alla Consacrazione, quando i vessilli sono stati elevati in onore del Santissimo Sacramento.

Solo dopo la cerimonia religiosa, si è proceduto alla cerimonia civile, sulla piazza antistante il vicino municipio, ossia dinanzi a Santa Maria Forisportam. Una compagnia mista formata da una banda musicale e da squadre in rappresentanza delle Forze Armate (Esercito, Marina, Aeronautica, Carabinieri) e dell’Ordine (Polizia di Stato, Polizia provinciale e municipale, Vigili del Fuoco, Guardie di Finanza, Guardie Forestali) era schierata sull’attenti. Al suono della banda, sfilano le insegne delle associazioni d’arma, poi quelle della Provincia, della Città e degli altri comuni della Lucchesia e della Garfagnana, e infine, da solo, il comune martire di Sant’Anna di Stazzema. Poi sta alle autorità civili e militari, rappresentate dal Prefetto e dal Comandante provinciale dei Carabinieri, passare in rassegna la compagnia.

La cerimonia procede con momenti di intima commozione, quando sulle note dell’Inno Nazionale, si compie l’alzabandiera, e soprattutto quando i fanciulli delle elementari, con le loro voci bianche, cantano la prima strofa della Canzone del Piave. Persino i discorsi dei politicanti hanno sprazzi di patriottismo autentico, quando il sindaco del PD parla di “Quarta Guerra d’Indipendenza” o quando un anziano reduce nomina, a fianco dei caduti di Cefalonia, gli eroi di El Alamein e reclama il rientro in Italia dei marò imprigionati in India. Si riesce quasi a perdonare i discutibili accenni alla “dittatura nazifascista” o alla “resistenza”, ma non il silenzio sull’occupazione militare statunitense o sulle missioni di “pace” per conto NATO. Ahimé, non si può pretendere troppo da uno Stato satellite.

Eppure, celebrazioni come queste sono ormai una boccata d’aria per questo Paese nelle cui tribune politiche si ciarla di reati d’omofobia e di negazionismo, di gender e di ius soli. Non mancano, purtroppo, i cialtroni come quel sindaco che ha esposto la bandiera pacifista, offendendo così le autorità militari presenti e le centinaia di migliaia di Caduti di cui si celebra il ricordo. Tuttavia, è degno di nota che in questo Paese esistano ancora autorità che rendono omaggio al sacrificio dei militari che hanno difeso la Patria e che educano la gioventù a questi alti propositi.

Ancora meglio è che queste celebrazioni continuino ad avvenire nel pieno rispetto dell’importanza capitale che ha la religione cattolica per la storia, la cultura e l’identità della nostra nazione. Come se questa fosse ancora la religione ufficiale dello Stato, si prega ufficialmente Nostro Signore Gesù Cristo perché protegga e assista il nostro popolo, i nostri militari, le nostre autorità (e Dio sa se, soprattutto quest’ultime, ne hanno bisogno!). Gli acattolici non sono costretti a prendervi parte, ma hanno la decenza di non protestare in nome di una malintesa laicità.


Questa situazione mi ricorda quando alle elementari eravamo condotti in chiesa per l’inizio dell’anno scolastico o quando al Liceo si celebravano Messe d’istituto per occasioni particolari come la fine dell’anno scolastico o la morte del Papa. Si trattava di scuole pubbliche statali, beninteso, e ciò avveniva negli anni ’90 e 2000. E i politici e i docenti di cui stiamo parlando sono moderati di centrodestra o di centrosinistra, non certo feroci nazionalisti o cattolici integralisti. Eppure questi omaggi a Dio e alla Patria sono ritenuti ancora naturali e doverosi dalla maggioranza, e bisogna lottare perché non si ceda ulteriore terreno, ma si rafforzi questo sentimento di amore verso quei beni immortali che trascendono l’individuo.
 

04 gennaio 2013

"Dio, Patria e Famiglia"

di Giuliano Guzzo

Dopo il lungo tramonto, la notte; e dopo la notte, per quanto buia, nuovamente l’alba. Si muove confidando in questa ciclicità, la prospettiva che Marcello Veneziani offre nel suo ultimo libro – Dio, patria e famiglia (Mondadori 2012, pp. 151) – col quale legge la crisi contemporanea e ne pronostica, strada facendo, il superamento. Larga parte dei nostri guai, secondo l’Autore, deriva dall’eclissi dell’antica triade che intitola l’opera e potremo uscirne solo nella misura in cui si verificherà un recupero dei valori estinti o comunque sotto attacco.
 

10 agosto 2012

“Io lo so perché tanto di stelle…”. La notte di San Lorenzo e il mistero dell’universo

di Marco Mancini
Mi trovo da qualche settimana a San Martino d’Ocre, il paesino di montagna (1140 s.l.m.) a due passi dall’Aquila che ha dato i natali a mia madre. E’ il paese in cui ho passato buona parte delle mie estati, sin dall’infanzia.