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08 aprile 2021

L'inferno dantesco della modernità secondo Pasolini/2


di Marco Sambruna

(vai a I parte)

IL VIAGGIO INFERNALE.

Il viaggio infernale di Pasolini inizia il mese di aprile del 1963 dal cinema “Splendor” di Roma che rappresenta la versione moderna dell’ingresso infernale dantesco. Il poeta, anch’egli perso nella “selva oscura” della modernità entra dunque nelle regioni infernali varcando la porta di un vecchio cinema: Pasolini ripercorre lo stesso itinerario dantesco con le medesime situazioni e incontrando i medesimi personaggi del sommo vate. Egli mima il viaggio dantesco, ossia imita mimeticamente il viaggio già compiuto da Dante – da cui il titolo di “La Divina Mimesis” –  attraversando un paesaggio urbano: la “valle oscura” è rappresentata da un lungo viale moderno al termine della quale inizia la salita di una impervia collina; Pasolini come Dante incontra le tre bestie cioè la lonza, la lupa e il leone che rappresentano allegoricamente i suoi vizi e le sue debolezze; infine anch’egli incontra il suo Virgilio rappresentato dal poeta stesso in una sua versione più saggia e meno ingenua, una specie di doppio che accompagna Pasolini nel prosieguo attraverso i gironi infernali.

Ma gli aspetti mimetici dell’opera pasoliniana naturalmente non si limitano ad una mera sovrapposizione di luoghi e personaggi dell’inferno dantesco, ma inseriscono degli elementi di originalità soprattutto nella definizione dei dannati. Nell’inferno de “La Divina Mimesis” infatti i dannati corrispondono a figure moderne di tipi umani che rappresentano nell’occidente trasformato dalla nuova religione laicista e consumistica i campioni dell’oltraggioso e del riprovevole.

Pasolini ne definisce i caratteri per accenni nel corso di una intervista alla Radio Svizzera Italiana del 1964 dividendoli, come sopra indicato, in due categorie: i ”troppo continenti” e gli “incontinenti” apparentemente molto diverse fra loro, ma in realtà accomunati dal peccato capitale che consiste nella rinuncia alla lotta contro il “genocidio culturale” e la “rivoluzione antropologica” che vorrebbero plasmare un demoniaco “uomo nuovo”.

I TROPPO CONTINENTI:

Tra i “troppo continenti” Pasolini elenca i Conformisti, i Volgari, i Cinici, i Deboli, gli Ambigui e i Paurosi. In questa categoria di dannati  Pasolini evidentemente ha raccolto coloro che per viltà e per tranquillo quieto vivere hanno deciso di “contenere” se stessi e rinunciato a valorizzare i propri talenti, ossia, in definitiva, hanno rinunciato a diventare ciò che potevano privandosi della possibilità realizzarsi a causa della loro partecipazione alla Storia: tale partecipazione ha imposto come tributo la perdita della loro individualità originale in un progetto collettivo e pertanto omologante. I “troppo continenti” in realtà sono tutti conformisti, ma con sfumature diverse:

I Conformisti condannati alle pene infernali sono gli alto borghesi frequentatori di salotti elitari prostituiti al Potere. Ad essi oggi possiamo far corrispondere i radical chic benestanti e disincantati e ampie porzioni del clero che per stupidità si trasformano in vassalli del mainstream, progressista, gli interpreti del politicamente corretto che appunto per conformismo si sono omologati allo spirito del tempo. Per la maggior parte si tratta di qualunquisti senza grandi pretese, semplici gregari o utili sprovveduti che si limitano al ruolo di “yesmen” del Potere. Sono le falangi che per prime si emancipano dall’antico modello conservatore, coloro che per superficialità e viltà si allineano alla moda culturale del momento e quindi, in quanto moda, appunto conformismo.

I Volgari sono esemplificati da Pasolini in figure che partecipano a un ricevimento, ad esempio al Quirinale. Si tratta dunque di personaggi influenti che agiscono dietro le quinte e realmente potenti siano essi politici, industriali, eminenze grigie, proprietari di mezzi di informazione, leader ombra che conoscono i meccanismi del Potere, strateghi della diplomazia e della comunicazione che determinano l’indirizzo politico di un paese, ne orientano le scelte e, soprattutto, inducono la politica a scelte indirizzate esclusivamente a soddisfare le loro esigenze. 

I Cinici sono i conformisti più scaltri. Esemplificati da Pasolini dalla figura del giornalista di un quotidiano importante, cioè il portavoce, il megafono, la cassa di risonanza dell’ideologia dominante siano essi appunto giornalisti, influencer, opinionisti, tuttologi televisivi, etc. Come tutti i cinici sono ideologicamente agnostici, cioè, in altri termini, orientano le vele dove tira il vento. Il loro freddo talento calcolatore e una specie di istinto li rendono abili nell’individuare a quale astro nascente prestare i propri servigi e a quale stella morente negarli.

I Deboli, gli Ambigui, i Paurosi sono i dannati che per viltà, per inedia o per pigrizia si accodano alle correnti di pensiero dominanti. Sono coloro che non tanto per convinzione quanto per convenienza decidono di adattarsi ad una vita ripiegata in un  gretto individualismo: sono il popolo dei gregari, del “tengo famiglia”, del “io mi faccio gli affari miei”, i tiepidi senza arte né parte.

GLI  INCONTINENTI

Gli  “incontinenti” sono coloro che etimologicamente “non si fanno contenere” entro gli asfissianti schemi del conformismo come i “troppo continenti”, ma che anziché vivere in lieta spontaneità la loro libertà ideologica ed esistenziale si sono arroccati per narcisismo in un esilio volontario dalla Storia o in una torre d’avorio ideologica estraniandosi dalle lotte collettive, coloro che valutano senza partecipare. Così come i “troppo continenti” sono tutti conformisti con diverse sfumature, altrettanto “gli incontinenti” sono tutti narcisisti con diversi connotati. Anche in questo caso Pasolini si limita a pochi accenni da cui è però possibile ricavare i tratti salienti.

I Rigoristi sono coloro che assumono un atteggiamento spocchiosamente distaccato,  i socialisti borghesi e i piccoli benpensanti che hanno trasformato la religione in moralismo e il marxismo in sterile e spesso ermetico cerebralismo. Sono i farisei della modernità, i pedanti del buon senso, gli zelanti e i probi bacchettatori dei pubblici vizi, oggi diremmo i giustizialisti, i denunciatori seriali, gli estremisti del politicamente corretto.

I Raziocinanti cristallizzati entro le loro asfittiche metafische e il loro scientismo positivista. Coloro che, aggiungiamo noi, annaspano disperatamente fra i residui del ciarpame ideologico, come i filosofi strutturalisti, decostruttivisti, esistenzialisti, neoilluministi e gli psicologi di scuola materialista, i freudiani ortodossi, i riduzionisti.

Seguono gli affetti da uno strano vizio che Pasolini definisce come eccesso di Rimorso: lo scrittore accenna brevemente a questa categoria di dannati che risulta perciò difficilmente definibile. Possiamo forse identificarli come coloro che dopo aver apostatato dal mainstream in un impulso di fierezza sollevando critiche alla modernità, una volta marginalizzati tentano disperatamente di riaccreditarsi per fame di notorietà pronunciando umilianti mea culpa, annacquando le loro posizioni massimaliste verso sempre più marcate acquiescenze di stampo democristiano,  i nostalgici della vetrina mediatica da cui sono stati banditi, gli ex tradizionalisti e conservatori convertiti al riformismo come forma moderata del progressismo, il clero pseudo conservatore in realtà cripto progressista.

Gli Irrazionali che Pasolini individua sinteticamente negli avanguardisti della cultura, che quindi possiamo definire nei poeti ermetici e futuristi, i crepuscolari di ogni risma, i solipsisti, coloro che si isolano in riserve per pochi eletti, gli epicurei egoici, i nichilisti goderecci.

Il conformismo come omologazione supina all’ideologia dominante e il narcisismo come rifiuto all’impegno mascherata da scelta estetica dunque per Pasolini sembrano essere i peccati mortali che riconducono al supremo peccato meritevole di dannazione: la rinuncia alla lotta contro il Potere scaturito dalla modernità che vuole ricreare l’uomo.

 

 

31 marzo 2021

L'inferno dantesco della modernità secondo Pasolini/1

La Divina Mimesis  dell'ultimo grande poeta italiano



di Marco Sambruna

Il progetto di una riscrittura della “Divina Commedia” di Dante insorse in Pasolini già nei primi anni Sessanta: tale progetto fu più volte abbandonato e poi ripreso nel corso degli anni seguenti finché uscì largamente incompiuto dopo la morte del poeta nel 1975. L’opera dal titolo “La Divina Mimesis” presenta i Canti I e II completi più alcuni frammenti e annotazioni relativi ai Canti III, IV e VII. 

È probabile che per Pasolini, da sempre estremamente critico verso la modernità, il viaggio infernale rappresentasse l’ideale strategia letteraria per descrivere l’orrore di una umanità che per il poeta era destinata trasformarsi nel segno della disumanità, della violenza, e del darwinismo sociale più brutale. Del resto nella produzione saggistica pasoliniana costituita dalle “Lettere luterane” e dagli “Scritti corsari” più volte Pasolini denuncia, profeta inascoltato, il “genocidio culturale” in atto che ha cancellata la millenaria visione del mondo tipica delle religioni e dato l’avvio alla “rivoluzione antropologica” diretta alla generazione di una sorta di aberrante “uomo nuovo” che nulla avrebbe più avuto a che fare con quello modellato nel corso dei secoli dalle culture tradizionali.

LA DIVINA MIMESIS

Il mondo pasoliniano presenta molti dualismi contrapposti a cominciare da quello fra sviluppo e progresso ad esempio che per il poeta non sono sinonimi dal momento che il primo è concetto economico e omologante, il secondo valoriale e virtuoso: perciò Pasolini diceva di essere a favore del progresso, ma non dello sviluppo laddove per “progresso” non intendeva l’ideologia progressista bensì una civiltà che rigettasse la nuova umanità consumistica e profana che lo sviluppo appunto andava preparando.

Anche ne “La Divina Mimesis” c’è una dicotomia. Essa riguarda la differenza fra i dannati “continenti” e “non continenti”. Per comprendere la differenza fra queste due categorie occorre rifarsi a un altro dualismo che percorre gran parte dell’opera di Pasolini: quello fra il concetto di Storia e l’idea di innocenza. Per Pasolini la società contemporanea pone l’individuo nella condizione di dover compiere una scelta drammatica: o si partecipa alla Storia cioè alla costruzione della civiltà borghese, disincantata, desacralizzata e laicista rinunciando perciò a una certa ingenua innocenza tipica delle culture pre industriali; oppure ci si congeda dalla Storia e ci si disimpegna da essa rinunciando così alla costruzione di una civiltà disumana conservando l’innocenza, ma a costo di isolarsi egoisticamente e narcisisticamente nella propria dimensione intimistica e privata.

In entrambi i casi il soggetto è colpevole o di cinismo o di egoismo. In realtà Pasolini in altri luoghi della sua opera definisce una terza via costituita da quella che lui determina come “adesione critica” alla Storia cioè una partecipazione al progresso, ma in funzione critica come “una forza del passato”1 ossia, per molti versi controrivoluzionaria. Tuttavia, per il momento il dualismo Storia - innocenza resta e si traduce ne “La Divina Mimesis” nelle due categorie di dannati infernali dei “continenti” che sono colpevoli in quanto partecipano alla Storia e quindi al processo di disumanizzazione della civiltà e dei “non continenti” cioè di coloro che rinunciano all’impegno sociale ponendo così in essere una sorta di “colpevole innocenza” che consiste in un’egoica e narcisistica separazione dalle vicende collettive.

Prima di esaminare meglio le categorie di dannati che appartengono al gruppo dei “troppo continenti” e dei “non continenti” è interessante notare che fra i diavoli che li vessano Pasolini inserisce le figure delle ”demonie” ossia donne crudelmente sadiche che con la loro fredda ed efficiente spietatezza custodiscono come delle aguzzine i dannati affidati alle loro cure.

Questa categoria femminile risponde all’idea pasoliniana secondo cui proprio gli ultimi arrivati chiamati a partecipare alla costruzione del nuovo mondo desacralizzato e disumanizzato si dimostrano i più zelanti e devoti alla causa. È la strategia borghese di ascendenza laicista, infatti, ad assoldare le categorie umane più umili e da sempre marginalizzate come le donne o i popoli extra europei per trasformarle in fedeli servi del Potere. 

Essi non si accorgono dell’inganno per cui barattano la loro innocente e lieta spontaneità in cambio dell’ammissione alla mensa delle élites dominanti che promettono la ricchezza materiale in cambio della loro servile collaborazione al processo di sviluppo consumistico di matrice laicista. Traspare dunque in queste figure femminili diaboliche la critica pasoliniana all’estremismo femminista che trasforma la donna in una grottesca imitazione del maschio nei suoi aspetti più brutali e violenti.

Per Pasolini paradossalmente proprio tramite la concessione di diritti il Potere sradica gli uomini dalle loro culture tradizionali disfunzionali alla costruzione dell’uomo nuovo. La Storia infatti, da intendersi come graduale cammino verso forme sempre più sofisticate e artificiali di vita, necessita di nuovi zelanti vassalli collaborativi e funzionali al “genocidio culturale” propedeutico alla “rivoluzione antropologica” da cui scaturirà uno spaventoso “uomo nuovo”. 

Naturalmente, come tutti gli inganni, anche questa strategia finisce col mostrare la propria vera fisionomia truffaldina; gli zelanti servitori del Potere ben presto si accorgeranno di essere stati ingannati. 

L’illusione di promozione umana promessa dalle élites dominanti si rivelerà per quello che è ossia una chimera di cui resta solo un sogno mai realizzato. Si tratta appunto de “Il sogno di una cosa”2 come dal titolo di un’altra celebre opera pasoliniana. Il sogno in questione è quello del marxismo che resta solo un vano miraggio nel momento in cui le classi umili che avrebbero dovuto beneficiarne scoprono che si è trattato solo di uno scaltro espediente borghese per spossessarli della loro cultura tradizionale che ostacolava l’acquisizione di una nuova mentalità consumistica. 

Il marxismo, come del resto il cristianesimo, viene così trasmesso dalle classi privilegiate a quelle popolari privato della sua forza eversiva in una sua versione innocua ossia funzionale al processo di modernizzazione omologante in cui l’arrivismo e il consumismo saranno l’humus comune che permette la trasformazione dei proletari in piccoli borghesi. Le classi popolari infine non sogneranno più la rivoluzione marxista o la vita eterna promessa dalla religione, ma il possesso di beni di consumo.

(continua)

______
1-P.P. Pasolini: Io sono una forza del passato, solo nella tradizione è il mio amore. da Poesie in forma di Rosa, ed. Corriere della Sera.  Vedi anche https://www.youtube.com/watch?v=nPNYgW3Mq00 
2- P.P. Pasolini, Il sogno di una cosa, ed. Corriere della Sera.

 

23 marzo 2021

Dante, de Maistre e il papato. Un confronto utile



di Alfredo Incollingo

Quest’anno ricorrono i settecento anni dalla morte di Dante Alighieri, deceduto a Ravenna tra il 13 e il 14 settembre 1321. Risulterebbe ridondante menzionare lo spessore intellettuale del Sommo Poeta, che è notoriamente uno dei padri putativi della lingua italiana e della stessa idea di Italia.

Pochi, invece, hanno ricordato un altro importante anniversario, i duecento anni dalla morte del conte Joseph de Maistre, il padre del pensiero controrivoluzionario, avvenuta il 26 febbraio 1821, a Torino, capitale dell’allora regno di Sardegna[1].

La celebrazione dell’anniversario è passata in sordina, anche se, forse anche all'opera di questo blog, molti giornali nazionali ne hanno parlato e anche il tg2 ha dedicato un servizio al Savoiardo. Il pensiero di de Maistre è ancora oggi un tabù per gran parte del mondo ecclesiastico, che lo considera un pericoloso reazionario.

Dante Alighieri, invece, è spesso descritto come un laicista ante litteram per aver ribadito la necessità di separare l’autorità spirituale dal potere temporale. Buona parte della stampa, quindi, ha trovato più fattibile celebrare un personaggio del calibro del Sommo Poeta, con tutti i meriti letterati che ha, a discapito di un filosofo, Joseph de Maistre, che con estremo realismo ha riflettuto sulla natura umana.

Tuttavia, leggendo con attenzione le considerazioni politiche e teologiche di Dante Alighieri si evince una netta somiglianza di idee con il conte savoiardo.

Questi è stato spesso additato come un intellettuale anacronistico nell’epoca del trionfo degli ideali democratici dell’Illuminismo. Eppure, in quest’età di progresso sociale si era assistito ai cruenti massacri della Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche. Il continente europeo, secondo de Maistre, era ormai in preda al disordine e all’ateismo, la cosiddetta teofobia[2], prodotti nefasti della scristianizzazione e della conseguente decadenza del papato.

Per porre fine alla confusione morale, i nascenti Stati nazionali avrebbero dovuto riconoscere l’infallibilità e l’assolutezza dell’autorità del pontefice romano, poiché solo il diritto divino, fondato sul Vangelo, avrebbe posto fine alle discordie, garantendo pace e giustizia[3].

Le nazioni europee sarebbero state così liberate dalla volontà popolare, che secondo gli illuministi era il fondamento razionale e concreto dei governi. De Maistre dimostrò al contrario la radice nichilista e relativista del volere popolare, pericoloso per la stabilità e la rettitudine dei governi[4].

Queste riflessioni hanno spinto non pochi osservatori a considerare il conte savoiardo il campione della teocrazia.

Dante Alighieri riconosceva nell’autorità dell’imperatore, un sovrano non certo democratico, il fondamento di una società giusta e pacifica. Il Sommo Poeta e de Maistre, naturalmente, scrivono in due età diverse: il primo nel medioevo, quando si credeva che l’Impero fosse ancora il garante della giustizia fra i popoli; il secondo, invece, nell’era degli Stati nazionali, dopo il tramonto dell’ideale imperiale avvenuto molti secoli prima. L’unica entità sovrannazionale dell’epoca in grado di pacificare le nazioni era il papato.

L’Alighieri considerava naturale la separazione tra la Chiesa e l’Impero per i diversi scopi che essi perseguivano. L’imperatore, riunendo sotto di sé le genti del mondo conosciuto, le avrebbe governate con rettitudine e giustizia, assicurandole la felicità in Terra. Si trattava, tuttavia, di una beatitudine effimera, mentre quella «immortale» era garantita dalla Chiesa Cattolica, il cui diritto si rifaceva direttamente al Vangelo[5].

La felicità terrena non era fine a sé stessa, perché «questa mortale felicità alla felicità immortale sia ordinata. Cesare adunque quella reverenza usi a Pietro, la quale il primogenito figliuolo usare verso il padre debbe; acciocchè egli illustrato dalla luce della paterna grazia, con più virtù il circulo della terra illumini. Al quale circulo è da Colui solo preposto, il quale è di tutte le cose spirituali e temporali governatore»[6]. Dante non ha mai osteggiato la Chiesa Cattolica ma ha ribadito il suo (divino) ruolo: guidare l’umanità verso la Salvezza.

 

 

[1] Per approfondire il pensiero del conte Joseph de Maistre si rimanda a: Joseph del Maistre. Il padre del pensiero controrivoluzionario, a cura di campari & de maistre, Cesena, Historica, 2021.

[2] j. de maistre, Le serate di San Pietroburgo, Bari, Edizioni Paoline, 1961, p. 102.

[3] j. de maistre, Del Papa, Firenze, Tipografia di Tito Giuliani, 1872, p. 137. 

[4] Ibidem

[5] d. alighieri, Monarchia, a cura di m. ficino, Livorno, Tipografia degli artisti, 1844, p. 115.

[6] Ivi, p. 117.

 

02 novembre 2018

Dante e la speranza carnale della risurrezione

“Tanto mi parver sùbiti e accorti
e l’uno e l’altro coro a dicer «Amme!»,
che ben mostrar disio d’i corpi morti:
forse non pur per lor, ma per le mamme,
per li padri e per li altri che fuor cari
anzi che fosser sempiterne fiamme.”

di Francesco Mastromatteo
Siamo nel XIV canto del Paradiso, nel cielo del Sole Beatrice chiede agli spiriti sapienti di risolvere un dubbio di Dante riguardo alla luminosità dei beati dopo la risurrezione della carne; Dante sente una voce provenire dalla luce più intensa della prima corona: è Salomone, che spiega come quando essi si saranno riappropriati del loro corpo risorto, la loro anima vedrà accrescere la propria gioia, per cui aumenterà anche la luce che promana da loro e che è un dono della Grazia illuminante, perché aumentando la visione di Dio aumenterà anche il loro ardore di carità. Non solo essi conserveranno la luce che li circonda, ma i loro occhi corporei saranno resi capaci di sopportare un simile splendore. Tutti gli spiriti pronunciano sollecitamente un 'Amen', manifestando il desiderio di riavere i loro corpi mortali, “non pur per lor”, ma per le persone che amarono in vita.

Qualche anno fa persi un caro amico in un incidente di moto, non il primo. Un’esperienza che tutti prima o poi, quale che fosse l’età o la causa, abbiamo fatto: la scomparsa di una persona cara. Davanti a un evento del genere, laici, ma anche credenti tendono a rifugiarsi sempre più in poetiche quanto, va detto, vacue metafore, in cui il “cielo”, “lassù” e altri riferimenti eterei e impalpabili lasciano spesso incolmabile il vuoto della perdita. Mi colpì perciò, nella predica funebre del sacerdote, amico comune, che ricordò la frase già detta una volta a un padre che aveva perso suo figlio: “Ma tu pensi che lo rivedrai, un giorno?”. Una domanda abissale, disturbante, di quelle che ti attraversano come una spada, che ti costringono a mettere da parte tutte le melensaggini sul fatto che i defunti continuano a vivere “nel ricordo di chi resta”, nella migliore delle ipotesi in un non meglio precisato “posto migliore di questo”, dando per scontato che loro, i morti, anche in una visione di fede, non abbiano più l’umanissima voglia di tornare a rivedere, toccare i propri cari.

Tutti i trattati teologici e dottrinali non valgono, per capire l’essenza del cristianesimo, quanto questi pochi versi danteschi, che sembrano quasi rappresentare visivamente l’ansia, la voglia ardente delle anime di ricongiungersi con i famigliari lasciati sulla Terra. Sono nella felicità eterna, ma questo non cancella la loro umanità, i loro affetti, la loro persona con annessi ricordi e sentimenti, quasi che - commenta così il passo alla fine del discorso di Salomone, il critico Tommaso Di Salvo - “tutta l’immensa saggezza che era in lui e che era nei grandi dottori della Chiesa si condensasse nell’augurio, nell’attesa e nella costruzione di un paradiso familiare, ricostituzione dell’amabilità, della dolcezza e dei rapporti di famiglia”. “Gratiam non tollit, sed perficit naturam”, diceva l’Aquinate: ma spesso dimentichiamo noi per primi questo assunto cattolicissimo, per cui nulla della nostra natura umana, di ogni singola persona umana, viene cancellato da Dio, ma solo perfezionato. E il corpo, quel corpo disprezzato dai manichei, ma anche dai materialisti che credono di valorizzarlo esaltandolo a discapito dell’anima, ha il suo valore, perché un giorno risorgerà.

E’ vero, già dottrine filosofiche pagane, come il platonismo, avevano parlato dell’immortalità dell’anima. Ma il cristianesimo, e qui sta la sua vera originalità, va oltre: anche il corpo tornerà a essere glorioso e immortale, come lo era nel giardino dell’Eden. E’ questa la “follia” di una fede che scandalizzava anche i dotti filosofi di Atene, quando risero di San Paolo che parlava di resurrezione. Erano stati ad ascoltarlo finché si riferiva ad un Dio ignoto, ma un Dio morto che poi risorge, che esce dalla tomba, no, quello era inaccettabile anche al più incline di loro alla metafisica. Il paradiso cristiano però non è il vago e nichilista Nirvana, né un semplice deposito celeste di spiriti. E’ la felicità senza fine dello stare assieme a Dio e ai propri cari, quali li abbiamo conosciuti qui in terra, con i loro volti, i loro corpi, i loro abbracci.

Nemmeno tutti i cristiani accettano l’idea del Purgatorio, del suffragio, dell’intercessione dei santi: i protestanti sono scandalizzati dall’idea che i cristiani viventi, qui sulla Terra, possano avere un legame che va oltre la morte, alleviando le sofferenze temporanee delle anime purganti, chiedendo a loro volta l’intercessione di chi è in Cielo. La Chiesa cattolica da questo di punto non accetta limiti, e va oltre: ci dice che suffragi e grazie che si offrono e si chiedono personalmente, singolarmente, secondo un vincolo di amore che va oltre la barriera del sepolcro, tra credenti vivi e morti, ovvero “coloro che si sono addormentati nella speranza della resurrezione” e da cui non ci separiamo mai del tutto; e questo legame, un giorno, tornerà a essere fisico, carnale, concreto (e il mio docente di latino e greco del liceo diceva che quello cristiano non è una necropoli, una città di morti che non torneranno più, da tenere rigorosamente fuori le città come facevano i pagani; è appunto un cimitero, un dormitorio etimologicamente parlando, di persone destinate a risvegliarsi).

Come diceva Vittorio Messori, “sono cattolico, voglio tutto”. Vogliamo la gioia eterna, non solo dell’anima ma anche del corpo, dei corpi di ogni singola persona umana e della loro speranza di riabbracciare, fisicamente, realmente, le persone care. Come i beati del canto dantesco che, pur al cospetto di Dio, fremono dal “disio” di riavere un giorno “le mamme”, “li padri” e “li altri che fuor cari”.


 

01 dicembre 2017

Bitcoin, ovvero l'ennesimo schema Ponzi


di Giovanni Campari

Siccome alcuni generosi amici mi hanno chiesto un parere sull'affare bitcoin, nel ringraziarli della loro fiducia riporto la risposta che ho dato qualche giorno fa ad uno di questi, il quale mi chiedeva cosa fosse il bitcoin e quale potesse essere il suo futuro: il bitcoin è uno schema ponzi, ho risposto io, aggiungendo con ironia che questo schema è lo stesso del funzionamento dei mercati finanziari.
Ohibò, eccolo l'antiglobal criptocomunista contro il diritto fonamentale di libertà di intrapresa!
In realtà, la questione è molto semplice. Partiamo innanzitutto dalle definizioni.
Bitcoin è "una moneta elettronica che [...] utilizza un database distribuito tra i nodi della rete che tengono traccia delle transazioni, ma sfrutta la crittografia per gestire gli aspetti funzionali, come la generazione di nuova moneta e l'attribuzione della proprietà dei bitcoin"; si tratta di "una delle prime implementazioni di un concetto definito come criptovaluta": "una valuta paritaria, decentralizzata digitale la cui implementazione si basa sui principi della crittografia per convalidare le transazioni e la generazione di moneta in sé". Quello che rende differente il bitcoin dalle monete legali, quelle che tutti conosciamo, sta nell'emissione: questa moneta non viene emessa dalle banche centrali o dallo stato, ma è creata via mining. Ma a noi in questo momento non interessa l'emissione, quanto l'essenza stessa della moneta: il bitcoin è considerato, come tutte le altre monete, un titolo che può essere accumulato e il cui valore può fluttuare nel tempo, soggetto alle dinamiche dei mercati finanziari. Sì, avete intuito bene, il bitcoin è uno strumento speculativo (cosa che la moneta comune intesa come unità di misura del valore e mezzo di pagamento non dovrebbe essere).
Lo schema Ponzi è invece "è un modello economico di vendita truffaldino che promette forti guadagni alle vittime a patto che queste reclutino nuovi "investitori", a loro volta vittime della truffa": "lo schema di Ponzi permette a chi comincia la catena e ai primi coinvolti di ottenere alti ritorni economici a breve termine, ma richiede continuamente nuove vittime disposte a pagare le quote".
Capite bene quale sia allora il legame tra bitcoin come strumento speculativo e schema Ponzi come modalità di scarico della patata (o del tulipano) bollente: il parco buoi si precipita ad "investire" sul bitcoin finché il suo valore (non si sa per quale motivo reale) cresce e, quando la bolla esplode e il panico dilaga, gli ultimi arrivati rimangono col cerino in mano, non riuscendo più a disfarsi di un oggetto che nessuno è più disposto a comprare, il cui valore è praticamente nullo. Non ha insegnato niente la crisi dei subprime? Eppure ci siamo ancora tutti dentro fino al collo...
Avrete quindi capito bene anche il legame tra mercati finanziari e schema Ponzi: i mercati finanziari, che non sono assolutamente la finanza (essendo la finanza quella relazione fiduciaria e solidale tra creditore e debitore in vista dello scambio o dell'investimento), sono quei "luoghi nei quali vengono scambiati strumenti finanziari di varia natura a medio o lungo termine", principalmente per lucrare sul prezzo nel breve termine aggiungo io (è lo short-termism, bellezza, che deriva dall'assoluta libertà di circolazioen del capitale). La recente crisi nasce esattamente così, alla facciaccia dell'auto-equilibrio dei mercati e della speculazione buona perché determina i "veri" prezzi dei titoli.


Il padre Dante al canto XI della sua Commedia poneva gli usurai nel VI cerchio, quello dei violenti, nel III girone, quello più basso, tra i bestemmiatori (i violenti contro Dio) e i sodomiti (i violenti contro natura), in quanto violenti contro l'arte, ovvero il lavoro: solo il lavoro deve fornire all'uomo i mezzi di sostentamento, non l'usura - oggi speculazione. Ecco la sintesi perfetta che Dante, partendo da Aristotele e Genesi, mette in bocca al suo maestro Virgilio, il quale risponde alla domanda sul motivo della condanna dell'usura (mostrando quanto fosse importante la questione usuraia, fonte di avarizia e conseguentemente di ingiustizia sociale, nella cultura medioevale):

«Filosofia», mi disse, «a chi la ’ntende,
nota, non pure in una sola parte,
come natura lo suo corso prende

dal divino ’ntelletto e da sua arte;
e se tu ben la tua Fisica note,
tu troverai, non dopo molte carte,

che l’arte vostra quella, quanto pote,
segue, come ’l maestro fa ’l discente;
sì che vostr’arte a Dio quasi è nepote.

Da queste due, se tu ti rechi a mente
lo Genesì dal principio, convene
prender sua vita e avanzar la gente;

e perché l’usuriere altra via tene,
per sé natura e per la sua seguace
dispregia, poi ch’in altro pon la spene.



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06 maggio 2015

Basta Commedie: Dante era un cristiano medievale


di Francesco Mastromatteo 

Due giorni fa è stato celebrato il 750esimo anniversario della nascita di Dante Alighieri. Centinaia gli eventi in Italia ed all’estero per onorare il padre della Divina Commedia, uno dei pochi, anche se forse sbiaditi riferimenti culturali e identitari per una Nazione che fatica a individuare simboli e miti storico-culturali accettati da tutti.
 

10 agosto 2012

“Io lo so perché tanto di stelle…”. La notte di San Lorenzo e il mistero dell’universo

di Marco Mancini
Mi trovo da qualche settimana a San Martino d’Ocre, il paesino di montagna (1140 s.l.m.) a due passi dall’Aquila che ha dato i natali a mia madre. E’ il paese in cui ho passato buona parte delle mie estati, sin dall’infanzia.
 

14 marzo 2012

Povero Dante, islamofobo senza saperlo

di Alessandro Rico
Dante è antisemita, omofobo e razzista. Parola di «Gherush92», organizzazione di ricercatori e professionisti (ma de che?), che gode dello status di consulente speciale per il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite.
Certe ridicole affermazioni sono il parto perverso della religione del laicismo, che vanta illustri officianti e fedeli specialmente in certi consessi internazionali. Questi pagliacci si permettono di giudicare un sommo letterato e il suo capolavoro, applicando categorie del tutto fantasiose, inattendibili, prive di qualunque riscontro presso i tanti seri studiosi che hanno analizzato la Commedia.