Mi trovo da qualche settimana a
San Martino d’Ocre, il paesino di montagna (1140 s.l.m.) a due passi
dall’Aquila che ha dato i natali a mia madre. E’ il paese in cui ho passato
buona parte delle mie estati, sin dall’infanzia.
Nonostante nella stagione
estiva il borgo acquisti una certa vivacità, grazie alle attività organizzate
dalla locale Polisportiva, al ritorno dei sanmartinesi d’origine sparsi in giro
per il mondo e a un modesto afflusso di villeggianti (forestieri, specie
romani, ma pienamente integrati nella comunità), esso rimane un luogo dove mettere da parte il rumore e
il disordine della metropoli per assaporare il silenzio e la pace dell’ambiente
di montagna. Un piccolo paradiso terrestre, dove rinfrancare il corpo e
l’anima.
In particolare, le poche luci del
paese non impediscono di osservare, nelle serene notti d’estate, specie
passeggiando poco fuori dall’abitato, la
meraviglia del cielo stellato, oscurata in città dal sovrabbondare
dell’illuminazione artificiale. Sere fa, cercavo di spiegare proprio a un
ragazzino romano il concetto di anno-luce e le sue conseguenze: ciò che vedi in
questo momento non è altro che la luce emessa dalle stelle decine, centinaia o
migliaia di anni fa, a seconda della loro distanza. Alcune di esse potrebbero,
teoricamente, non esistere più da secoli.
Mentre dicevo questo, è tornato
ad assalirmi un dubbio: come è possibile
che in un universo così grande, esteso per miliardi di anni luce, il buon Dio
abbia deciso di creare l’uomo proprio in un pianeta piccolo e periferico, praticamente
insignificante? Magari, ho pensato provocatoriamente, la scienza moderna si
sbaglia: è veramente la Terra ad essere al centro dell’universo ed il cielo non
è che una volta stesa a ricoprirla, come nelle antiche visioni cosmologiche, o
a “separare le acque dalle acque”, come nel racconto della Genesi. Oppure hanno
ragione atei e scientisti: è veramente tutto frutto del caso e di meri processi
biochimici e la nostra Fede non è altro che pura fantasia.
Per un attimo il mio pensiero si
è soffermato su questa seconda eventualità, ma ne è prontamente rifuggito. Ho
pensato ai colori e alla bellezza della natura, alle migliaia di chilometri che
i salmoni dell’Alaska e le rondini (di cui Pascoli parla proprio nella sua
poesia sul 10 agosto) percorrono grazie al loro istinto, alle onde del mare e
alle vette innevate, alle cascate e ai boschi. No, proprio la bellezza dell’universo, la sua complessità, la sua immensità
e il suo estendersi persino al di là di quanto il pensiero umano possa
concepire sono la migliore prova che esso non può essere frutto del caso: dietro
deve esserci un formidabile Regista, un Creatore.
E non si tratta di un Dio
qualsiasi, di un semplice motore immobile e indifferente alla sorte degli
uomini. È un Dio al quale legittimamente
ci rivolgiamo con l’appellativo di Padre; un Dio che ci è stato
mostrato da suo Figlio, incarnato, morto e risorto per la nostra redenzione.
E il suo Spirito continua a consolare, illuminare e vivificare la sua Chiesa
nel corso del suo pellegrinaggio terreno. Un Dio trinitario che, come ci ha
ricordato Benedetto XVI nella sua prima enciclica, è innanzitutto Amore. Quell’Amore che è all’origine della vita e
che, come aveva ben compreso il nostro fratello nella fede Dante Alighieri,
“move il sole e l’altre stelle”.
Stanotte, se e quando conterete le stelle cadenti (leggendaria tradizione vuole che si tratti delle lacrime piante da San Lorenzo durante il suo martirio, o delle scintille emesse dalla graticola sulla quale fu arso) e magari esprimerete un desiderio, fateci un pensierino.
Pubblicato il 10 agosto 2012
bravo Mancini.
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