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20 gennaio 2017

La solitudine dei terremotati


di Amicizia San Benedetto Brixia

Parliamo ancora di terremoto. Poche settimane fa abbiamo pubblicato una riflessione di san Giovanni Bosco attorno al dramma del terremoto, oggi continuiamo sulla stessa tematica.

Suggerisco, quale esercizio istruttivo per lo spirito, di confrontare il commento che due personaggi di Chiesa hanno dato in merito alle catastrofi del Centro Italia. Da un lato propongo il monologo di don Luigi Maria Epicoco alla trasmissione Nemo (Rai2) dello scorso Novembre, dall’altro l’intervista rilasciata dal monaco benedettino Benedict Nivakoff a Tracce (11, dicembre 2016, 12-15), i cui concetti si trovano anche nel Te Deum di tempi.it.
Don Luigi chiarisce anzitutto che, alla domanda su Dio in caso di terremoto, “non risponde il prete, risponde il sopravvissuto”, il quale con sincerità asserisce “la mia fede è rimasta seppellita là sotto”. Il terremoto dunque scuote la fede del prete, che è costretto a rimettersi in gioco e si scopre essere come “un bambino, quando pensa che siccome c’è la mamma e il papà che lo amano, non gli capiterà mai niente di male”, quale il bambino tale il prete: “anche io ho pensato questo: se ci ami, perché ci fai questo?” Donde la riflessione “abbiamo una idea forse non giustissima di che cosa sia l’amore”, che porta il parroco a comprendere che l’amore è dire “io ti amo, per questo tu puoi vivere anche una cosa difficile”, mentre al contrario “si bara, quando si dice, ti amo e ti proteggo dai problemi”. Morale della favola: “questo fa l’amore, quando uno ti ama non ti evita la vita, ma ti dice che tu puoi affrontarla”.

Diverso il contenuto della riflessione di dom Benedict Nivakoff, che a scossa avvenuta si è messo in ginocchio davanti alla chiesa in rovina, perché “mettersi in ginocchio innanzitutto è stata la supplica di protezione”, ma anche perché è “un gesto di penitenza. E questo è molto importante, soprattutto dopo una tragedia”. La disgrazia infatti pone una domanda ai sopravvissuti: “Il Signore mi ha salvato la vita. Perché? Io che cosa devo cambiare? E’ la possibilità che Dio ti dà di cambiare vita”. Dunque “quello che è avvenuto ci spinge... a convertirci”, che significa “riconoscersi fino in fondo piccoli, peccatori, riconoscere quanto si è lontani da Dio”. Morale della favola: “l’importante è che quando Norcia rinascerà, trovi una fede più forte e seria di oggi”.

Non reputo né sciocca, né fuori luogo la risposta di don Luigi Maria Epicoco, solo, come abbiamo già notato nella lettera di san Giovanni Bosco, essa è lacunosa e sbilanciata, in accordo con la moda teologica corrente: si parla dell’uomo più che di Dio, di psiche più che di spirito, peraltro lasciando in silenzio il fatto che il terremoto è un male che Dio potrebbe evitare, mentre le disgrazie della vita sono mali che i genitori davvero non possono evitare ai propri figli (quando possono le evitano: es. con i vaccini).
Dall’altra parte abbiamo la confessione del monaco benedettino: ad essere imputato non è Dio o la sua credibilità, bensì l’uomo e la sua peccaminosità; la reazione poi non è quella di farsi domande, di agitarsi, di chiedere conto del sangue altrui, quanto quella di inginocchiarsi, prevenendo nella preghiera e nella mortificazione qualsiasi altra esternazione; entrambi, va notato, ammettono la propria lontananza da Dio, solo che Epicoco insiste sulla lontananza di comprensione mentale e psicologica, mentre Nivakoff focalizza la lontananza ontologica del peccatore dal Santo; l’esito è coerente, per il giovane parroco diocesano: l’orizzonte è di forte immanenza, davanti a noi sta la vita, più o meno incomprensibile, da affrontare con l’amore in uno slancio dal sapore solitario, mentre per il consacrato davanti a noi sta la storia, opaca e irsuta, nel cuore della quale si deve porre il seme della fede, perché le società di domani avrà questo solo talento di cui render conto.

Interessante, però, che nelle rovine della tragedia a sentirsi meno soli e meno defraudati siano coloro che da sempre scelgono di vivere soli (monaci) e senza niente. Che aggiungere? Anche niente. Mettiamoci in ginocchio e preghiamo.

 

23 settembre 2015

"Inside out", un film da vedere in famiglia


di Alessio Calò


Pare che i produttori del film “Inside out”, cartone animato della Pixar uscito nelle sale italiane mercoledì scorso, abbiano scopiazzato dal Catechismo della Chiesa Cattolica. Eh sì, perché gli stravolgimenti psicologici della protagonista, la piccola Riley, causati da una serie di disagi legati al trasloco della famiglia della bambina dal Minnesota a San Francisco, richiamano senza ombra di dubbio l'antropologia cristiana delle passioni (e delle virtù).
Le dinamiche psicologiche sopra accennate si svolgono nella mente della ragazzina (il Quartier Generale), e derivano dall'interazione di cinque emozioni, Gioia, Tristezza, Rabbia, Paura e Disgusto, che, guidate da Gioia, cercano di suggerire a Riley come reagire agli stimoli della realtà che la circonda. Realtà che diventa dura da affrontare nel momento in cui la bambina abbandona l'ambiente felice e ovattato in cui era cresciuta, e ad un certo punto si mostra piena di insidie e pericoli (Gioia e Tristezza vengono catapultate fuori dal Quartier Generale) da condizionare negativamente la condotta di Riley, in balia delle emozioni rimanenti.

Come abbiamo anticipato, questo film affronta varie tematiche interessanti: la prima riguarda il ruolo delle emozioni nella vita ogni persona, nel caso specifico di Riley. Nell'antropologia cristiana le emozioni (dette tecnicamente passioni) vengono definite come “moti della sensibilità”, “componenti naturali della psicologia umana [che] fanno da tramite […] tra la vita sensibile e la vita dello spirito” (citazioni tratte tutte dal Catechismo). Come si può constatare nel film, le passioni “in se stesse [...] non sono né buone né cattive [ma] ricevono qualificazione morale [...] nella misura in cui dipendono effettivamente dalla ragione e dalla volontà”: nella prima parte del film questo ruolo è svolto da Gioia, che coordina le emozioni di Riley e cerca di renderla felice. L'insegnamento interessante che si ricava dal film è che solo quando le passioni vengono ben co-ordinate possono contribuire al buon comportamento morale, ovvero alla realizzazione del bene della persona, che si riflette nel condurre una buona vita sociale.
Un secondo aspetto da considerare è l'importanza di tutte (tutte!) le emozioni nella vita dell'individuo: nel momento in cui qualcuna di esse prevalesse (come per esempio Gioia in una prima fase della vita di Riley) o mancasse (nel film la scomparsa di Gioia e Tristezza ha effetti disastrosi) il modo di approcciare il mondo sarebbe in qualche modo falsato, con tutte le conseguenze che si vedono nel corso della storia: aspettative deluse, frustrazione, voglia di evasione, malinconia. Le passioni sopra descritte si presentano normalmente nella vita morale umana, costituendo le motivazioni abituali delle azioni volontarie: esse non impediscono la libera espressione della persona, ma vanno integrate e regolate per il bene della stessa, in quanto “è proprio della perfezione del bene morale o umano che le passioni siano regolate dalla ragione” (sempre il Catechismo). Proprio per questo nella parte finale del film (non preoccupatevi, non rivelo niente) il ruolo di Tristezza, considerata nella prima parte del film un'emozione zavorra, viene rivalutato nella seconda parte. I sentimenti non sono neutrali, ma manifestano l'importanza del mondo esterno, conferendone un valore: per questo motivo le emozioni vanno educate, in modo che permettano una conoscenza vera della realtà e quindi un retto agire.


Inside out” è quindi un film consigliato a tutti, da vedere soprattutto in famiglia: vi sono avventure divertenti e scene esilaranti per i più piccoli, così come indicazioni di psicologia e pedagogia per i più grandi, che possono comprendere meglio certe dinamiche mentali ed immedesimarsi in alcune scene del film (divertentissima la scena del trailer, in cui viene riprodotta fedelmente la dinamica di coppia – ansiosa la madre e distratto il padre – nel momento in cui la figlia comincia a manifestare i primi malumori adolescenziali).

(La Croce Quotidiano, 23.09.2015)