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16 ottobre 2019

Gesù e la dottrina. Nessuna contrapposizione

di Giorgio Salzano
In mezzo alla confusione dottrinale non resta che la ragione (“confusione dottrinale” è il meno che si possa dire, in una situazione che vede buona parte della gerarchia, incluso il capo, schierati da una certa parte, altri vescovi da un’altra, mentre semplici presbiteri e laici seguono la loro inclinazione).
Con i cristiani posso argomentare sulla base dell’Antico e del Nuovo Testamento, e della ragione. Con gli ebrei posso ragionare sulla base dell’Antico Testamento e della ragione. Con chi non è né cristiano né ebreo, sulla base della sola ragione (firmato Tommaso d’Aquino).

Aggiungere all’Antico ed al Nuovo Testamento la ragione vuol dire che essi vanno pur sempre interpretati, e che se non vogliamo sentire sciocchezze come quelle che la stampa riporta del Generale di Gesuiti, allora bisogna che la loro interpretazione si basi su un corretto uso della ragione. Ok, san Tommaso non è più di moda come rappresentante di questo corretto uso, perché l’insegnamento aristotelico al suo tempo da poco riscoperto, con il quale egli raffrontava la precedente tradizione agostiniana, non è più considerato la vetta più alta raggiunta nell’uso naturale della ragione. E forse davvero non lo è. Altre cose sono successe nell’ambito del sapere, che sembrano estraniarci tanto dalla ragione rappresentata da Aristotele, quanto da quella dei testi biblici di cui con la ragione ci si faceva interpreti. E non mi risulta che i maestri della filosofia moderna, Kant in testa, abbiano saputo ricollegarci con essa.

Mi spiego (o almeno ci provo). L’affermazione cruciale del Nuovo Testamento, in quanto compimento dell’Antico, è quella che si riassume nelle parole del prologo al vangelo secondo Giovanni: «E il logos si fece carne». Traduciamo logos e abbiamo “parola”, “discorso”, “ragione”. Ecco, con esso la ragione cui si appella san Tommaso non è qualcosa di estraneo alla Bibbia, ma è quella stessa di cui la Bibbia (Antico e Nuovo Testamento) si dichiara testimone, e può farsene perciò interprete non estrinseco. Nostro compito odierno perciò è recuperare un simile senso comune della ragione.

Il problema dell’odierna confusione nella Chiesa non si risolve dunque con un appello alla fede che prescinda dalla ragione.
Chiedo venia per non essere bravo a segnarmi dove ho letto le cose così da poterle poi riportare con accuratezza. So che in un recente discorso Francesco è tornato a mazzolare chi lamenta un allontanamento dalla tradizione. Il suo rimprovero è mosso in generale a chi trasforma la fede in ideologia, fa cioè della sua cultura cristiana la cosa più importante, a scapito, parrebbe, di quella che ne è la sostanza. Non gli nego che effettivamente ci siano cristiani per i quali il fatto identitario sia più importante della religione vissuta, ma non lo seguo più quando in particolare attacca coloro che venerano la dottrina più di Gesù Cristo. Non ho potuto verificare e parafraso, ma questo è il senso che ne ho ritenuto: al di là dell’invito alla santità indirizzato a chiunque si professi cristiano, c’è anche il fastidio per chi sta là a spaccare il capello dottrinale. Da come la vede lui, poiché può essere che non si tratti che di coloro che esprimono perplessità di fronte al suo pressapochismo dottrinale.

Non è la dottrina quello che conta, sembra dire Francesco, ma la fede in Gesù Cristo. Ma scusa, gli chiedo, che razza di contrapposizione è questa? Io credevo che la dottrina fosse la definizione del senso della fede e di ciò che essa richiede da noi nella vita. Perché altrimenti i padri della Chiesa si sarebbero tanto arruffati nella lotta alle eresie, che definì il cristianesimo per quello che è, a seguito ad esempio della decisione al concilio di Nicea su uno iota, come quello che differenzia omoiousios (di simile sostanza) da omoousios (della stessa sostanza)? E guarda caso, poi, per lo più al nome di quei padri premettiamo un “san”, il che vuol dire che essi nel mentre che spaccavano il capello dottrinale attestavano una vita di fede esemplare.

Il problema è che per rispondere ai critici ci vuole la ragione, non basta un appello sentimentale alla fede. Me ne sono reso conto da una pluridecennale esperienza di studi e di insegnamento. Ciò che la gente non intende è proprio l’aver fede in Gesù Cristo, anche perché non comprende quel che la Chiesa insegna a suo riguardo. Estremo è il bisogno nella nostra società di carità intellettuale, che reintegri la dottrina cristiana nella totalità del sapere, a sua volta da essa illuminata. E solo resta per questo la ragione, purché riconosciuta in cose parole e discorsi come non originata da noi, ma ispirata da chi ci è maestro del suo esercizio.


 

02 gennaio 2019

Ipotesi sulla genealogia di Gesù/2

di Marco Muscillo
>Puntata precedente

La genealogia umana di Gesù ci viene presentata soltanto a conclusione del terzo capitolo [di Luca] e anch’essa ha un’impostazione diversa rispetto a quella di Matteo. Intanto vediamo che essa torna indietro nelle generazioni, cioè inizia con Gesù, che “come si credeva” era figlio di Giuseppe, per poi tornare a Davide e da Davide ad Abramo. Inoltre Luca aggiunge le generazioni da Abramo ad Adamo, il primo uomo, presentato come “figlio di Dio”. Comprendiamo subito che l’Evangelista ci dice che questa genealogia parte da Dio (Gesù, il Messia, riconosciuto da Dio Padre come Figlio) a Dio, il Padre Celeste che creò l’uomo, Adamo, “a Sua immagine e somiglianza” e per questo Suo figlio. È il compimento della Promessa.

Mentre San Matteo precisa che l’umanità di Gesù è data dalla figliolanza in Maria e Giuseppe ha il compito di dare legittimità legale, San Luca apparentemente scrive che Gesù è figlio di Giuseppe. Dico apparentemente perché sarebbe così soltanto se non dessimo valore all’espressione “come si credeva”. Infatti, a mio parere con questa espressione l’Evangelista vuole dirci che era il popolo a credere che Gesù fosse figlio di Giuseppe il falegname, ma in realtà Egli è figlio di Dio. Questa dualità paterna Luca ce la presenta già al capitolo 2, quando al versetto 49 Egli risponde alla madre: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. E al capitolo 4, al versetto 22, dopo che Gesù si è riconosciuto Messia interpretando su di sé la profezia di Isaia (Is 61), è scritto: “Non è il figlio di Giuseppe?”.

La genealogia di Luca è più ampia rispetto a quella di Matteo: egli ci presenta da Adamo a Gesù 77 generazioni. È ancora la gematria protagonista, segno della santità di tale genealogia, santità data anche dal centralismo del numero 7, il qual è sinonimo di pienezza, quindi del compimento della Promessa messianica. Ma sette sono anche i bracci della menorah, come sette sono i giorni della settimana, come sette sono gli Arcangeli, come sette sono i doni dello Spirito Santo, come sette sono le fiaccole che ardono davanti al trono di Dio (Ap 4,5). Il 7 quindi è un numero che indica la santità e che fa riferimento a Dio e rimanda alle profezie messianiche, prima fra tutte quella delle “Settanta Settimane” del profeta Daniele.
Detto ciò, possiamo pure ritenere che la genealogia scritta da Luca sia molto più precisa e completa rispetto a quella di Matteo, data la consueta precisione che l’Evangelista usa in tutto il suo Vangelo.

Nel primo capitolo, San Luca indica la classe sacerdotale di appartenenza di Zaccaria e ci dice che questi ebbe la visione dell’Angelo quando “secondo l'usanza del servizio sacerdotale, gli toccò in sorte di entrare nel tempio per fare l'offerta dell'incenso” (Lc 1,9), come a volerci indirettamente indicare il mese e il giorno di tale avvenimento. Nel secondo capitolo, nel raccontare della nascita di Gesù, egli inizia indicando la situazione politica: si è al tempo di Cesare Augusto, quando l’Imperatore indisse il censimento degli abitanti dell’Impero e quando Quirinio era governatore della Siria. Al terzo capitolo, L’Evangelista ci dice che la predicazione di Giovanni iniziò “nell'anno decimoquinto dell'impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell'Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell'Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa” (Lc 3,1-2).

A differenza di Matteo, Luca non nomina i re di Giuda. Infatti, come figlio di Davide egli indica Natàn e non Salomone. È la stirpe di Natan, fratello di Salomone, che interessa all’Evangelista Luca.
Prima di Davide le due genealogie sono pressoché identiche, al netto di alcuni nomi scritti in maniera probabilmente diversa (Salmòn e Sala sono la stessa persona?) e alcuni nomi mancanti in Matteo (come figlio di Esrom, Matteo indica Aram, mentre Luca indica Arni e aggiunge un altro nome, Admin, prima della generazione di Aminadàb). Dopo Davide, come abbiamo detto, le genealogie si dividono: San Matteo continua con la stirpe di Salomone e dei Re di Giuda, mentre San Luca prosegue con la stirpe di Natan, fino a Salatiel e Zorobabele, dopo l’esilio babilonese, che sono citati da entrambi gli Evangelisti. Ma anche qui c’è una differenza sostanziale: Matteo indica Salatiel come figlio di Ieconia, il re destituito ed esiliato, mentre Luca dice che è figlio di Neri, quindi della stirpe di Natan. Dopo Zorobabele, però, le due genealogie tornano a divergere nei nomi fino a Giuseppe.
Proprio in San Giuseppe si rileva un’altra divergenza: Matteo lo indica come figlio di Giacobbe, mentre Luca come figlio di Eli. La Tradizione cristiana ormai ritiene che la genealogia di Matteo indichi gli antenati di San Giuseppe, mentre quella di Luca indichi invece quella di Maria Vergine, Gloria della stirpe di Davide, quindi anch’Ella discendente del re Davide. Secondo la Tradizione, se Giuseppe legittima l’ascendenza regale di Gesù, Maria la legittima secondo la carne, passando dal ramo cadetto di Natan.

Ma perché in Luca Giuseppe viene indicato come figlio di Eli e non di Giacobbe? Se quella di Luca è la genealogia di Maria, Eli non dovrebbe essere il padre di Maria? Chi è allora questo Eli?
Eli è semplicemente San Giacchino. Eli infatti è il diminutivo del nome Eliachim, o Eliachin, un nome molto comune nell’onomastica ebraica, oltre che nella stessa genealogia scritta da Luca: troviamo infatti un Eliacim come padre di Ionam e figlio di Meléa, tra i discendenti di Natan. Un altro Elìacim è indicato invece da Matteo come figlio di Abiùd, a sua volta figlio di Zorobabele. Ma Ioiachin è anche il nome ebraico di Ieconia, re di Giuda, che Matteo indica come figlio di Giosia, ma che in realtà è figlio di Ioiakim, diciannovesimo re, che per volontà del faraone Necao cambiò nome dopo essere salito al trono. Prima il suo nome era Eliakim (2Re 23,34). Il nome di Gioacchino ha una sua tradizione e diffusione quindi anche tra i discendenti di Davide e tra la stirpe reale.
Un’ulteriore conferma del fatto che l’Eli nominato da Luca sia in realtà San Giacchino, ci viene da quanto ci dice la mistica Beata Anna Katherina Emmerick. Nelle sue visioni, la monaca di Dulmen cita una donna chiamata Maria Heli, o Maria di Heli. Secondo Anna Katherina, questa donna sarebbe la sorella maggiore della Vergine Maria. Maria di Heli era la moglie di Cleofa, e loro figlia era Maria di Cleofa. Quest’ultima fu sposata in prime nozze con Alfeo, da cui nacquero gli Apostoli Simone detto Zelota, Giacomo il Minore e Giuda Taddeo. Da un secondo matrimonio con Saba, nacque Giuseppe Barsaba, che è citato negli Atti degli Apostoli. Da un terzo matrimonio con un certo Giona, nacque Simeone, che fu poi il secondo vescovo di Gerusalemme (Vincenzo Noja, Visioni e Profezie di Caterina Emmerick, Ed. Segno, pp.84-85).

Heli o Eli era quindi il nome con cui era conosciuto San Gioacchino e ciò ci fa affermare con una buona certezza che Gioacchino e Eli per L’Evangelista Luca siano la stessa persona. A questo punto, Giuseppe viene indicato come figlio di Eli usando una prassi comune anche da noi, secondo cui il suocero adotta come proprio figlio il marito della figlia naturale.

Se nel Vangelo di Matteo, Giuseppe “adotta” Gesù per porlo legittimamente nella discendenza regale di Davide e Salomone, nel caso di Luca è Gioacchino che “adotta” Giuseppe per porlo nella genealogia, chiamiamola “principesca” o “cadetta”, di Natan.

Le Scritture ci indicano già all’Antico Testamento che la casa di Natan è seconda a quella di Davide. Il profeta Zaccaria la nomina in un suo oracolo messianico:

Farà il lutto il paese, famiglia per famiglia:
la famiglia della casa di Davide a parte
e le loro donne a parte;
la famiglia della casa di Natàn a parte
e le loro donne a parte;
13 la famiglia della casa di Levi a parte
e le loro donne a parte;
la famiglia della casa di Simeì a parte
e le loro donne a parte;
14 così tutte le altre famiglie a parte
e le loro donne a parte». (Zc 12,12-14)


Zaccaria è un profeta di stirpe sacerdotale che vive negli anni del ritorno dei giudei nella Terra Promessa dopo i settant’anni dell’esilio babilonese. In questo periodo le profezie messianiche sono molto sentite. La venuta del Messia è considerata come conseguenza successiva della ricostruzione di Gerusalemme e quella del Tempio (un po’ come ai nostri tempi, alcuni premono per vedere Gerusalemme capitale di Israele e per costruire il Terzo Tempio, perché propedeutici all’avvento del Messia).
Da questo passo del profeta Zaccaria notiamo che da Babilonia è tornato un resto d’Israele, il quale ha mantenuto la propria coscienza storica e sociale. Si nominano alcuni casati, tra i quali il primo è quello di “Davide”, la casa reale. Subito dopo si nomina la “casa di Natan”, e ancora dopo la “casa di Levi”, seguita da quella di “Simeì”. Probabilmente si tratta di una delle case dei discendenti di Levi di cui leggiamo al capitolo 6 del primo libro delle Cronache : “Figli di Levi: Gherson, Keat e Merari. Questi sono i nomi dei figli di Gherson: Libni e Simei” (1Cr 6,1-2); “Suo collega era Asaf, che stava alla sua destra: Asaf, figlio di Berechia, figlio di Simeà, figlio di Michele, figlio di Baasea, figlio di Malchia, figlio di Etni, figlio di Zerach, figlio di Adaià, figlio di Etan, figlio di Zimma, figlio di Simei, 28 figlio di Iacat, figlio di Gherson, figlio di Levi.” (1Cr 6, 24-27). Ma la sua famiglia è meglio specificata nel libro dei Numeri: “Da Gherson discendono la famiglia dei Libniti e la famiglia dei Simeiti, che formano le famiglie dei Ghersoniti.” (Nm 3,21).

Nel passo della profezia leggiamo che Zaccaria pronuncia prima il nome di Davide e poi quello del figlio Natan, seguito dal nome di Levi seguito da un suo discendente, Simeì. È dunque specifico in questo caso, mentre in seguito parla più in generale, ritenendo forse che non sia necessario specificare le altre famiglie: “così tutte le altre famiglie a parte e le loro donne a parte” (Zc 12,14).
Se diamo un giusto valore alle parole del profeta Zaccaria, dobbiamo desumere che al ritorno da Babilonia la famiglia di Natan è presente ed è seconda solo alla famiglia di Davide, cioè alla casa reale. Essa avrà avuto quindi una certa importanza nella tribù di Giuda, che insieme a quelle di Levi e Beniamino fa parte del “Resto d’Israele”.

(continua)
 

27 dicembre 2018

Ipotesi sulla genealogia di Gesù/1

Confronto tra 1Cr 3 – Lc 3 – Mt 1


di Marco Muscillo


Secondo la promessa fatta al popolo ebraico tramite i Profeti, i giudei sapevano che il Messia sarebbe sorto dalla casa di Davide:
“Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse,
un virgulto germoglierà dalle sue radici.” (Is 1,1)


L’Unto atteso dagli ebrei è ancora oggi un re, discendente di Davide, che istaurerà un regno, a loro giudizio temporale, e che sottometterà tutti i popoli e sarà portatore di un’era di pace e prosperità. Questa concezione così terrena del Salvatore è probabilmente dovuta all’attaccamento fisico e materiale degli ebrei alla Terra Promessa che per loro non può non avere una natura concreta e delimitata alla “terra dove scorre latte e miele” (Es 3,8), conquistata dopo l’esodo dall’Egitto. Le conseguenze di questa concezione materialistica della Terra Promessa le riscontriamo ancora ai giorni nostri, come i fatti di cronaca politica e geopolitica ci dimostrano.
Proprio per questo era difficile che gli israeliti del tempo di Gesù potessero davvero capire il reale senso della regalità che Gesù dava al Messia e il senso spirituale dell’annuncio del Regno di Dio che come ricorda a Pilato “non è di questo mondo” (Gv 18,36). Gli ebrei attendevano e attendono tutt’oggi un Giudice e non hanno riconosciuto un re che si mostrava così misericordioso da perdonare i Suoi carnefici e dare la vita per il Suo popolo. Ma il Giudice alla fine arriverà e allora tutti Lo riconosceranno.

Gesù rifiuta di essere proclamato re e sfugge al popolo che vuole incoronarlo (Gv 6,15). L’atteggiamento del popolo dimostra che Gesù fosse riconosciuto come vero “figlio di Davide” (Lc 18,38-39), cioè appartenente alla casa reale di Davide e pretendente al trono del Regno di Israele, finalmente riunito.

L’appartenenza di sangue alla stirpe di Abramo è essenziale e concreta tanto quanto lo è il concetto di Terra Promessa. Gli israeliti tengono ricordo della propria genealogia, la loro appartenenza ad una famiglia specifica, ad un casato specifico e ad una tribù specifica.

Non a caso, l’Evangelista Matteo, nel voler parlare direttamente agli ebrei, inizia il suo Vangelo con la genealogia di Gesù, così da voler dimostrare l’appartenenza di Gesù al popolo eletto, alla stirpe di Abramo, alla tribù di Giuda e alla Casa di Davide. Gesù è il Messia, la genealogia ne dà conferma.

Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo. Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli, Giuda generò Fares e Zara da Tamar, Fares generò Esròm, Esròm generò Aram, Aram generò Aminadàb, Aminadàb generò Naassòn, Naassòn generò Salmòn, 5 Salmòn generò Booz da Racab, Booz generò Obed da Rut, Obed generò Iesse, Iesse generò il re Davide.
Davide generò Salomone da quella che era stata la moglie di Urìa, Salomone generò Roboamo, Roboamo generò Abìa, Abìa generò Asàf, Asàf generò Giòsafat, Giòsafat generò Ioram, Ioram generò Ozia, Ozia generò Ioatam, Ioatam generò Acaz, Acaz generò Ezechia, Ezechia generò Manasse, Manasse generò Amos, Amos generò Giosia, Giosia generò Ieconia e i suoi fratelli, al tempo della deportazione in Babilonia. Dopo la deportazione in Babilonia, Ieconia generò Salatiel, Salatiel generò Zorobabèle, Zorobabèle generò Abiùd, Abiùd generò Elìacim, Elìacim generò Azor, Azor generò Sadoc, Sadoc generò Achim, Achim generò Eliùd, Eliùd generò Eleàzar, Eleàzar generò Mattan, Mattan generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo.
La somma di tutte le generazioni, da Abramo a Davide, è così di quattordici; da Davide fino alla deportazione in Babilonia è ancora di quattordici; dalla deportazione in Babilonia a Cristo è, infine, di quattordici. (Mt 1,1-17)


La genealogia che ci presenta l’Evangelista Matteo, come vediamo, basa la sua stesura più sulla simbologia che non sull’enumerazione corretta di tutte le generazioni. Infatti, come si ammette al versetto 17, tutto l’enunciato ruota attorno al numero 14, secondo la scienza teologica ebraica della gematria. Secondo tale scienza, il numero 14 sarebbe proprio rappresentativo del nome di Davide, ottenuto sommando i valori delle consonanti D, V, D. Mancano quindi dei nomi, sia tra la successione dei re di Giuda, sia tra quelli presentati dopo la cattività babilonese. Inoltre, si nota anche la particolarità dell’Evangelista a nominare quattro donne, che hanno la caratteristica o di essere di stirpe non ebrea o che sono state oggetto di peccato: è il caso ad esempio di Betsabea, che era moglie di Urìa (2Sam 11); ma anche di Tamar, che si unì a Giuda prostituendosi, dopo che questi non aveva rispettato la legge del levirato, dimenticandosi di dare in sposa la donna al suo terzo figlio Sela, per poter dare discendenza al suo primogenito, Er (Gn 38).
Il centro della genealogia di Matteo è quindi il re Davide e quella qui enunciata è la stirpe regale d’Israele, da Abramo a Gesù, il quale però è figlio naturale di Maria, sposa di Giuseppe. Compito di Giuseppe è quello di dare legittimità legale al Messia, nato dalla carne per via materna e concepito per opera dello Spirito Santo. Proseguendo infatti la lettura del primo capitolo del Vangelo di Matteo, al verso 21 l’Angelo ordina proprio a Giuseppe di dare il nome al bambino: “Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” . È Giuseppe che impone al nascituro il nome di Gesù e con questo atto, egli legittima legalmente la figliolanza di Gesù alla stirpe regale di Davide.

Diversa invece è l’impostazione con cui San Luca presenta la genealogia di Gesù nel suo Vangelo:

Gesù quando incominciò il suo ministero aveva circa trent'anni ed era figlio, come si credeva, di Giuseppe, figlio di Eli, figlio di Mattàt, figlio di Levi, figlio di Melchi, figlio di Innài, figlio di Giuseppe, figlio di Mattatìa, figlio di Amos, figlio di Naum, figlio di Esli, figlio di Naggài, figlio di Maat, figlio di Mattatìa, figlio di Semèin, figlio di Iosek, figlio di Ioda, figlio di Ioanan, figlio di Resa, figlio di Zorobabèle, figlio di Salatiel, figlio di Neri, figlio di Melchi, figlio di Addi, figlio di Cosam, figlio di Elmadàm, figlio di Er, figlio di Gesù, figlio di Elièzer, figlio di Iorim, figlio di Mattàt, figlio di Levi, figlio di Simeone, figlio di Giuda, figlio di Giuseppe, figlio di Ionam, figlio di Eliacim, figlio di Melèa, figlio di Menna, figlio di Mattatà, figlio di Natàm, figlio di Davide, figlio di Iesse, figlio di Obed, figlio di Booz, figlio di Sala, figlio di Naàsson, figlio di Aminadàb, figlio di Admin, figlio di Arni, figlio di Esrom, figlio di Fares, figlio di Giuda, figlio di Giacobbe, figlio di Isacco, figlio di Abramo, figlio di Tare, figlio di Nacor, figlio di Seruk, figlio di Ragau, figlio di Falek, figlio di Eber, figlio di Sala, figlio di Cainam, figlio di Arfàcsad, figlio di Sem, figlio di Noè, figlio di Lamech, figlio di Matusalemme, figlio di Enoch, figlio di Iaret, figlio di Malleèl, figlio di Cainam, figlio di Enos, figlio di Set, figlio di Adamo, figlio di Dio. (Lc 3,23-38)

Innanzitutto notiamo che all’Evangelista Luca preme iniziare il suo Vangelo con la storia di Giovanni Battista, mettendo a confronto nel suo primo capitolo le visite dell’Arcangelo Gabriele prima al sacerdote Zaccaria e poi alla Vergine Maria, per poi narrare la visita di Maria alla cugina Elisabetta e poi la nascita del Precursore. Nel capitolo secondo invece leggiamo la nascita di Gesù a Betlemme, la presentazione al Tempio, e i suoi primi anni di vita fino al dodicesimo anno di età, quando un Gesù non ancora uomo per la Legge ebraica, si era trattenuto a Gerusalemme per ascoltare ed interrogare i dottori del Tempio, facendoli rimanere “pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte” (Lc 2, 47).
San Luca ci presenta la genealogia di Gesù soltanto dopo il Suo battesimo, quando al versetto 22 leggiamo che lo Spirito Santo scese su di Lui e una voce dal Cielo Lo riconosceva come “Figlio prediletto”. A differenza di Matteo, Luca non pare cercare la legittimazione legale del Messia secondo la carne, o almeno non la ritiene predominante, ma prioritaria invece è la legittimazione che viene da Dio, prima con l’Annunciazione dell’Arcangelo alla Vergine Maria e poi con la manifestazione della Santissima Trinità dopo il battesimo al Giordano e le parole dirette del Padre. È Dio Padre che riconosce Gesù come proprio Figlio, pertanto Egli è il Messia già solo per questo riconoscimento diretto.

(continua)

 

30 giugno 2018

Il Commento di san Tommaso a Matteo

di Fabrizio Cannone
L’estate direi che è la stagione più propizia alla lettura e alla meditazione. Le vacanze, il tempo libero, il fattore climatico, un certo legittimo desiderio di evasione ed infine l’importanza – avvertita soprattutto dalle persone profonde – di formarsi e di riflettere.
San Tommaso è di uno quegli autori che difficilmente si riescono ad esaurire in una sola esistenza. Leggere tutte le opere di Manzoni, di Petrarca, di Pirandello o di Shakespeare, è difficile, ma non è impossibile. E c’è chi c’è riuscito senza pena, in anni di intense letture.
Le opere di Tommaso d’Aquino hanno una profondità, una vastità e una complessità difficilmente raggiungibile, e molti studiosi tomisti mi hanno rivelato di aver impiegato parecchi anni per leggere la sola Summa teologica, il testo sicuramente più autorevole dell’immenso teologo italiano (oggi disponibile, in 4 volumi, ed in una nuova eccellente traduzione, a cura delle ESD di Bologna).
Ma san Tommaso oltre che teologo (Summa theologiae, Commento alle Sentenze e Summa contra Gentiles), fu anche filosofo (con i celebri studi su Aristotele, Boezio e gli undici volumi delle Quaestiones Disputatae) e ottimo esegeta della Sacra Scrittura.

Quest’ultima sua caratteristica è la meno nota e forse anche la meno riconosciuta da certi teologi della Chiesa. Costoro, per varie diverse ragioni, sono ostili alla Scolastica medievale e vorrebbero – pazzescamente, il faut le dire – ridurre Tommaso ad una sorta di Aristotele cattolico, né biblico, né realmente ‘cristiano’ poiché carente di impregnazione scritturistica nelle sue opere.
La realtà è esattamente all’opposto. Non solo tutte le opere di san Tommaso, ove più ove meno, sono delle riflessioni che tengono conto della Rivelazione divina e dei dogmi della fede, ma l’Angelico ha anche “commentato alcuni libri biblici, in particolare Isaia, Geremia, i primi cinquanta Salmi, Giobbe, i Vangeli di san Matteo e di san Giovanni e le Lettere di san Paolo” (Tommaso d’Aquino, Commento al Vangelo secondo Matteo, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 2018, 2 volumi, di pagine 1194 ciascuno, euro 98, p. 5).

E non è davvero poco, specie in mancanza di web, pc ed altre moderne facilitazioni.
Il domenicano Roberto Coggi, traduttore del libro, nota con legittimo stupore che mentre “Tutti questi commenti sono stati tradotti in qualche lingua moderna [ovviamente nel Medioevo si scriveva in latino]”, fa eccezione, “stranamente, il Vangelo di san Matteo”, benché il Commento di san Tommaso non sia “per nulla inferiore agli altri” (p. 5).

Secondo il sacerdote, il Commento al Vangelo secondo Matteo risale al secondo periodo parigino di san Tommaso, probabilmente proprio al biennio 1269-1270, pochi anni prima dunque della morte dell’Autore, avvenuta presso l’abbazia di Fossanova, nel 1274.

La dotta introduzione di padre Coggi si diffonde sulle caratteristiche testuali e critiche dell’opera tomistica, notando per esempio che alcuni brevi passaggi del Commento non sarebbero dell’Aquinate, ma di un certo “Pietro di Scala, un domenicano della fine del XIII secolo” (p. 6).
Quello che ci pare ancora più rilevante, vista la crisi spaventosa dell’esegesi cattolica attuale, è il valore che il Dottore Comune della Chiesa dà al senso letterale della Sacra Pagina. “Fra i quattro sensi della Scrittura, letterale o storico [il I], allegorico, cioè dogmatico [il II], morale [il III] e anagogico, cioè rivolto alle realtà future [il IV], san Tommaso, come suo solito, dà la priorità al senso letterale, essendo convinto che esso è il solo adattabile alle necessità dell’argomentazione teologica, e inoltre che ogni interpretazione spirituale (…) deve essere confermata dall’interpretazione letterale, in modo da evitare qualsiasi rischio di errore” (p. 7, corsivo nostro).

Non crediamo che l’esegesi del Novecento, pur tra tante conquiste e scoperte, abbia seguito il consiglio di san Tommaso in materia di interpretazione biblica. E neppure siamo in grado di dire se tale principio assiomatico dell’esegesi cattolica – assieme a quello duplice dell’ispirazione-inerranza – sia ben integrato negli stesso documenti ufficiali recenti, come L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (Pontifica Commissione Biblica, Libreria Editrice Vaticana, 1993). Anzi, temiamo che la crisi epocale dell’esegesi sia dovuta proprio all’oblio, più o meno volontario, dei 3 principi summenzionati: primato del senso letterale, ispirazione (che fa di Dio l’autore principale di tutta la Scrittura canonica, dalla Genesi all’Apocalisse) e la totale inerranza del Testo sacro.
Ci si permetta una breve riflessione, proprio a partire da san Tommaso esegeta sul senso profondo e dimenticato dell’autentica ispirazione biblica.

Il 23 aprile 1993, Giovanni Paolo II, durante un’udienza commemorativa del centenario della Providentissimus Deus di Leone XIII e del cinquantenario della Divino afflante Spiritu di Pio XII – le due encicliche che fondarono in qualche modo l’esegesi critica dei cattolici – disse che “l’interpretazione della Sacra Scrittura è di una importanza capitale per la fede cristiana e la vita della Chiesa” (n. 1).

E sottolineava giustamente che “La Chiesa non teme la critica scientifica” (n. 4), ed “attribuisce una grande importanza allo studio storico-critico della Bibbia” (n, 7), fino a parlare, con linguaggio ardito, “dei condizionamenti umani della Parola di Dio” (n. 8). Ma nell’esegesi prevalente oggi questi ‘condizionamenti umani’ sono giunti a far dire all’esegeta cattolico, che non possiamo conoscere l’intenzione degli autori dei Sacri testi, e neppure saperne l’identità, l’origine e gli scopi. Fino al punto che tale condizionamento potrebbe aver causato degli errori fattuali (di tipo storico, cronologico, scientifico o culturale) nella Scrittura, negando così implicitamente sia il dogma dell’ispirazione biblica, sia il suo corollario immediato, ovvero la sua inerranza assoluta (in tutti gli ambiti e non solo in quello dogmatico-morale).

Giovanni Paolo II però, in quel Discorso, parlava proprio di ciò che larga parte dell’esegesi scientifica attuale non vuol più sentire, cioè della doverosa “fedeltà alla Chiesa” (n. 10), che consiste nel “situarsi risolutamente nella corrente della grande Tradizione che, sotto la guida del Magistero, assicurato da un’assistenza speciale dello Spirito Santo” (n. 10), interpreta autorevolmente i testi. Il papa collega persino la virtù personali che l’esegeta cattolico deve perseguire e il suo lavoro di esegeta. Risulta infatti “necessario che lo stesso esegeta percepisca nei testi la parola divina, e questo non gli è possibile che nel caso in cui il suo lavoro intellettuale venga sostenuto da uno slancio di vita spirituale (…). Lo studio scientifico dei soli aspetti umani dei testi può far dimenticare che la parola di Dio invita ognuno ad uscire da se stesso per vivere nella fede e nella carità” (n. 9).
Questa dimenticanza dal 1993 ad oggi è diventata legione. L’Angelico, con la sua interpretazione magistrale del Vangelo di Matteo, contribuirà, ne siamo certi, alla ripresa di quella grande corrente della Tradizione, che dalla Patristica ad oggi, non si è mai interrotta, nonostante il prevalere di esegeti con poca fede e nulla carità.


 

13 dicembre 2017

Sulla Vera Croce: un'indagine storica


di Alfredo Incollingo

Gli eretici e i nemici giurati del cattolicesimo hanno tentato di averla vinta sulla Chiesa dimostrando, tra i tanti pregiudizi e le molte falsità, l'infondatezza dell'episodio evangelico della crocifissione di Gesù. L'evento è stato ridimensionato per svelare la presunta verità, al di là delle testimonianze degli evangelisti, ritenuto menzognere e prive di prove. C'è chi ha negato la natura divina di Gesù, le sue parole e i suoi gesti, il luogo del supplizio e alcuni hanno rifiutato in toto l'accaduto. Non ci sarebbe stata nessuna crocifissione perché Gesù non è mai esistito e, secondo tali interpretazioni, i romani raramente condannavano alla croce criminali e ribelli. Appurato che Cristo è esistito, come Dio e come Uomo, si crocifiggeva molto più spesso di quanto si creda. Con questi presupposti fondamentali Massimo Olmi ci aiuta nel suo Indagine sulla croce di Gesù (La Fontana di Siloe, 2015) a conoscere la verità sullo strumento di supplizio di Cristo, “che è divenuto simbolo di salvezza, di pace e di amore universale, ma che ancora oggi qualcuno disprezza a tal punto da chiedere la rimozione dei crocifissi dai luoghi pubblici. C’è chi reputa il crocifisso diseducativo, chi offensivo, chi lo getta dalla finestra. Eppure Gesù insegnò ad amare il prossimo e fece soltanto del bene!” (p. 173) Come raccontano i quattro Evangelisti, il Messia venne crocifisso sul monte Calvario insieme a due ladroni. Per secoli non si ebbero più notizie concrete sulla croce, come se questa fosse svanita nel nulla o fosse stata assunta in Cielo con il Figlio. Un'antica tradizione vuole che fu sant'Elena, madre dell'imperatore Costantino, a ritrovarla a Gerusalemme grazie all'aiuto di un ebreo, Giuda, che si convertì subito dopo al cristianesimo. La Vera Croce venne suddivisa in tre parti che furono conservate in Palestina, a Costantinopoli e a Roma: rapine, incendi e ulteriori smembramenti causarono la loro rovina o la totale spoliazione. Questo spiegherebbe il gran numero di reliquie della croce sparse in Europa, perché i papi erano soliti donare i suoi frammenti lignei ai sovrani più fedeli. Partendo dalla leggenda del ritrovamento della Vera Croce, Olmi indaga sulle fattezze della croce di Gesù, sui materiali e, senza dimenticare nessun indizio, neanche le visioni delle veggenti che assistettero alla crocifissione, chiarisce gli aspetti più dubbi di questo strumento di supplizio. E' un testo fondamentale per formare una biblioteca cattolica, contro i tanti veleni culturali che sempre di più vogliono negare la verità cristiana.



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13 aprile 2017

Apologetica. La verità della Resurrezione contro i luoghi comuni


di Giuliano Guzzo

La tentazione è credere che il fatto non ci riguardi. Che la sola cosa importante, dopotutto, sia il messaggio di Gesù e che la ragione non possa spingersi oltre un certo limite. In realtà, insegna Pascal (1623-1662), «il passo supremo della ragione è riconoscere che ci sono un’infinità di cose che la trascendono» [1]. Sarebbe dunque superficiale – e umiliante per la ragione stessa – sottrarsi a priori ad un’indagine sul pilastro primo della fede cristiana, vale a dire la risurrezione di Gesù. Non che il resto non abbia alcuna importanza, intendiamoci, ma fu primariamente quell’evento il centro della fede delle prime comunità cristiane [2], evento che costituisce anche il punto sul quale – direbbe Dostoevskij (1821-1881) – l’«uomo colto», l’«europeo dei nostri giorni» è chiamato a valutare la possibilità di poter «credere, credere proprio, alla divinità del figlio di Dio, Gesù Cristo» [3].

Diversamente, annotava già San Paolo, «se Cristo non è risorto vana» è la «fede» [4]. Al punto che se si volesse riassumere il contenuto della fede cristiana in un’unica frase – osservava Romano Guardini (1885-1968) – si potrebbe dire tranquillamente questo: «Credo nella resurrezione dei morti e nella vita» [5]. La risurrezione come questione centrale, dunque. Questione che deve essere anzitutto sottratta a quel silenzio a causa del quale, per dirla con Yves Congar (1904-1995), non se ne parla più o quasi [6], e poi valutata senza imbarazzo anche sotto il profilo della storicità dato che «tutto nel Cristianesimo è storico» e la stessa fede «non aggiunge qualche cosa “in più” che non ci sia nel fatto, ma accoglie il fatto o l’evento, integralmente» [7].

Di qui la domanda che ci siamo posti in apertura: la risurrezione è una favola oppure no? E’ un’antichissima leggenda metropolitana oppure un «evento effettivamente accaduto» [8]? Trattasi di quesiti, insistiamo, della massima importanza dal momento che, com’è stato già osservato, dubitare della storicità della risurrezione non significa dare scarsa importanza ad una fase della vita di Gesù, no: significa mettere apertamente in discussione la sua stessa natura divina, il suo essere Figlio di Dio [9]. Siamo pertanto di fronte ad un bivio cruciale: o Gesù è risorto in quanto Figlio di Dio – e quindi il Cristianesimo, in sostanza, è integralmente vero – oppure è tutta una colossale illusione: tertium non datur. O tutto, o niente.

I Vangeli e la risurrezione che non c’è

Il punto di partenza obbligato per affrontare questo dilemma, ancora una volta, non possono che essere loro, i Vangeli, quattro testi che totalizzano 64.327 parole greche di cui la Chiesa, anche in occasione del Concilio Vaticano II, ha rivendicato «senza esitazione la storicità» [10], e che contengono la grandissima parte delle informazioni che abbiamo su Gesù; al punto che è stata osservata l’impossibilità di scindere il cosiddetto “Gesù storico” dal Gesù narrato nei vangeli [11]. Lo spazio ci impedisce, qui, un approfondimento sull’attendibilità storica dei vangeli, per cui ci limitiamo, confidando nella clemenza del lettore,  ad un’analisi più generale. Analisi che, a proposito di risurrezione, potrebbe iniziare dalla sottolineatura di un dato curioso eppure, di solito, poco considerato: i Vangeli – il primo dei quali, Marco, composto appena dieci anni dopo la morte di Gesù [12] – non la descrivono. Proprio così: nessuna testimonianza diretta [13]. Non per nulla questo dato di fatto viene spesso strumentalizzato da certo ateismo militante per accusare i credenti nel Risorto di essere creduloni. Immaginiamo, al riguardo, la soddisfazione con la quale il matematico Piergiorgio Odifreddi, mosso dal consueto piglio provocatorio, ha fatto per l’appunto presente che la risurrezione «nei Vangeli non c’è» [14], tentando così di far passare per ingenui quanti credono che Gesù abbia davvero vinto la morte.

In realtà è chi prende per buona questa critica a peccare di ingenuità. Vediamo perché. Ora, al di là di quello che affermano Odifreddi e compagni, nei Vangeli  – escludendo Giovanni – di risurrezione si parla, eccome se se ne parla: almeno 11 volte (Matteo: 16,21 17,22 20,19 26,32 e 27,63. Marco: 8,31 9,30 10,34 12,96 e Luca: 18,33), senza contare che in tutto il Nuovo Testamento i termini indicanti la risurrezione – eghiero e anastasis – ricorrono almeno 100 volte. Il punto, come dicevamo poc’anzi e com’è stato più volte osservato, è che a «tutti gli autori del Nuovo Testamento», non è mai venuto in mente neppure «di azzardare una cronaca dell’evento di risurrezione» [15]. Un dato, questo, che dovrebbe far riflettere, in particolare coloro che dubitano della serietà della narrazione evangelica: perché mai, se quei testi sono menzogneri, i suoi redattori si sarebbero dovuti trattenere, pur nominandolo, dal descrivere il miracolo dei miracoli, quello sul quale si fonda tutto il resto? Non avrebbe avuto molto più senso, in chiave apologetica, una cronaca – magari condita con effetti speciali, prodigi e colpi di scena – di Gesù che se ne esce vittorioso dal sepolcro? Perché mai, insomma, questo silenzio?

L’interrogativo è di quelli importanti, anche perché tutto si può dire tranne che quei giorni, nella narrazione evangelica, siano stati poco considerati: per dire, nel vangelo di Marco – il più antico – ben 107 dei 658 versetti totali sono dedicati esclusivamente dalla descrizione delle ultime 24 ore della vita di Gesù. Ma della risurrezione no, di come sia avvenuta non si riferisce in alcun modo. Non una parola, silenzio. Peccato. Anche perché, come si è detto, in ottica propagandistica avrebbe giovato – e molto – una cronaca in tal senso. A meno che – e a questo punto l’ipotesi non può più essere trascurata – i Vangeli non siano sul serio resoconti di quel che davvero avvenne, di quello che fu effettivamente visto (e non visto) dagli apostoli. Una sorta di diario scritto per portare sì la fede, ma prima di tutto per tramandare degli eventi che quella fede originarono, a partire dall’incredulità degli apostoli. E proprio «quell’iniziale incredulità degli apostoli» – osserva Antonio Socci – mostra «che gli evangelisti non stanno illustrando delle idee teologiche, o un mito, ma riferendo fatti. Fatti concreti, carnali, dettagliati. Fatti inimmaginabili e sorprendenti innanzitutto per loro» [16].

Pasqua, una storia di donne

A favore della volontà di cronaca prima che apologetica dei vangeli,  rileva anche un altro aspetto, e cioè la narrazione di quel che accadde la mattina del 9 aprile dell’anno 30 [17] (data sulla quale non c’è però concordanza, essendovi anche l’ipotesi, ancora più suggestiva, che si trattasse dell’1 aprile del 33 d.C.[18]): le prime a vedere il sepolcro vuoto e a riceverne la spiegazione dall’Angelo del Signore sarebbero state delle donne. Ebbene, si dà il caso che a quel tempo – secondo la prassi socio giuridica ebraica – la credibilità delle donne fosse assai irrilevante. Ce lo rammenta anche lo storico ebreo Giuseppe Flavio, nato sette anni dopo la crocifissione, che nelle sue Antichità Giudaiche ebbe ad annotare: «Le testimonianze di donne non valgono e non sono ascoltate tra noi, a motivo della leggerezza e della sfacciataggine di quel sesso». Chi avesse voluto architettare un racconto fasullo per poi spacciarlo come autentico, quindi, mai e poi mai si sarebbe servito di testimonianze femminili. Eppure, per i Vangeli, la scoperta del sepolcro vuoto è indubbiamente ed esclusivamente una storia di donne. «Un comportamento inspiegabile – commenta Vittorio Messori -, qualora fosse stato deciso dai redattori evangelici e non imposto invece – come evidentemente è – da una sconcertante realtà di fatto, visto che la comunità cristiana primitiva non è meno “maschilista” dell’ambiente da cui proviene» [19].

Una ulteriore conferma dell’autenticità di quella scoperta davvero effettuata da delle donne, ci viene dalle parole di Schnackenburg: «Per la mentalità giudaica, le donne non venivano prese in considerazione come testimoni; ma ciò nonostante le donne ricordate ebbero notevole importanza agli occhi della Chiesa primitiva per lo storico ruolo da esse sostenuto nella scoperta del sepolcro vuoto […] le donne accompagnano Gesù in tutto il suo cammino […] sono silenziose ma […] eloquenti testimoni di quell’evento unico e più d’ogni altro importante» [20]. In altre parole la centralità delle testimonianze femminili, oltre ad essere documentata in più fasi della vita di Gesù e a divenire della massima importanza con la sua risurrezione, fu talmente concreta che determinò una vera e propria svolta, perché quelle donne «ebbero notevole importanza agli occhi della Chiesa primitiva per lo storico ruolo da esse sostenuto».

A questo punto si può obbiettare che, per quanto curiosi, questi dubbi possono tutt’al più costituire basi per alcune ipotesi e non certo divenire indizi, né tanto meno prove fugando dubbi che rimangono.  Esattamente come rimasero ai seguaci di Gesù: il sepolcro vuoto non li convinse affatto – non tutti almeno, e vedremo tra poco perché – della risurrezione. La conferma è nelle parole di Maria di Màgdala, la quale, spaventata, subito ipotizza un furto o comunque un trasferimento improvviso del cadavere: «Hanno portato via il Signore e non sappiamo dove l’hanno messo!» [21]. Un pensiero che non riguardò solo lei se si tiene presente che, in un primo momento, gli stessi apostoli non pensarono alla risurrezione, anzi, «la domanda che essi si facevano era probabilmente di questo tipo: Che significava questo? Cos’è accaduto? Tutte le ipotesi erano possibili ma nessuna di esse sembrava convincente. Gli apostoli non sapevano proprio cosa pensare. E’ vero che sia la Scrittura che Gesù stesso avevano parlato del Messia in termini di prova, sofferenza, morte e risurrezione, ma nessuna delle donne e dei discepoli poteva immaginare che quelle parole bibliche o di Gesù potessero ora prendere la forma dell’evento che stava sotto ai loro occhi, e che faceva pensare invece ad un’assenza, piuttosto che ad un evento glorioso» [22].

Perché Giovanni «vide e credette»?

Anche se in realtà – dicevamo poc’anzi – qualcuno prima degli altri si convinse della vittoria di Gesù sulla morte ci fu. A riferirlo, ancora una volta, sono i Vangeli, che narrano di come Giovanni, giunto là dove Gesù doveva essere e non era più, «vide e credette». Come mai? Non poche traduzioni recenti affermano che i due discepoli (Giovanni e Pietro), giunti al sepolcro, scrutando all’interno videro «i teli ancora là, e il sudario, che era stato posto sul suo capo, non là con i teli, ma in disparte, ripiegato in un luogo». Tuttavia detta traduzione appare poco convincente dal momento che solleva un interrogativo: per quale ragione, vedendo delle bende funerarie ed un sudario ripiegato, Giovanni «vide e credette»? Non è affatto chiaro. A rendersene conto più di altri è stato un sacerdote, don Antonio Persili, che ha scelto di andare a fondo alla questione mettendosi ad analizzare le fonti originali: i Vangeli scritti in greco.

Ecco le sue conclusioni: «Nell’originale greco è scritto che Pietro, entrando nel sepolcro, vide tà othónia keímena […] la versione della Cei traduce questa espressione con “i teli ancora là”. Altre versioni la traducono con “i teli per terra”. In realtà il verbo keîmai, da cui viene il participio keímena, non significa genericamente “essere lì” né tantomeno “stare per terra”. Esso indica una posizione precisa, significa giacere, essere disteso, in una posizione orizzontale. Ciò vuol dire che i due videro non le fasce a terra, ma le fasce distese, afflosciate, senza essere state sciolte o manomesse. Erano rimaste immobili al loro posto. Probabilmente in una nicchia scavata nella parete, tipica dell’architettura funeraria di tipo signorile, in cui era stato posto il corpo di Gesù. Semplicemente, ora quel corpo non c’era più, e le tele si erano afflosciate su se stesse» [23].

Anche la descrizione della posizione del sudario – che secondo traduzioni recenti era «non là con i teli, ma in disparte, piegato in un luogo» – ha convinto poco don Antonio: «Keímenon, come già keímena, è participio di keîmai, giacere. Ou metà tôn othoníon keímenon significa che il sudario non era disteso come le altre bende. Ma, al contrario (così va tradotto l’avverbio khorìs, in senso modale), appariva arrotolato (entetyligménon, dal verbo entylísso, che significa avvolgere, arrotolare) in una posizione unica, singolare. Così si può tradurre eis héna tópon, che le versioni correnti traducono banalmente come “in un luogo”. Significa che il sudario, a differenza delle fasce distese, appariva sollevato, in maniera quasi innaturale, forse perché su di esso i profumi avevano avuto un effetto inamidante» [24].

Precisazioni, queste, tutt’altro che secondarie. Perché se davvero all’interno del sepolcro c’erano «fasce distese, afflosciate, senza essere state sciolte o manomesse» ed il sudario, a differenza di queste, «appariva sollevato, in maniera quasi innaturale», si può ben comprendere – eccome! – perché Giovanni «vide e credette»: vide l’ultima cosa che si aspettava di vedere, la più incredibile, la più impressionante. Tuttavia lo scopo della nostra piccola indagine era e rimane un altro; e verte su un interrogativo: perché dovrebbe essere “credibile” – ancorché non provabile, ovviamente – la risurrezione di Gesù?

Il dubbio e la grande possibilità

Abbiamo visto come l’ipotesi delle ricostruzioni evangeliche come narrazioni propagandistiche regga poco, prima che alla storia, alla logica: troppe cose non tornano – dalla risurrezione “non vista” da alcuno all’arrivo delle donne al sepolcro, dalla cronaca asciutta alla narrazione di apostoli pavidi al punto da lasciare Gesù solo dall’arresto fino al Calvario [25]  – se gli autori di quei testi erano davvero uomini decisi a divulgare il falso. Anche perché – come nota Sanders – nonostante una lettura critica dei Vangeli porti, dopo la risurrezione, a registrare «storie fortemente divergenti su dove e a chi Gesù apparve», una cosa appare certa: «i suoi seguaci erano sicuri del fatto che Gesù era risorto dalla morte» [26]. In altre parole nessuno nega, dopo il ritrovamento del sepolcro vuoto, la varietà delle esperienze [27] – fino a quel momento coincidenti – vissute da apostoli e discepoli, ma è altrettanto evidente, fra costoro, la comune consapevolezza, anzi la certezza, dell’avvenuta risurrezione.

Donde si originarono quella sicurezza e quella determinazione? Gli apostoli furono veramente – come descrisse allusivamente Petronio nel suo Satyricon – dei poveri creduloni che presero sul serio la risurrezione di un cadavere in realtà trafugato e sostituito, combinazione proprio il terzo giorno, con una persona viva, oppure «videro e credettero», e quindi ebbero riscontri concreti del Gesù Risorto? A giudicare da ciò che da dopo Pasqua fecero della loro vita, dedicandosi alla predicazione incuranti pure del martirio, non ci sono dubbi: erano proprio «sicuri del fatto che Gesù era risorto dalla morte», e di lì a qualche tempo lo scrissero – come abbiamo visto – correndo ben due rischi: quello di essere smentiti da persone e testimoni di quei fatti a quel tempo ancora in vita (l’ultimo Vangelo, quello di Giovanni, è stato redatto sicuramente entro il 90 d.C.), e quello di essere accusati di una narrazione contraddittoria e poco credibile.

Eppure loro, che avevano frequentato a lungo Gesù senza però mai fidarsi fino in fondo di Lui – Pietro lo rinnegò non una ma addirittura tre volte a poche ore dalla crocifissione! -, ad un certo punto, trasformati da una nuova consapevolezza, decisero di spendere quel che rimaneva loro da vivere per annunciare il Risorto. Allucinazione di massa oppure incontro con una realtà talmente grande da dover essere proclamata a tutti i costi? Il nostro percorso si chiude qui: si aprì con una domanda  – la risurrezione è una favola oppure no? – e con una domanda, inevitabilmente, si conclude. Una domanda che non ha naturalmente lo scopo di convincere nessuno, bensì di sollevare un dubbio, per quanto imponente, in fondo assai ragionevole. Il dubbio, cioè, che in quella remota mattina d’aprile, in effetti, qualcosa di straordinario possa essere accaduto. Qualcosa che cambiò totalmente la vita di chi allora c’era e che, a ben vedere, ancora oggi può cambiare quella di ciascuno. Perché se quel sepolcro era vuoto, lo dicevamo all’inizio, il Cristianesimo non è più una religione fra le altre; se quel sepolcro era vuoto, è tutto vero.

Bibliografia

Note: [1] Pascal B. Pensées (trad.it Pensieri, Newton Compton, Roma 1993, p. 92); [2] Cfr. Martini C.M. Il problema storico della risurrezione negli studi recenti, Università Gregoriana Editrice, Roma 1980, p. 15; [3] Dostoevskij F.M., I demoni; Taccuini per “I demoni”, Sansoni, Firenze 1958, p. 1011; [4] I Corinzi 15:17; [5] Biffi I., Verità cristiane nella nebbia della fede, Jaca Book, Milano 2005, pp. 33-34 [6] Cfr. Congar Y.-M.-J. cit. in Messori V. Vivaio, «Avvenire», 28/9/1989, p. 13; [7] Cfr. Guardini R. Le cose ultime, Vita & Pensiero, Milano 1997, p. 78; [8] Biffi G. cit. in AA.VV. Verrà a giudicare i vivi e i morti, «Communio», n.79, 1985, p. 101; [9] Cfr. Biffi I. op.cit. p. 44; [10] DV, 19; [11] Cfr. Dunn J.D.G. Christianity in the Making, vol. I, Jesus Rembered, Eerdemans, Grand Rapids 2003, p. 148; [12] Cfr. AA.VV. Vangelo e storicità, (a cura di Stefano Alberto), BUR Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1995, p. 38; [13] Cfr. Lüdemann et alii, Fand die Auferstehung wirklich statt? Eine Diskussion mit Gerd Lüdemann, Düssedorf-Bonn, 1995; [14] Dall’intervista di Baudino M., Piergiorgio Odifreddi: “Fieri di non credere”, «La Stampa», 1/3/2007, p. 42; [15] Ronchi E. (a cura di), I racconti di Pasqua, San Paolo, Milano 2008, 40; [16] Socci A. Indagine su Gesù, Rizzoli, Milano 2008, p. 262; [17]  Cfr. Ardusso F. La fede provata, Effatà Editrice, Cantalupa (To) 2006, p. 166; [18] Cfr. Sangalli R. E il sole si oscurò, l’ultima ora di Gesù, 19/3/2011 – I Vangeli e l’ultima cena, 5/3/2011, «La Bussola Quotidiana»; [19] Messori V., Dicono che è risorto. Un’indagine sul Sepolcro vuoto, Sei, Torino 2000, p. 41; [20] Schnackenburg R. Vangelo secondo Marco, Città Nuova Editrice, Roma 1973, p. 446; [21] Giovanni, 20:2 [22] Stancati S.T., Escatologia, morte e risurrezione, Editrice Domenicana Italiana, Napoli 2006, p. 225; [23] I primi indizi della resurrezione. Intervista di Gianni Valente, 30 Giorni, anno XIX, febbraio 2001, p. 36s; [24] Ibidem; [25] Cfr. Socci A. Indagine su Gesù, p. 267; [26] Sanders E.P., Gesù. La verità storica, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1995, pp. 281-283; [27] Cfr. Gronchi M. –  Muya J.L. Gesù di Nazaret, un personaggio storico, Paoline, Milano 2005 p. 218.

https://giulianoguzzo.com/2017/04/13/gesu-e-davvero-risorto/

 

08 dicembre 2016

La Dolce e Vergine Maria: la Salvezza nell'Immacolata Concezione!



di Alfredo Incollingo

L'8 dicembre 1854 papa Pio IX proclamò il dogma dell'Immacolata Concezione con la bolla Ineffabilis Deus. Si racconta che un fascio di luce solare penetrò il cielo plumbeo e avvolse completamente il pontefice che si affacciava su Piazza San Pietro dal balcone centrale della basilica. Pio IX pianse di gioia perché sapeva che quel fenomeno naturale non era casuale: in quel modo la Vergine e Immacolata Maria lo benediva con la sua luce divina. Quel cielo plumbeo preannunciava i tempi difficili che la Chiesa Cattolica avrebbe dovuto sopportare, ma quel fascio luminoso rammentava agli uomini e al papa che Lei non ci avrebbe mai abbandonati alla disperazione. Così fu e a Lourdes (1858) apparve a Bernadette affidandole il suo messaggio di pace e di misericordia e chiedendo in cambio la conversione dell'umanità. Gli uomini recepirono il messaggio mariano e invocarono Maria nei momenti più bui della storia umana, come in Russia e nel Messico.
Maria era nata da Sant'Anna e San Gioacchino senza peccato perché era stata predestinata a concepire il Figlio di Dio. Duns Scoto lo aveva capito, dopo secoli di dibattito esegetico e teologico per comprendere questa verità di fede, sempre sostenuta dal popolo fedele. L'8 dicembre non è una ricorrenza casuale, ma ha per il cattolico un alto valore sacrale: non si potrebbe mai comprendere la nascita di Gesù il 25 dicembre senza contemplare la purezza della Vergine Maria.
Dio aveva scelto di incarnarsi per salvare i Suoi figli, assumendo la natura umana, ovvero il concepimento uterino: il Signore non poteva generare il Figlio nel peccato originale e quindi a Lei fu riservato di partecipare alla purezza divina. L'Incarnazione nel seno della Vergine Maria ha riscattato la donna e l'umanità tutta dalla colpa di Eva e dei nostri progenitori: badiamo bene non solo dal peccato originale, ma anche dalla cattiva nomea che il genere femminile ha nella tradizione ebraica. La donna è impura, durante il ciclo mestruale, per esempio; con Cristo e con Maria la donna è riabilitata e diviene partecipe della Salvezza. La donna, come l'uomo, ha la missione di educare i figli alla fede cristiana, come Maria e Giuseppe allevarono il Figlio di Dio. La maternità, da fattore marginale, divenne il fulcro della comunità cristiana: la famiglia, che provvede a questo compito, è il pilastro naturale di una società sana e forte. La donna partecipa in questo modo alla Salvezza, come moglie, madre o consacrata a Dio: non è inferiore, ma gode della stessa dignità dell'uomo e a lei è affidato il compito di educare la prole e di gestire la famiglia; questo vuol dire che ha una responsabilità maggiore nella formazione delle future generazioni. Mentre San Giuseppe provvedeva materialmente al sostentamento della Sacra Famiglia, Maria accudiva un figlio tanto speciale. Chi vuole conoscere la maternità non può non contemplare un dipinto della Madonna con il Bambino o recitare un Rosario: solo così sarà possibile rendersi partecipi delle sue virtù e della sue qualità. Misericordia, amore, carità e fede sono i doni che la Madonna ci regala ammirandola: un cammino di perfezione morale non può non condurre e partire da Maria.
Siamo grati a Lei per aver concepito Gesù e per averlo cresciuto; Gli è rimasta accanto fino alla Crocifissione, mostrandosi come madre e donna fedele, tenace e compassionevole. L'8 dicembre, in preparazione del Santo Natale, andiamo in chiesa e lasciamo stare per un attimo i nostri impegni. Recitiamo un Rosario o qualche Ave Maria: rendiamo grazie a Maria che, senza saperlo spesso, ci assiste dal Cielo, perché Lei è Madre nostra!

 

25 settembre 2016

Viaggio sentimentale e devozionale a Roma: Santo Stefano, Gesù e Mitra (Parte XI)


di Alfredo Incollingo

E' vero che Gesù è in realtà il dio orientale Mitra? Così vocifera la piazza, o meglio coloro che, per partito preso, negano a tutti i costi l'originalità umana e divina di Cristo. Ci devono per forza essere rimandi che possano spiegare in alternativa la personalità del Messia: troppo difficile e onesto riconoscere chi Egli è veramente.

Non è mia intenzione trattare in maniera organica il problema, essendo una questione già affrontata da storici e studiosi di religione di rilievo. Citare questo nodo cruciale degli studi di religione è d'obbligo se parliamo di Santo Stefano Rotondo, sul Celio, nei pressi dell'Anfiteatro Flavio, chiamato volgarmente Colosseo. E' una chiesa particolare, di pianta circolare, con l'altare al centro dell'edificio e i fedeli disposti di fronte al sacerdote che celebra l'Eucarestia. Solo Sant'Agnese fuori le Mura, sulla via Nomentana, potrebbe rivaleggiare per struttura e nomea con questo luogo di culto.

La sua storia inizia nel V secolo d.c. quando l'Urbe si stava progressivamente convertendo al Vangelo e stava abbandonando i vecchi culti, ormai atrofizzati. Non deve meravigliare se la chiesa venne costruita al di sopra di un altro luogo sacro, un mitreo del II secolo d.c. I romani erano soliti costruire edifici religiosi ex novo su strutture precedenti per rifondare nel sacro quelle aree. Da allora Santo Stefano Rotondo, che ricorda nel nome la pianta circolare, ha subito diverse evoluzioni strutturali e artistici soprattutto nel XVI secolo, in pieno Rinascimento.

Chi era Mitra? Era una divinità indiana che giunse a Roma tramite la Persia e il mondo ellenistico. I romani, onde porre rimedio al caos sacro inaugurato con la conquista del mondo (all'epoca) conosciuto, erano soliti accogliere nel loro pantheon (l'attributo “divino” è inutile, visto che “pantheon” indica di per sé l'insieme degli dei pagani) divinità straniere sia per propiziarsi la fedeltà di quei popoli sia per invocare la protezione di quelle divinità su Roma (e non per un qualsiasi moderno principio di uguaglianza e di laicità, come si crede comunemente). Superstiziosi com'erano i romani, nulla si lasciava al caso, specie in materia religiosa. Il mitraismo si diffuse rapidamente a Roma, conquistando anche molti imperatori che la resero la religione ufficiale dell'impero.

I punti affrontati nel continuo rapporto tra Mitra e Cristo riguardano il giorno di nascita, i culti e i riti per celebrarli. A quanto pare i sostenitori della somiglianza tra il dio e Dio sembrano vedere quasi esclusivamente le possibili similitudini e mai le differenze, senza considerare le numerose lacune che si hanno sul mitraismo. Il noto studioso neotestamentario B. Ehrman ricorda come la maggioranza delle congetture fatte su Mitra e Gesù sono frutto di ipotesi, prive di riscontro, anche perché del culto di Mitra abbiamo pochissime notizie certe. A differenza dei cristiani, i seguaci di Mitra non lasciarono testi scritti soprattutto perché era un culto misterico e iniziatico: la conoscenza religiosa non doveva uscire al di fuori del mitreo.

Cristo, non dimentichiamolo, è morto in Croce per espiare i peccati dei suoi figli. Mitra fece lo stesso? O lo fecero gli altri dei pagani? L'idea della remissione dei peccati con la morte e resurrezione di Dio è un pilastro solido della cristianità, che nessuno può scalfire.
Quando andiamo a Santo Stefano Rotondo per pregare e per visitare la chiesa o il mitreo e gli altri ambienti sotterranei, ricordiamoci che ancora oggi si cerca di denigrare Gesù negando (con disonestà) la Sua originalità e il Suo amore per noi.
Il viaggio continua.

 

02 luglio 2016

San Gaspare e il preziosissimo Sangue di Gesù

di Roberto de Albentiis
In molti calendari antichi era possibile trovare alla data del primo luglio, l’indicazione della Solennità del Preziosissimo Sangue; ovviamente abolita nella Chiesa post-conciliare (si voleva “alleggerire” e “semplificare” il calendario, con il risultato di renderlo freddo e sterile e di aver cancellato tante belle feste), tale festa, istituita per la prima volta nel XIX secolo ma con un’antica storia secolare di devozione e predicazione dietro, è comunque rimasta nell’animo e nel cuore dei fedeli, e non solo di quelli anziani e tradizionalisti.

Al termine del mese del Sacro Cuore, proprio nel pieno dell’estate, quando la vita religiosa generalmente si infiacchisce, ecco che la Chiesa ci ricorda immediatamente quanto è costata, a Nostro Signore, la nostra salvezza: il Suo Prezioso Sangue, versato da subito, con la Circoncisione (altra festa abolita, tra l’altro, con lo sgomento perfino degli Ebrei!), e poi, nel Gestemani, nel Pretorio, nel Golgotha, con la Passione, e ancora, ogni giorno, simbolicamente, nella Confessione e, realmente, nella celebrazione della Santa Messa, che è la ripetizione incruenta del medesimo sacrificio di più di 2000 anni fa; tutto il mese di luglio, non solo il primo giorno e la prima Domenica, in cui si celebra specialmente, è dedicato al Preziosissimo Sangue, e sempre nel mese di luglio, al giorno 15, si celebra Nostro Signore sotto il magnifico titolo di Redentore, a ricordare che la magnificenza della Regalità non è disgiunta dalla sofferenza della Passione!

Vari santi furono devoti e predicatori del Preziosissimo Sangue (tra i tanti basti ricordare Santa Caterina da Siena, Santa Brigida di Svezia, San Paolo della Croce, San Francesco Saverio Maria Bianchi, San Giovanni XXIII), ma il più noto e amato tra essi è senza dubbio il romano San Gaspare del Bufalo: questo piccolo pretino, vissuto tra Settecento e Ottocento e morto prematuramente, percorse tutta l’Italia, partendo dal Lazio e spingendosi ora fino in Emilia Romagna e ora fino alla Campania, infiammando le anime e le piazze di fedeli con la sua predicazione sulle sofferenze del Redentore, il Sangue a Lui costato, la Sua infinita Divina Misericordia.

Ai mali portati dall’illuminismo e dalla Rivoluzione francese, San Gaspare contrappose l’Amore di Dio, arrivato fino a inviare il Figlio sulla terra, fino a farLo sacrificare, fino all’ultima goccia di Sangue, sulla Croce; del resto, tolte dalle chiese e dai palazzi le croci, veri alberi della Salvezza, i rivoluzionari issarono altri alberi, gli Alberi della Libertà, ma a cosa portarono, se non al Terrore, alla violenza giacobina, alla ghigliottina che decapitava senza sosta, alla guerra in tutta Europa? Ed ecco, quindi, che il rimedio alla violenza del Terrore così come alla durezza della Restaurazione non poteva che essere uno: il Preziosissimo Sangue, pegno di Amore e Misericordia!

Il Preziosissimo Sangue non può, come scritto all’inizio, non essere collegato al Sacratissimo Cuore di Gesù e alla Divina Eucaristia: il mese di luglio segue immediatamente il mese di giugno, e al mese di luglio segue agosto, mese dedicato al Santissimo Sacramento; il Sacro Cuore di Gesù è pieno di Sangue, è un Cuore Eucaristico, da Esso escono Sangue e Acqua, simboli della Divina Misericordia come rivelata da Santa Faustina Kowalska. E, ancora, Sacro Cuore, Santissimo Sacramento e Preziosissimo Sangue stanno insieme nell’inno “Anima Christi” e nelle Laudes Divinae (“Dio sia benedetto, benedetto il Suo Santo Nome…”), non si possono separare, non si può separare la natura divina e misericordiosa di Cristo dai segni visibili e fisici di questa natura, il Cuore e il Sangue.

Il miglior modo di essere devoti del Preziosissimo Sangue è meditare le sofferenze del Signore davanti al Crocifisso ma, soprattutto, adorarLo nella Santa Messa: e, per fare ciò, per cibarci delle carni dell’Agnello nella Santa Cena e nella Divina Liturgia, non possiamo che essere mondi e senza peccato, grazie alla meditazione della Divina Misericordia e al sacramento della Confessione. Nelle apparizioni del Sacro Cuore e della Divina Misericordia Cristo ha chiesto, tramite le Sue sante serve Margherita Maria e Faustina, la Confessione e la riparazione assieme alla Comunione; saremmo noi sordi a questo richiamo?

Per poter partecipare ai frutti della Redenzione e alle Promesse di Gesù non possiamo che essere, tramite Lui, in stato di grazia, e sempre più, grazie alla Confessione e alla Comunione, potremo avere parte, un giorno, alla vita eterna! Cristo ha versato per noi tutto il Suo Sangue sul Calvario, in maniera cruenta e dolorosa (e continua a farlo, in maniera incruenta ma a prezzo spesso di freddezze e indifferenze, nel santo sacrificio della Messa); non poteva versarne una sola goccia, che sarebbe stato sufficiente? Non poteva, anzi, trovare un modo più rapido, indolore, magari anche maestoso e potente, per salvarci? Certo che poteva, ma sarebbe stato dispiaciuto e disgustato della nostra mancanza di fede e sapienza (per citare Sant’Agostino), e non avrebbe dato prova tangibile del Suo immenso amore per noi: bastava una sola goccia, è vero, ma ha voluto donarLo tutto, ha voluto donarSi tutto, senza risparmiarsi!

A tutti i lettori, buon mese del Preziosissimo Sangue, sperando che possiate iniziare, riprendendola se ne siete pratici o incominciandola in caso contrario, questa bella devozione, e sperando che, tramite essa e per grazia e amore di Dio, un giorno, potremo trovarci tutti insieme, in cielo, ai piedi dell’Agnello degno di lode che ha versato il Suo Sangue per noi!
 

28 giugno 2016

Ciao Bud, ora insegna agli angeli come scazzottarsi


di Alessandro Rico

Da quarant’anni a questa parte, il volto, le espressioni, la stazza, le battute e i cazzotti di Bud Spencer fanno parte dei ricordi d’infanzia (e dei momenti di evasione in età matura) dei tanti, italiani e stranieri (soprattutto tedeschi), che lo hanno amato. Senza esagerazioni retoriche, crediamo di poter dire che con lui se ne va un pezzo di noi. O forse Bud ci è ora più vicino, se è vero quel che ci promette la nostra fede, la fede che questo gigante buono, uomo vulcanico ed eclettico, di recente aveva raccontato in modo stupendo: «Credo in Dio, è ciò che mi salva. E prego. Perché? Perché riconosco in modo sempre più forte come sia nulla ciò a cui prima attribuivo un grande valore. Lo sport, dove volevo affermarmi, la popolarità. Chi si inorgoglisce per queste cose, chi insegue solo il successo, la fama, è un idiota». Con parole semplici e sincere, Bud Spencer è riuscito a spiegare che cos’è la Sapienza: «Vanità delle vanità, tutto è vanità» (Qo 1, 2), fumo negli occhi. Solo Gesù salva. Chi va dietro al mondo è come la volpe, che magari sa tante cose e si crede furba, mentre chi cerca il tesoro che «né tignola né ruggine consumano» (Mt 6, 20), è come il riccio, che sa una sola cosa, ma grande.
Quante altre generazioni rideranno a crepapelle per quelle scene leggendarie! Il coro dei pompieri, quando Bud e Terence venivano tallonati da un serial killer maldestro; la cena tra abiti kitsch e fiumi di whiskey in “I due superpiedi quasi piatti” («vai Galina, razzola!»); il naufragio nel Pacifico con la barca della marmellata Puffin («solo Puffin ti darà forza e grinta e volontà»). E ancora, la Dune Buggy, birra e salsicce, le frittate con dodici uova e le padellate di fagioli. Non basterebbero dieci pagine per rievocare tutti i momenti più divertenti. Scorrendo nel pensiero questi frammenti di cinema, scende giù una lacrima di malinconia: come quando parte per sempre un pezzo di cuore, o cala il sipario su un’età della vita. Come se ad andarsene fosse stato il nonno di tutti.
La vita di Bud Spencer, al secolo Carlo Pedersoli, è stata straordinaria. Nato a Napoli nel 1929, campione e recordman di nuoto, per anni visse e lavorò in Sud America facendo praticamente di tutto (altro che la generazione Erasmus). Iniziò la carriera di attore per caso, per caso costruì con Mario Girotti una delle coppie cinematografiche più riuscite. I due si costruirono un profilo internazionale recitando in inglese (in italiano furono doppiati da Glauco Onorato, Pino Locchi e Michele Gammino) e coniando dei nomi d’arte: uno perché amava la birra Bud e Spencer Tracey, l’altro perché leggeva Terenzio e per via delle iniziali della mamma, Hildegard Thieme, oriunda di Dresda. Bud Spencer amava definirsi un dilettante, capace di fare alla buona un po’ di tutto, dall’operaio al musicista (addirittura, sul set di un film s’improvvisò pilota d’aereo, seminando il panico nella troupe). Ci teneva a ribadire che i film girati con l’amico Terence facevano ridere senza mai diventare volgari e che trasmettevano sempre un messaggio di giustizia: stare dalla parte degli oppressi con poche chiacchiere, tanto cuore e qualche pugno – memorabile la scena di “Porgi l’altra guancia” in cui il missionario Bud rimprovera col motto evangelico il confratello Terence, che aveva percosso uno sgherro. Poi il cattivo tenta di colpire di nuovo, ma Terence schiva il cazzotto, che centra Bud, il quale ricambia con un pauroso manrovescio. «Ma tu adesso perché l’hai colpito?», reclama Terence. E lui: «Perché ha sbagliato guancia». Bud Spencer è entrato così, per decenni, nelle nostre case: con buonumore e spensieratezza, con la tempistica comica del perfetto caratterista (peraltro capace di interpretare ruoli ben più impegnativi), ma anche con il vivido senso della differenza tra bene e male (sebbene i cattivi spesso ispirassero tenerezza, tra denti sputati e nasi rotti). La sua filosofia di vita, dichiarava, era il “futtetenne”, titolo di una canzone da lui composta: accettare con pazienza difficoltà e amarezze, conservando il senso del mistero. «Non temo la morte. […] Da cattolico, provo curiosità, piuttosto: la curiosità di sbirciare oltre, come il ragazzino che smonta il giocattolo per vedere come funziona. Naturalmente è una curiosità che non ho alcuna fretta di soddisfare, ma non vivo nell'attesa e nel timore».
In effetti, l’esempio più fulgido, l’attore napoletano lo ha regalato alla fine. Prima di spirare, ai familiari che lo circondavano al capezzale ha detto: «Grazie». E la sua gratitudine l’ha espressa decine di volte al pubblico che lo adorava e al quale sosteneva di dovere tutto. Quest’omone che tanto ha dato, si è congedato ringraziando per quello che ha avuto. E noi siamo sicuri che, alle porte del Paradiso, il buon Pietro non abbia avuto proprio il coraggio di lasciarlo fuori. Si sarà ricordato di quella scena in cui Bud e Terence bussano al club del cattivo di turno. «Apri», intimano allo scagnozzo, che li schernisce: «Perché? Altrimenti v’arrabbiate?». Ma loro: «Siamo già arrabbiati».
Ora Bud sa se anche gli angeli mangiano fagioli. E di Trinità finalmente vede quella vera.

 

22 febbraio 2016

AD La Bibbia Continua. Commenti a caldo

di Francesco Filipazzi

E' finita da pochi minuti la prima puntata di “A.D. La Bibbia Continua” su Canale 5, che parla degli avvenimenti successivi la Morte e la Resurrezione di Gesù e nelle puntate successive delle vicende riguardanti gli Atti degli Apostoli. Il commento che segue è a caldo.

La serie in sé non appare blasfema, ed è già molto, abituati come siamo a produzioni spesso offensive che nulla c'entrano con la Bibbia. Gli avvenimenti narrati sono però pressoché inventati, a parte i momenti principali come Morte, Resurrezione, incredulità di Tommaso, Ascensione e Pentecoste. La storia mostra per tutto il tempo le vicende politiche che intercorrono fra Ponzio Pilato e il Sinedrio, lo scontro fra occupanti e occupati e la loro continua crisi di nervi per la paura che incute nei loro cuori il Nazareno, del quale non capiscono la natura e che cercano quindi di combattere.

Alcuni particolari meritano però una certa attenzione. Gli eventi relativi a Gesù sono giustamente mostrati come eventi sovrannaturali. Non si cerca quindi di razionalizzare la Resurrezione o la discesa dello Spirito Santo ma, qui sta la pecca, questi avvenimenti vengono eccessivamente spettacolarizzati. Il che per qualcuno può non essere rilevante, ma se pensiamo alla narrazione evangelica, che è scarna e didascalica, potremmo trovarci un po' a disagio. In Atti 1, 9 si dice, a proposito dell'Ascensione “Detto questo fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo”. Il film invece mostra uno scenario piuttosto pittoresco, così come nella altre situazioni, il che potrebbe generare nel telespettatore l'idea di trovarsi di fronte a un racconto fantasioso, mentre invece ciò che si narra è avvenuto veramente e senza effetti speciali. Gesù non era infatti un mago ma Dio.

C'è poi il personaggio di Ponzio Pilato che lascia perplessi, nonostante sia uno dei motori della vicenda. Il governatore romano viene mostrato come un despota assetato di sangue, caratteristiche che nei Vangeli non traspaiono e, anzi, in Giovanni si può leggere che provò a mettere in libertà Gesù, perché non voleva condannare un innocente. La raffigurazione di AD è quindi piuttosto audace e non tiene conto delle dispute del passato riguardo addirittura la possibile santità di Pilato.

Per il resto, possiamo dire che l'idea di fondo non è malvagia. E' apprezzabile da parte di Canale 5 l'iniziativa di far vedere al pubblico, nelle domeniche di Quaresima, dei film che hanno un'attinenza con la vicenda di Gesù e degli Apostoli, dopo anni di sostanziale indifferenza o, peggio, di film decisamente cretini che raccontavano solo idiozie riguardo la nostra fede. Dunque, la visione non è sconsigliata, ma neanche consigliata. Lasciamo libertà di coscienza, visto che va di moda.
 

23 dicembre 2015

Un campari con... Paola Belletti


a cura di Alessio Calò

Abbiamo incontrato Paola Belletti a Trento, dopo la prima presentazione ufficiale del suo libro d'esordio, “Osservazioni di una mamma qualunque”, primo volume della nuova collana UOMOVIVO, disponibile in formato cartaceo e digitale presso la libreria online di Berica editrice.
Paola, di formazione filosofa, si occupa di risorse umane (termine che vorrebbe abolire) e – soprattutto – è mamma di 4 figli, 3 femmine e un maschio (Ludovico, l'ultimogenito, gravemente malato). Più due non nati.

Nella prefazione al libro Costanza Miriano scrive che “questo è uno dei libri che ridi e piangi leggendoli, i miei preferiti”. Ti ci ritrovi?
Sono molto grata a Costanza. Si è spesa moltissimo per me. Siamo amiche. E quello che dice di me, della mia scrittura e del libro, se non sconfiniamo nel patologico, direi che è un bellissimo complimento.
Perché la vita è gioia e dolore. Fatica, leggerezza, dramma. Tutto insomma. Ed essendo per ora almeno la mia scrittura al servizio della mia personale esperienza di moglie, mamma, figlia (di Dio) c’è dentro un po’ tutto.
Leggendo Costanza ho riso e pensato moltissimo... e allora mi è venuto il sospetto che dietro questa grande leggerezza e autoironia, insieme alla profondità e alla ricchezza di pensiero, ci fosse anche la sofferenza. Forse perché proietto. Ho imparato a ridere, a ironizzare, a cercare il lato comico anche nella situazione impegnativa che viviamo in famiglia. Mi aiuta, credo.

Avevi già avuto qualche precedente esperienza come scrittrice (a parte La Croce, nostro quotidiano di riferimento)?
Prima del libro e de La Croce c’era già il blog: “vivo, penso, scrivo, posto” è il motto. Anche se ultimamente vorrei cambiarlo con: “mi affanno, corro, inciampo e cado”.
È nato a metà tra il personale e il professionale. Sono libero professionista, mi occupavo soprattutto di formazione e in parte di consulenza. Allora ragionando su tematiche che mi appassionano molto ho pensato di farlo per iscritto. Cos’è comunicare. Il linguaggio. Il mito un po’ opprimente di Steve Jobs; la soggettività e l’oggettività; cosa ci attira quando andiamo a fare shopping. E qui più che un blog si potrebbero aprire forum, portali verticali, eventi, wikipedie monotematiche e infinite gallery di immagini.
Comunque per un po’ i termini più ricercati su google che portavano le persone su questa zattera digitale vagante per il gran mare del web erano cose tipo “il fondotinta sul sedile della macchina”; “truccarsi in auto” o “il cliente ha sempre ragione”.
Ora spero che mi cerchino soprattutto con i tag della collana UOMOVIVO della Berica editrice: Vita (di coppia), umorismo, Dio.

Perché scrivi? Sfogo, impegno sociale, training autogeno?
Dunque vediamo. Scrivo un po’ per rileggermi… perché scrivere costringe a mettere ordine tra le forze che si agitano dentro. Costringe a dire con le parole, fino dove è dicibile, i gemiti interiori. Per dare loro ordine, per dire cosa viene prima e cosa dopo. Cosa è più degno o meno degno di essere scritto. Questo soprattutto di fronte alla domanda lacerante del dolore, nella malattia di un figlio.
E per rivolgermi a Dio. Per essere ascoltata e compresa, da Dio e dagli altri. Non tutti, ma qualcuno almeno!
Poi ho imparato che può anche essere un servizio. Mario (Adinolfi, direttore de La Croce che mi ha chiesto di scrivere per la pagina 4 dopo aver letto alcuni miei post) mi ha detto, di fronte alle mie titubanze per il timore di strumentalizzare o esporre troppo e senza difese la vita non solo mia ma dei miei figli piccoli: “scrivi, ti farà e farai molto bene”.
Ci sono stati anche molti momenti in cui avrei chiesto a chiunque, anche al lavavetri al semaforo, anche alla cassiera, a chiunque! se potesse ascoltarmi e capirmi e anche dirmi cosa dovevo fare. Scrivevo un po’ a tutti. Quando qualcuno non mi rispondeva o smetteva di rispondermi mi rendevo conto che stavo rischiando di sembrare una stalker.

Com'è nato il libro?
Perché Giuseppe (Signorin) me lo ha chiesto.
Per la verità prima mi ha chiesto, ed era serio, se avessi già un editore. Wow! Considerava la mia scrittura possibile oggetto di interesse di qualche editore! Sempre grazie a Costanza in effetti c’era già un potenziale editore ma con tutti gli impegni legati alla cura della famiglia mi era impossibile mettere mano ad un progetto nuovo e così impegnativo, almeno a me pareva così.
La proposta di Giuseppe invece era una cosa fattibile a partire dalla mie condizioni: pochissimo tempo a disposizione e quindi per ora la quasi impossibilità di concepire e scrivere un libro nuovo da capo. A lui interessava raccogliere brani scelti che avevo già scritto! Fantastico. Proviamo allora…
Il libro è composto da brani autobiografici, molto differenti sia perché alcuni sono stati scritti quando ancora non erano successe molte cose sia perché la persona, io come voi, è una ma complessa e la vita ha tante manifestazioni. Perché nella vita ci sono tutti i colori, tutte le tinte. Non so se questo è un modo carino per dire che sono un gran guazzabuglio… Perché attraversare una grande prova non significa essere sempre costantemente presi da stati d’animo tristi, in balia dell’angoscia. Ci sono momenti diversi e diverse forze che agiscono.
Penso anche a Sabrina Pietrangeli Paluzzi che ho intervistato per La Croce. Ha una storia forte, con una grande prova che lei ha permesso la cambiasse; con una grande e vivida fede. Con una associazione fatta per aiutare mamme in gravi sofferenze, ecco lei è anche una youtuber e consulente di bellezza. Essere cristiani è bello. È tutto. Tiene dentro tutto.
E poi c’è il tempo che passa.
La reazione alla prima notizia della gravità della situazione di Ludovico era di un tipo, anche psicologicamente qualificabile. Shock. Trauma. Quindi per molti aspetti abbiamo vissuto uno stress post traumatico, normale, naturale.
E ad aggravare la durezza della situazione si aggiunga il fatto che anche tutti quelli che sono intorno e sono legati a noi subiscono uno shock e spesso, esattamente come te che ne sei colpito più direttamente, hanno bisogno di tempo, di capire, di accettare, di farsi e fare domande. E a chi le fanno, spesso, se non proprio a chi ne è più direttamente colpito?
Ma quindi Ludo che malattia ha? Quando vi dicono come starà? Camminerà? Ci vedrà? Perché non sapete niente di preciso? Che cure bisogna fare? Se fossi in voi io farei, direi, non esiste proprio, non è possibile ecc..
E a seguire, senza soluzione di continuità, catene non interrotte di consigli. Senti la dottoressa Tizia. Chiama il nostro amico Caio. Un mio cugino aveva un figlio con una cosa simile (come fosse possibile stabilirlo non è dato sapere), ti lascio il numero. Anche nel parcheggio della scuola mi è capitato: senta signora, perché non chiama il dottor Scapaccioni? I fiori di Bach? Agopuntura? Dieta pinco pallino? Tante cose, non tutte, erano ragionevoli. Alcune utili. Altre, per me, staffilate al cuore.
Ma più di tutto mi colpisce una cosa: di fronte al dolore, alla malattia grave soprattutto di un innocente nessuno-salvo poche eccezioni- riesce a gestire l’ansia. Devo fare qualcosa perché la mamma faccia qualcosa e lui stia meglio. Devo, ora. Oppure la fuga.
Un altro aspetto che ho riscontrato e riscontro ancora è direttamente legato ad un costume delle nostre società libertarie, dei diritti individuali (di alcuni individui!). Al diritto di aborto. Che è un'assurdità non solo morale ma anche logica. Diritto di tutti ad abortire. Esclusi i nascituri. Per forza allora è necessario che i nascituri non siano qualificati come individui. E per forza allora serve una casta di “esperti” che sola possa pronunciarsi su cosa, non chi, ma cosa possa dirsi persona e cosa no. E in tanti abbiamo accettato questo furto. “Io non sono esperto, non posso sapere per bene quando inizia la vita. Mi attengo a quanto dicono gli esperti”. A partire da questa menzogna nascono diverse altre esperienze stranianti. L’ecografia morfologica servirebbe a “prevenire malformazioni”, mentre invece previene solo la nascita di persone forse affette dalla patologia x o y.
Comunque proprio per questo costume derivato da una legge voluta da minoranze aggressive che hanno influenzato tutta la società, per questo la domanda esplicita e aperta o fatta per allusioni che non mancava mai e ancora sento anche ora che Ludo ha due anni e mezzo è: lo avete scoperto dopo, vero? Ma questo lo dico in qualche brano.
Sono 33 in tutto. Li ha scelti Giuseppe. Io volevo inserirne anche altri. Invece ha fatto bene. Nei nostri scambi epistolari chiudeva sempre le email o le chat con “Viva el Senor!”

E il titolo (in particolar modo la qualunquità della mamma qualunque)?
È un compromesso tra me e lui. Io che gestavo da anni l’idea di mettere insieme i vari brani scritti qua e là, sulle note dell’ipad e poi sul pc e poi a volte salvati come memo audio se l’idea mi pareva azzeccata o scritti sul dorso della mano, volevo trovare un titolo che potesse contenerli e giustificarne la disomogeneità. Allora avevo pensato a “Diario di una cattolica qualunque”. Poi sono successe tante cose: ho aperto il blog, poi sono diventata amica di Costanza. Ho perso due bimbi prima che nascessero; poi è arrivato Ludo; e dopo un po’ di tempo ho sentito Mario Adinolfi raccontarci cosa ci stava succedendo sotto il naso con l’ideologia gender (Sua Eminenza il Cardinale Carlo Caffarra dice che è importantissimo chiamarla ideologia e non teoria perché la teoria cerca lo scontro con la realtà e ne accetta la verifica e la ratifica fino alla sua totale smentita, l’ ideologia invece vuole imporsi sulla realtà e non appoggiandosi sulla verità ha a disposizione solo l’irrisione e la violenza); ho mandato un commento ad un suo post dove si diceva scoraggiato (cosa rarissima!); gli ho detto che lo ringraziavo perché lottava anche per il nostro bambino. Si è commosso. In quel grande circo che è Facebook e in particolare la pagina di Mario che subisce di continuo attacchi, insulti e ingiurie, ho dovuto sentirmi anche dire che sì dai ero abbastanza rispettabile per aver deciso di far nascere questo figliolo ma poi avrei dovuto rispondere del mio egoismo. Farei una pausa di silenzio. Egoismo! Capite? Che ribaltamento della realtà.
Quando mio marito ha saputo che stava per nascere un nuovo quotidiano che sarebbe stato il braccio stampato di questa battaglia incruenta (quasi) mi ha detto che secondo lui avrei dovuto scrivere anch’io. Mario ha letto qualche mio post e mi ha intimato di scrivere tutti i giorni; il più possibile. “Va bene scrivi tutte le volte che puoi!” Quando a gennaio 2015 è partita la pazzia della Croce è stato bello partecipare ed essere parte di un’avventura coraggiosa e in parte dilettantistica (per alcuni redattori intendo non per il redattore capo né il direttore). Quando era cartacea era di una bellezza notevole! Ora resiste digitale. Ed è cresciuta anche come contributi. Sosteniamola!
Comunque tornando alla domanda: Giuseppe mi propone una rivisitazione di un titolo di Guareschi (troppo onore!) che era “Osservazioni di uno qualunque”, che non ho ancora letto. Chiedo venia.
E niente... ora siamo qua!

A chi consigli di leggere questo libro?
A chiunque. A patto che poi me lo racconti.
Credo possa piacere anche agli uomini. È un libro per la parità di genere. Scherzo.
È una cosa piccina ma sono ben contenta che qualcuno mi dica che ha trovato sollievo nel leggere il mio modo di leggere la nostra vita. Che mi ringrazi per avere riso, pianto magari riflettuto in modo nuovo sulla vita. Su un pezzo di esperienza sottovalutato o rimasto senza ipotesi di senso.

Qualcosa da aggiungere? Nel senso, fatti una domanda e datti una risposta...
Vorrei dire quello che il mio libro non è. Non è uno spot antiabortista. Non è una testimonianza almeno non è stata preventivata. È vita, raccontata, giudicata, esposta con tutti gli sforzi alla luce del sole, allo sguardo del Signore. Senza Gesù Cristo, senza la Chiesa, senza la potenza dei sacramenti e quella per me nuova della preghiera non potremmo vivere in pace, seppure con momenti diversi, questa nostra prova. Io e mio marito stiamo verificando che si può” tenere botta” anche di fronte a queste sberle. Non solo. Si vive, si vive! Non si sopravvive. Certo i primi tempi l’ angoscia, il dolore, la paura sono così forti che è già tanto resistere.
Si vive tutto. Ridiamo, forse più di prima. Ci preoccupiamo. Io soprattutto. Mio marito smista, filtra, butta! Se non avessi lui sarei del tutto in balia dei miei mutevoli stati d’animo e del modo così viscerale di amare i figli. Mio marito, altrimenti detto, il minimizzatore.
Sull’esperienza più forte ma non esclusiva che caratterizza questo giro di anni della mia vita e che è il dolore per il mio bambino direi questo: il dolore fa male. La prova, prova! La menomazione, la malattia sono brutte e mortificanti. Restano brutte anche dopo Gesù. Ma c’è Gesù. Ma c’è il Padre. Io so che a Ludo visto che Dio è Dio nulla di essenziale è tolto. A lui non è impedita l’azione umana più importante e vitale, il rapporto col Padre. “Smettila di pregare per tuo figlio e prega per la tua conversione mi ha detto un amico. Che prega di continuo per la sua guarigione. Cosa credi che Dio non si intrattenga con la sua anima? Cosa credi che non sia un male per un bene più grande?”
Poi ho capito questo. Dietro il dolore, sotto il cono d’ombra della croce; nella feritoia che la spada del dolore tiene aperta nel cuore, si apre uno scenario nuovo. Accessibile anche altrimenti credo ma la via della sofferenza è privilegiata… lo voglio dire con le parole del Giobbe di Fabrice Hajadj:
«Chi sei tu che vorresti cambiare il mio piangere in compiangersi e compiacersi?»
Giobbe infine, ormai solo, dichiara di attendere la Gioia:
«Io non ti ho, ma tu mi circondi stringendomi.
Tu mi sfuggi, sei proprio tu che mi conduci verso l'altro,
Tu che mi ferisci, sei proprio tu la sola che potrebbe guarirmi,
E siccome sto in agguato, pronto ad accoglierti, attento al minimo refolo che annunci la tua venuta,
Tu m'impedisci di chiudermi nella mia corazza
E la mia testa è questa conchiglia fratturata
E la mia lingua è questa lumaca grottesca,
Che lascia con le sue parole più bava che sapere,
E tu non vieni a ridurre la frattura, no, tu l'ingrandisci, tu l'allarghi ancora perché vi entri il
mondo».
Simone Weil, altra filosofa francese del '900 dice che la gioia non è altro che il sentimento della realtà. La realtà tutta. La realtà quando diventa più reale e ti assedia dura e ossuta. Non lo so, direi che corro il rischio di sembrare masochista o anche scontata ma quando il dolore ti colpisce davvero, e tanti ne abbiamo esperienza, puoi, se vuoi, non sprecare l’occasione di approfondire il tuo essere uomo cioè figlio cioè amato cioè atteso.
Dio non ha ancora guarito mio figlio. Io chiedo e richiedo e insisto. Può essere continui a  rispondere  “no, non ancora”. Non lo so. Dio è Dio.