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10 giugno 2019

La buona battaglia. Apologetica cattolica in domande e risposte

L’apologetica è una disciplina che in questi ultimi è tempi è stata dimenticata. E non a caso. Si è voluto trasformare l’atto di fede da atto ragionevole ad atto puramente emotivo e sentimentale.

L’apologetica di una volta non solo offriva le ragioni della fede, ma cercava di essere assai semplice. Proprio per raggiungere quanti più lettori possibile. L’apologetica serve a “chiarire” il vero; e dunque non può né deve far uso di un linguaggio complesso. E quale linguaggio può essere meno complesso e difficile di quello dialogico o epistolare?

Ebbene, questo libro non solo è un libro di apologetica, ma anche un libro che si serve di un linguaggio epistolare, cioè semplice, non impegnativo, leggibile anche nel frastuono. Il libro raccoglie le risposte che nel corso di questi anni Corrado Gnerre ha dato ai lettori del mensile Radici Cristiane.

Si va da contenuti teologici, a contenuti più specificamente morali, storici e filosofici.

Il motivo dominate del libro è che il credente deve saper utilizzare l’intelligenza, cioè deve essere un uomo di intelligenza; e che non è affatto vero che per credere bisogna far fuori la ragione, per la serie: prenderla, metterla in un cassetto, chiudere il cassetto e gettare la chiave dalla finestra. Tutt’altro. La ragione fonda la fede. Si tratta di un aiuto propedeutico, ma anche vicendevole: la ragione serve la fede e la fede serve laragione. Non a caso i medioevali amavano dire: intelligo ut credam (ragiono per poter meglio credere) e credo ut intelligam (credo per poter meglio ragionare).

Insomma, Il libro si configura come una piccola enciclopedia: un manuale di base per fondare la propria fede, ma anche per condurre quella “buona battaglia” che obbliga ogni credente ad un doveroso e proficuo apostolato.

L'autore
Corrado Gnerre è un apologeta cattolico, sposato e padre di cinque figli.

Attualmente dirige il sito Il Cammino dei Tre Sentieri ed è Guida nazionale dell’omonima associazione.
Per diversi anni ha insegnato antropologia filosofica nella facoltà di Giurisprudenza dell’Università Europea di Roma; nonché storia del pensiero filosofico e storia delle religioni presso L’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Redemptor hominis” di Benevento-Pontificia Università teologica dell’Italia Meridionale. Attualmente insegna Religione Cattolica presso il Liceo Classico “P.Giannone” di Benevento.

E’ autore di diverse pubblicazioni. Ne ricordiamo qualcuna: Dove lo sguardo trova quiete. Per un’estetica cattolica - La Rivoluzione nell’uomo. Per un’interpretazione anche teologica del ’68 - Illuminismo: itinerario di contraddizioni - Dio è cattolico - Le radici dell’utopia - Studiare le religioni per rafforzare la Fede - Studiare la filosofia per rafforzare la Fede. Per Chorabooks ha pubblicato Disorientamento. Una lettura cattolica della religiosità orientale.

Corrado Gnerre, La buona battaglia. Apologetica cattolica in domande e risposte (Chorabooks 2019).
Disponibile in e book (mobi) e cartaceo su Amazon e in e book (epub) in più di 100 negozi online tra cui: 

 

02 gennaio 2019

Ipotesi sulla genealogia di Gesù/2

di Marco Muscillo
>Puntata precedente

La genealogia umana di Gesù ci viene presentata soltanto a conclusione del terzo capitolo [di Luca] e anch’essa ha un’impostazione diversa rispetto a quella di Matteo. Intanto vediamo che essa torna indietro nelle generazioni, cioè inizia con Gesù, che “come si credeva” era figlio di Giuseppe, per poi tornare a Davide e da Davide ad Abramo. Inoltre Luca aggiunge le generazioni da Abramo ad Adamo, il primo uomo, presentato come “figlio di Dio”. Comprendiamo subito che l’Evangelista ci dice che questa genealogia parte da Dio (Gesù, il Messia, riconosciuto da Dio Padre come Figlio) a Dio, il Padre Celeste che creò l’uomo, Adamo, “a Sua immagine e somiglianza” e per questo Suo figlio. È il compimento della Promessa.

Mentre San Matteo precisa che l’umanità di Gesù è data dalla figliolanza in Maria e Giuseppe ha il compito di dare legittimità legale, San Luca apparentemente scrive che Gesù è figlio di Giuseppe. Dico apparentemente perché sarebbe così soltanto se non dessimo valore all’espressione “come si credeva”. Infatti, a mio parere con questa espressione l’Evangelista vuole dirci che era il popolo a credere che Gesù fosse figlio di Giuseppe il falegname, ma in realtà Egli è figlio di Dio. Questa dualità paterna Luca ce la presenta già al capitolo 2, quando al versetto 49 Egli risponde alla madre: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. E al capitolo 4, al versetto 22, dopo che Gesù si è riconosciuto Messia interpretando su di sé la profezia di Isaia (Is 61), è scritto: “Non è il figlio di Giuseppe?”.

La genealogia di Luca è più ampia rispetto a quella di Matteo: egli ci presenta da Adamo a Gesù 77 generazioni. È ancora la gematria protagonista, segno della santità di tale genealogia, santità data anche dal centralismo del numero 7, il qual è sinonimo di pienezza, quindi del compimento della Promessa messianica. Ma sette sono anche i bracci della menorah, come sette sono i giorni della settimana, come sette sono gli Arcangeli, come sette sono i doni dello Spirito Santo, come sette sono le fiaccole che ardono davanti al trono di Dio (Ap 4,5). Il 7 quindi è un numero che indica la santità e che fa riferimento a Dio e rimanda alle profezie messianiche, prima fra tutte quella delle “Settanta Settimane” del profeta Daniele.
Detto ciò, possiamo pure ritenere che la genealogia scritta da Luca sia molto più precisa e completa rispetto a quella di Matteo, data la consueta precisione che l’Evangelista usa in tutto il suo Vangelo.

Nel primo capitolo, San Luca indica la classe sacerdotale di appartenenza di Zaccaria e ci dice che questi ebbe la visione dell’Angelo quando “secondo l'usanza del servizio sacerdotale, gli toccò in sorte di entrare nel tempio per fare l'offerta dell'incenso” (Lc 1,9), come a volerci indirettamente indicare il mese e il giorno di tale avvenimento. Nel secondo capitolo, nel raccontare della nascita di Gesù, egli inizia indicando la situazione politica: si è al tempo di Cesare Augusto, quando l’Imperatore indisse il censimento degli abitanti dell’Impero e quando Quirinio era governatore della Siria. Al terzo capitolo, L’Evangelista ci dice che la predicazione di Giovanni iniziò “nell'anno decimoquinto dell'impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell'Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell'Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa” (Lc 3,1-2).

A differenza di Matteo, Luca non nomina i re di Giuda. Infatti, come figlio di Davide egli indica Natàn e non Salomone. È la stirpe di Natan, fratello di Salomone, che interessa all’Evangelista Luca.
Prima di Davide le due genealogie sono pressoché identiche, al netto di alcuni nomi scritti in maniera probabilmente diversa (Salmòn e Sala sono la stessa persona?) e alcuni nomi mancanti in Matteo (come figlio di Esrom, Matteo indica Aram, mentre Luca indica Arni e aggiunge un altro nome, Admin, prima della generazione di Aminadàb). Dopo Davide, come abbiamo detto, le genealogie si dividono: San Matteo continua con la stirpe di Salomone e dei Re di Giuda, mentre San Luca prosegue con la stirpe di Natan, fino a Salatiel e Zorobabele, dopo l’esilio babilonese, che sono citati da entrambi gli Evangelisti. Ma anche qui c’è una differenza sostanziale: Matteo indica Salatiel come figlio di Ieconia, il re destituito ed esiliato, mentre Luca dice che è figlio di Neri, quindi della stirpe di Natan. Dopo Zorobabele, però, le due genealogie tornano a divergere nei nomi fino a Giuseppe.
Proprio in San Giuseppe si rileva un’altra divergenza: Matteo lo indica come figlio di Giacobbe, mentre Luca come figlio di Eli. La Tradizione cristiana ormai ritiene che la genealogia di Matteo indichi gli antenati di San Giuseppe, mentre quella di Luca indichi invece quella di Maria Vergine, Gloria della stirpe di Davide, quindi anch’Ella discendente del re Davide. Secondo la Tradizione, se Giuseppe legittima l’ascendenza regale di Gesù, Maria la legittima secondo la carne, passando dal ramo cadetto di Natan.

Ma perché in Luca Giuseppe viene indicato come figlio di Eli e non di Giacobbe? Se quella di Luca è la genealogia di Maria, Eli non dovrebbe essere il padre di Maria? Chi è allora questo Eli?
Eli è semplicemente San Giacchino. Eli infatti è il diminutivo del nome Eliachim, o Eliachin, un nome molto comune nell’onomastica ebraica, oltre che nella stessa genealogia scritta da Luca: troviamo infatti un Eliacim come padre di Ionam e figlio di Meléa, tra i discendenti di Natan. Un altro Elìacim è indicato invece da Matteo come figlio di Abiùd, a sua volta figlio di Zorobabele. Ma Ioiachin è anche il nome ebraico di Ieconia, re di Giuda, che Matteo indica come figlio di Giosia, ma che in realtà è figlio di Ioiakim, diciannovesimo re, che per volontà del faraone Necao cambiò nome dopo essere salito al trono. Prima il suo nome era Eliakim (2Re 23,34). Il nome di Gioacchino ha una sua tradizione e diffusione quindi anche tra i discendenti di Davide e tra la stirpe reale.
Un’ulteriore conferma del fatto che l’Eli nominato da Luca sia in realtà San Giacchino, ci viene da quanto ci dice la mistica Beata Anna Katherina Emmerick. Nelle sue visioni, la monaca di Dulmen cita una donna chiamata Maria Heli, o Maria di Heli. Secondo Anna Katherina, questa donna sarebbe la sorella maggiore della Vergine Maria. Maria di Heli era la moglie di Cleofa, e loro figlia era Maria di Cleofa. Quest’ultima fu sposata in prime nozze con Alfeo, da cui nacquero gli Apostoli Simone detto Zelota, Giacomo il Minore e Giuda Taddeo. Da un secondo matrimonio con Saba, nacque Giuseppe Barsaba, che è citato negli Atti degli Apostoli. Da un terzo matrimonio con un certo Giona, nacque Simeone, che fu poi il secondo vescovo di Gerusalemme (Vincenzo Noja, Visioni e Profezie di Caterina Emmerick, Ed. Segno, pp.84-85).

Heli o Eli era quindi il nome con cui era conosciuto San Gioacchino e ciò ci fa affermare con una buona certezza che Gioacchino e Eli per L’Evangelista Luca siano la stessa persona. A questo punto, Giuseppe viene indicato come figlio di Eli usando una prassi comune anche da noi, secondo cui il suocero adotta come proprio figlio il marito della figlia naturale.

Se nel Vangelo di Matteo, Giuseppe “adotta” Gesù per porlo legittimamente nella discendenza regale di Davide e Salomone, nel caso di Luca è Gioacchino che “adotta” Giuseppe per porlo nella genealogia, chiamiamola “principesca” o “cadetta”, di Natan.

Le Scritture ci indicano già all’Antico Testamento che la casa di Natan è seconda a quella di Davide. Il profeta Zaccaria la nomina in un suo oracolo messianico:

Farà il lutto il paese, famiglia per famiglia:
la famiglia della casa di Davide a parte
e le loro donne a parte;
la famiglia della casa di Natàn a parte
e le loro donne a parte;
13 la famiglia della casa di Levi a parte
e le loro donne a parte;
la famiglia della casa di Simeì a parte
e le loro donne a parte;
14 così tutte le altre famiglie a parte
e le loro donne a parte». (Zc 12,12-14)


Zaccaria è un profeta di stirpe sacerdotale che vive negli anni del ritorno dei giudei nella Terra Promessa dopo i settant’anni dell’esilio babilonese. In questo periodo le profezie messianiche sono molto sentite. La venuta del Messia è considerata come conseguenza successiva della ricostruzione di Gerusalemme e quella del Tempio (un po’ come ai nostri tempi, alcuni premono per vedere Gerusalemme capitale di Israele e per costruire il Terzo Tempio, perché propedeutici all’avvento del Messia).
Da questo passo del profeta Zaccaria notiamo che da Babilonia è tornato un resto d’Israele, il quale ha mantenuto la propria coscienza storica e sociale. Si nominano alcuni casati, tra i quali il primo è quello di “Davide”, la casa reale. Subito dopo si nomina la “casa di Natan”, e ancora dopo la “casa di Levi”, seguita da quella di “Simeì”. Probabilmente si tratta di una delle case dei discendenti di Levi di cui leggiamo al capitolo 6 del primo libro delle Cronache : “Figli di Levi: Gherson, Keat e Merari. Questi sono i nomi dei figli di Gherson: Libni e Simei” (1Cr 6,1-2); “Suo collega era Asaf, che stava alla sua destra: Asaf, figlio di Berechia, figlio di Simeà, figlio di Michele, figlio di Baasea, figlio di Malchia, figlio di Etni, figlio di Zerach, figlio di Adaià, figlio di Etan, figlio di Zimma, figlio di Simei, 28 figlio di Iacat, figlio di Gherson, figlio di Levi.” (1Cr 6, 24-27). Ma la sua famiglia è meglio specificata nel libro dei Numeri: “Da Gherson discendono la famiglia dei Libniti e la famiglia dei Simeiti, che formano le famiglie dei Ghersoniti.” (Nm 3,21).

Nel passo della profezia leggiamo che Zaccaria pronuncia prima il nome di Davide e poi quello del figlio Natan, seguito dal nome di Levi seguito da un suo discendente, Simeì. È dunque specifico in questo caso, mentre in seguito parla più in generale, ritenendo forse che non sia necessario specificare le altre famiglie: “così tutte le altre famiglie a parte e le loro donne a parte” (Zc 12,14).
Se diamo un giusto valore alle parole del profeta Zaccaria, dobbiamo desumere che al ritorno da Babilonia la famiglia di Natan è presente ed è seconda solo alla famiglia di Davide, cioè alla casa reale. Essa avrà avuto quindi una certa importanza nella tribù di Giuda, che insieme a quelle di Levi e Beniamino fa parte del “Resto d’Israele”.

(continua)
 

27 dicembre 2018

Ipotesi sulla genealogia di Gesù/1

Confronto tra 1Cr 3 – Lc 3 – Mt 1


di Marco Muscillo


Secondo la promessa fatta al popolo ebraico tramite i Profeti, i giudei sapevano che il Messia sarebbe sorto dalla casa di Davide:
“Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse,
un virgulto germoglierà dalle sue radici.” (Is 1,1)


L’Unto atteso dagli ebrei è ancora oggi un re, discendente di Davide, che istaurerà un regno, a loro giudizio temporale, e che sottometterà tutti i popoli e sarà portatore di un’era di pace e prosperità. Questa concezione così terrena del Salvatore è probabilmente dovuta all’attaccamento fisico e materiale degli ebrei alla Terra Promessa che per loro non può non avere una natura concreta e delimitata alla “terra dove scorre latte e miele” (Es 3,8), conquistata dopo l’esodo dall’Egitto. Le conseguenze di questa concezione materialistica della Terra Promessa le riscontriamo ancora ai giorni nostri, come i fatti di cronaca politica e geopolitica ci dimostrano.
Proprio per questo era difficile che gli israeliti del tempo di Gesù potessero davvero capire il reale senso della regalità che Gesù dava al Messia e il senso spirituale dell’annuncio del Regno di Dio che come ricorda a Pilato “non è di questo mondo” (Gv 18,36). Gli ebrei attendevano e attendono tutt’oggi un Giudice e non hanno riconosciuto un re che si mostrava così misericordioso da perdonare i Suoi carnefici e dare la vita per il Suo popolo. Ma il Giudice alla fine arriverà e allora tutti Lo riconosceranno.

Gesù rifiuta di essere proclamato re e sfugge al popolo che vuole incoronarlo (Gv 6,15). L’atteggiamento del popolo dimostra che Gesù fosse riconosciuto come vero “figlio di Davide” (Lc 18,38-39), cioè appartenente alla casa reale di Davide e pretendente al trono del Regno di Israele, finalmente riunito.

L’appartenenza di sangue alla stirpe di Abramo è essenziale e concreta tanto quanto lo è il concetto di Terra Promessa. Gli israeliti tengono ricordo della propria genealogia, la loro appartenenza ad una famiglia specifica, ad un casato specifico e ad una tribù specifica.

Non a caso, l’Evangelista Matteo, nel voler parlare direttamente agli ebrei, inizia il suo Vangelo con la genealogia di Gesù, così da voler dimostrare l’appartenenza di Gesù al popolo eletto, alla stirpe di Abramo, alla tribù di Giuda e alla Casa di Davide. Gesù è il Messia, la genealogia ne dà conferma.

Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo. Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli, Giuda generò Fares e Zara da Tamar, Fares generò Esròm, Esròm generò Aram, Aram generò Aminadàb, Aminadàb generò Naassòn, Naassòn generò Salmòn, 5 Salmòn generò Booz da Racab, Booz generò Obed da Rut, Obed generò Iesse, Iesse generò il re Davide.
Davide generò Salomone da quella che era stata la moglie di Urìa, Salomone generò Roboamo, Roboamo generò Abìa, Abìa generò Asàf, Asàf generò Giòsafat, Giòsafat generò Ioram, Ioram generò Ozia, Ozia generò Ioatam, Ioatam generò Acaz, Acaz generò Ezechia, Ezechia generò Manasse, Manasse generò Amos, Amos generò Giosia, Giosia generò Ieconia e i suoi fratelli, al tempo della deportazione in Babilonia. Dopo la deportazione in Babilonia, Ieconia generò Salatiel, Salatiel generò Zorobabèle, Zorobabèle generò Abiùd, Abiùd generò Elìacim, Elìacim generò Azor, Azor generò Sadoc, Sadoc generò Achim, Achim generò Eliùd, Eliùd generò Eleàzar, Eleàzar generò Mattan, Mattan generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo.
La somma di tutte le generazioni, da Abramo a Davide, è così di quattordici; da Davide fino alla deportazione in Babilonia è ancora di quattordici; dalla deportazione in Babilonia a Cristo è, infine, di quattordici. (Mt 1,1-17)


La genealogia che ci presenta l’Evangelista Matteo, come vediamo, basa la sua stesura più sulla simbologia che non sull’enumerazione corretta di tutte le generazioni. Infatti, come si ammette al versetto 17, tutto l’enunciato ruota attorno al numero 14, secondo la scienza teologica ebraica della gematria. Secondo tale scienza, il numero 14 sarebbe proprio rappresentativo del nome di Davide, ottenuto sommando i valori delle consonanti D, V, D. Mancano quindi dei nomi, sia tra la successione dei re di Giuda, sia tra quelli presentati dopo la cattività babilonese. Inoltre, si nota anche la particolarità dell’Evangelista a nominare quattro donne, che hanno la caratteristica o di essere di stirpe non ebrea o che sono state oggetto di peccato: è il caso ad esempio di Betsabea, che era moglie di Urìa (2Sam 11); ma anche di Tamar, che si unì a Giuda prostituendosi, dopo che questi non aveva rispettato la legge del levirato, dimenticandosi di dare in sposa la donna al suo terzo figlio Sela, per poter dare discendenza al suo primogenito, Er (Gn 38).
Il centro della genealogia di Matteo è quindi il re Davide e quella qui enunciata è la stirpe regale d’Israele, da Abramo a Gesù, il quale però è figlio naturale di Maria, sposa di Giuseppe. Compito di Giuseppe è quello di dare legittimità legale al Messia, nato dalla carne per via materna e concepito per opera dello Spirito Santo. Proseguendo infatti la lettura del primo capitolo del Vangelo di Matteo, al verso 21 l’Angelo ordina proprio a Giuseppe di dare il nome al bambino: “Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” . È Giuseppe che impone al nascituro il nome di Gesù e con questo atto, egli legittima legalmente la figliolanza di Gesù alla stirpe regale di Davide.

Diversa invece è l’impostazione con cui San Luca presenta la genealogia di Gesù nel suo Vangelo:

Gesù quando incominciò il suo ministero aveva circa trent'anni ed era figlio, come si credeva, di Giuseppe, figlio di Eli, figlio di Mattàt, figlio di Levi, figlio di Melchi, figlio di Innài, figlio di Giuseppe, figlio di Mattatìa, figlio di Amos, figlio di Naum, figlio di Esli, figlio di Naggài, figlio di Maat, figlio di Mattatìa, figlio di Semèin, figlio di Iosek, figlio di Ioda, figlio di Ioanan, figlio di Resa, figlio di Zorobabèle, figlio di Salatiel, figlio di Neri, figlio di Melchi, figlio di Addi, figlio di Cosam, figlio di Elmadàm, figlio di Er, figlio di Gesù, figlio di Elièzer, figlio di Iorim, figlio di Mattàt, figlio di Levi, figlio di Simeone, figlio di Giuda, figlio di Giuseppe, figlio di Ionam, figlio di Eliacim, figlio di Melèa, figlio di Menna, figlio di Mattatà, figlio di Natàm, figlio di Davide, figlio di Iesse, figlio di Obed, figlio di Booz, figlio di Sala, figlio di Naàsson, figlio di Aminadàb, figlio di Admin, figlio di Arni, figlio di Esrom, figlio di Fares, figlio di Giuda, figlio di Giacobbe, figlio di Isacco, figlio di Abramo, figlio di Tare, figlio di Nacor, figlio di Seruk, figlio di Ragau, figlio di Falek, figlio di Eber, figlio di Sala, figlio di Cainam, figlio di Arfàcsad, figlio di Sem, figlio di Noè, figlio di Lamech, figlio di Matusalemme, figlio di Enoch, figlio di Iaret, figlio di Malleèl, figlio di Cainam, figlio di Enos, figlio di Set, figlio di Adamo, figlio di Dio. (Lc 3,23-38)

Innanzitutto notiamo che all’Evangelista Luca preme iniziare il suo Vangelo con la storia di Giovanni Battista, mettendo a confronto nel suo primo capitolo le visite dell’Arcangelo Gabriele prima al sacerdote Zaccaria e poi alla Vergine Maria, per poi narrare la visita di Maria alla cugina Elisabetta e poi la nascita del Precursore. Nel capitolo secondo invece leggiamo la nascita di Gesù a Betlemme, la presentazione al Tempio, e i suoi primi anni di vita fino al dodicesimo anno di età, quando un Gesù non ancora uomo per la Legge ebraica, si era trattenuto a Gerusalemme per ascoltare ed interrogare i dottori del Tempio, facendoli rimanere “pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte” (Lc 2, 47).
San Luca ci presenta la genealogia di Gesù soltanto dopo il Suo battesimo, quando al versetto 22 leggiamo che lo Spirito Santo scese su di Lui e una voce dal Cielo Lo riconosceva come “Figlio prediletto”. A differenza di Matteo, Luca non pare cercare la legittimazione legale del Messia secondo la carne, o almeno non la ritiene predominante, ma prioritaria invece è la legittimazione che viene da Dio, prima con l’Annunciazione dell’Arcangelo alla Vergine Maria e poi con la manifestazione della Santissima Trinità dopo il battesimo al Giordano e le parole dirette del Padre. È Dio Padre che riconosce Gesù come proprio Figlio, pertanto Egli è il Messia già solo per questo riconoscimento diretto.

(continua)

 

24 dicembre 2018

Indagine sul Natale (di G.Guzzo)

di Giuliano Guzzo
Per onestà dobbiamo riconoscere che buona parte del Natale, così come lo conosciamo oggi è in effetti “invenzione“. E’ così per il Babbo Natale di rosso vestito, trovata pubblicitaria della più globale delle bevande, la Coca-Cola; il presepe pare risalga al 1223 quando San Francesco – ottenuto il placet di papa Onofrio III – ne costruì il primo “ufficiale” a Greccio, piccolo paese laziale, anche se esistono testimonianze ancora precedenti che raccontano del grande interesse per il presepe da parte dei monaci cistercensi, persuasi più di tutti dell’importanza di far conoscere alla gente ogni fase della vita di Gesù. E’ “invenzione“, infine, pure l’albero, tradizione inaugurata, pare, nel 1521 a Sélestat, località dell’Alsazia nella cui Bibliothéque Humaniste sono conservati documenti che – per la prima volta – attestano l’esistenza di un albero devozionale abbellito e decorato.

Anche se non si direbbe, risulta tradizione tardiva pure l’idea dei doni, degli auguri e del pranzo natalizio: trattasi, in questo caso, di un’eredità culturale che celebriamo a partire dall’epoca vittoriana. Più precisamente, il merito è tutto di A Christmas Carol di Charles Dickens, racconto che vide le stampe il 18 dicembre 1843 riscuotendo subito successo e vendendo ben 6.000 copie in appena una settimana. George Orwell, non a caso, dirà che a Natale è «automatico» pensare a Dickens. Accanto a questi dati di fatto, che ci ricordano come il Natale contemporaneo sia in effetti una riuscita stratificazione di tradizioni e usanze differenti per origine storica e geografica, da tempo si sta facendo largo, negli scaffali delle librerie e negli interventi degli intellettuali, un’idea di per sé non nuova ma che non smette di affascinare, vale a dire la convinzione che, dopotutto, la stessa ragion d’essere del Natale, ossia la nascita di Gesù tramandataci dai Vangeli, non sia che un’invenzione.

Pensiamo ad una delle ultime fatiche di Corrado Augias, Inchiesta sul Cristianesimo come si costruisce una religione, testo che sin dal titolo mira ad equiparare il Cristianesimo ad un artificio politico, ad un abuso di credulità popolare. Oppure pensiamo a Michel Onfray, che nel suo Traité d’athéologie(2005) scrive:« Con ogni evidenza Gesù è esistito come Ulisse e Zarathustra». Gli fa eco Piergiorgio Odifreddi, che in una delle sue fatiche sostiene che «il Gesù dei Vangeli non è altro che una costruzione letteraria»( Perché non possiamo essere cristiani, Longanesi 2007, p.104). Vi sono poi tentativi più tiepidi e leggeri, quasi comici a dir il vero, di criticare la storia di Gesù e della sua nascita, come quello proposto – non si è capito se volontariamente o meno – da Eugenio Scalfari, il fondatore di Repubblica, secondo cui vicino al Bambino, accanto all’asino, anziché il canonico bue, vi sarebbe stata «una mucca» (L’Espresso, 10/1/2008, p.154).

Decisamente meno morbidi sono stati invece i toni usati da Marcello Craveri e della sua Vita di Gesù (Feltrinelli, 1966), opera fortemente critica sulla vita di Gesù così come siamo abituati a immaginarla. A seguire ed estremizzare queste tesi ci ha pensato, in tempi recenti, Luigi Cascioli, ex prete nonché autodidatta di storia del cristianesimo arciconvinto che Gesù sia una creazione truffaldina della Chiesa delle origini, che avrebbe stravolto la storia di un personaggio del II secolo – a dire di Cascioli – realmente esistito, Giovanni di Gamala. Per meglio rendere l’idea della stravaganza delle tesi di Cascioli è sufficiente ricordare il titolo dell’opera che egli ha scritto e pubblicato a sue spese, La Favola di Gesù Cristo.

Chissà se Bruno Bauer, il teologo berlinese che nella prima metà dell’Ottocento dubitava dell’esistenza storica di Gesù, si sarebbe immaginato – dopo quasi due secoli – di avere ancora così tanti discepoli pronti a riproporre le sue tesi. Il punto è che oggi, lo scetticismo nei confronti della nascita e dell’esistenza di Gesù, non è più un fenomeno ascrivibile solo ad atei praticanti quali Augias ed Onfray. Basti ricordare quanto riferito ai microfoni della Bbc da Rowan Williams, arcivescovo di Canterbury nonché massima carica della Chiesa anglicana, a detta del quale «il mito della natività non è altro che una leggenda» (Avvenire, 21/12/07, p.27).

Anche tra i giovani iscritti a percorsi di studio universitari, la conoscenza di Gesù risulta contrassegnata da una confusione che sconfina talvolta nel ridicolo. A questo proposito, è significativo riprendere quanto ricordato dal filosofo Giovanni Reale: « Un collega mi ha detto che nel corso di un esame, alla domanda che il candidato dicesse chi era Cristo, quel candidato rispose che si trattava di un autore che pubblicava le sue opere per l’editore Mondadori. E la risposta veniva data da uno studente universitario, con alle spalle tutte le scuole elementari, medie e superiori. Si tratta di un monstrum dal punto di vista culturale, di cui non avevo mai sentito l’uguale » (Il Giornale, 14/8/2009, p.10).

Dinnanzi ad affermazioni ed episodi così gravi e sconcertanti, è bene interrogarsi e chiedersi se quella del Natale non sia davvero tutta una fiaba di successo, una sorta di best-seller ante litteram. Allarmato da questa tendenza a screditare la storicità della figura di Gesù, lo stesso Santo Padre – autore, fra l’altro, di un recentissimo volume sull’argomento – già nel corso dell’udienza tenuta il 3 gennaio 2007 denunciava con forza il « dramma del rifiuto di Cristo, che, come in passato, si manifesta e si esprime, purtroppo, anche oggi in tanti modi diversi […] dal netto rigetto all’indifferenza, dall’ateismo scientista alla presentazione di un Gesù modernizzato o postmodernizzato […] oppure un Gesù talmente idealizzato da sembrare talora il personaggio di una fiaba ».

Ora, per tentare di replicare a questa diffusa tendenza culturale, potremmo partire chiedendoci quali indizi possano in effetti suffragare la dimostrazione dell’esistenza storica di Gesù. Ebbene, gli indizi in tal senso abbondano: di Gesù troviamo ampia traccia, oltre che nei Vangeli canonici, anche in quelli apocrifi e pure nelle testimonianze di diversi autori non cristiani, tra i quali ricordiamo: Giuseppe Flavio, Plinio il Giovane, Mara Ben Serapion, Luciano di Samosata, Celso e, dulcis in fundo, Tacito, il più grande storico romano. A farci accantonare in modo definitivo l’idea di Gesù quale personaggio leggendario è poi, a ben vedere, il Cristianesimo stesso, a partire da quello degli apostoli, dei quali si conservano ancora oggi le reliquie: possibile che costoro si siano dati alla predicazione, incuranti persino del martirio, per annunciare il verbo di un personaggio mai esistito?
Perfino Rudolf Karl Bultmann, il teologo luterano pioniere di un metodo – quello storico critico – volto a ridimensionare fortemente, quando non del tutto la divinità di Gesù, se la rideva di quanti negavano l’esistenza storica di Gesù asserendo che « il dubbio che Gesù sia realmente esistito è infondato e non degno di essere confutato. Nessuna persona sana di mente può dubitare che Gesù stia dietro come fondatore al movimento storico, il cui primo livello distinto è rappresentato dalla comunità in Palestina ». Assodata quindi – sia pure in estrema sintesi – la storicità di Gesù, possiamo approfondire un’analisi del Natale vagliando i punti nodali della questione.

Iniziamo con l’attesa messianica. L’Antico Testamento risulta letteralmente costellato di profezie concernenti l’avvento di un dominatore del mondo: nella sua Indagine su Gesù (Rizzoli, 2008) Antonio Socci ne ha conteggiate quasi trecento. Come ci ricorda il vaticanista Andrea Tornielli nel suo Inchiesta su Gesù Bambino (Gribaudi, 2005) già nella IV Egloga di Virgilio si annuncia la venuta di un puer, un fanciullo che «riceverà la vita dagli dei […] reggerà il mondo pacificato per le virtù paterne», e grazie al quale l’« età del ferrò cesserà e (quella) dell’oro sorgerà in tutto il mondo ».
Un’attesa, quella del Messia, decisamente fondata e diffusa dunque, tanto è vero che spaventò, e molto, Erode. A questo proposito, J. Schniewind annota: « La paura per la venuta del Messia (cioè del Figlio di Davide definitivo, del figlio di Dio aspettato dalla fine dei tempi dai re di Israele) ha veramente caratterizzato gli ultimi anni della vita di Erode […] la tradizione di quel tempo narra anche di consultazioni di Erode con gli scribi a riguardo delle affermazioni regali dell’Antico Testamento: il punto critico di Erode, come sovrano, consisteva nel fatto che, edomita qual era, stava al di fuori dell’attesa regale dell’Antico Testamento, della speranza messianica ».

Compresa, sia pure per sommi capi, la fondatezza storica della figura di Gesù Cristo – fondatezza, giova ricordarlo, per nulla inferiore, sul piano documentale, a quella di altri grandi personaggi storici quali Alessandro Magno – e ricordato il clima di attesa che permeava il mondo ebraico dell’epoca, passiamo ora a ricostruire più da vicino l’avvenimento del Natale. Dove e quando nacque Gesù? Precisiamo subito che ignoriamo se effettivamente il Bambino nacque, come siamo soliti immaginare, di notte; i Vangeli canonici non dicono nulla in proposito e ci sono ottime ragioni per ascrivere la paternità di questo particolare al Sant’Ambrogio che, nei suoi Inni, scrive: « Risplende già il tuo presepe/la notte effonde la tua luce,/ che nessuna tenebra offuschi,/ma splenda d’inesauribile fede ».

Quanto al dove Gesù sia nato, mentre Marco e Giovanni iniziano la loro narrazione dalla sua predicazione, com’è noto sia Matteo che Luca riferiscono, nominandola sette volte, di Betlemme. E poiché vi sono prove attestanti come Betlemme, già a partire dai primi secoli dopo la nascita Gesù, fosse meta di molteplici pellegrinaggi, non si vede ragione – con buona pace di Ernest Renan, secondo cui il Bambino nacque a Nazaret (Cfr. Vie de Jésus, 1863, p. 19) – per dubitare dell’indicazione dei due evangelisti. Tanto più che l’imperatore Adriano – dopo averla rasa al suolo con l’intento di trasformarla da luogo di culto cristiano (quale già era) a sito di culto pagano – nell’anno 135 consacrò Betlemme al dio Adon, ed è sempre, guarda caso, sull’area della grotta della natività che i romani piantano un bosco sacro. Tra l’altro va ricordato che esiste, nell’Antico Testamento, una esplicita profezia che riconosce quella città come luogo speciale, dove sarebbe nato un Messia.

E’ il libro del profeta Michea (5, 1-3), dove possiamo leggere: « E tu Betlemme di Efrata / così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda / da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele ». A quanti sostengono che l’evangelista Matteo, soprattuttto per quanto riguarda i 48 versetti “natalizi” della sua narrazione, abbia “inventato” tutto di sana pianta proprio a partire dalle profezie dell’Antico Testamento (il che spiegherebbe, a detta di costoro, l’impressionante convergenza fra queste ed il contenuto evangelico), facciamo rispondere da uno cattolico autorevole ma certo non tacciabile di chiusure pregiudiziali, mons. Gianfranco Ravasi: « L’ipotesi è piuttosto stravagante. Come, infatti, si può “creare” tutto il racconto dei Magi dalla profezia di Michea che […] parla solo di Betlemme? Come “inventare” a partire dall’oracolo di Isaia sulla “vergine” che genere l’Emmanuele tutto il racconto che in realtà è un’annunciazione a Giuseppe? » (I Vangeli di Natale, San Paolo, 1992, p. 31).

Se, nonostante le inevitabili divergenze, si può dunque ritenere assai fondata l’idea che Gesù – conformemente a quanto insegna la tradizione – sia nato a Betlemme, più dibattuto, fra gli storici, è l’anno della sua nascita. Qui non ci sono certezze e l’ipotesi più condivisa è che Gesù possa essere nato fra il 6 e 7 a.C. Il punto di partenza per comprendere questa ipotesi è Luca, che scrive: « In quel tempo fu emanato un editto da Cesare Augusto per il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento ebbe luogo quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi iscrivere, ciascuno nella propria città. E anche Giuseppe salì dalla Galilea, nella città di David, chiamata Betlemme, perché egli era della casa e della famiglia di David, per farsi iscrivere insieme a Maria, sua sposa, che era incinta » (Lc. 2, 1 -2). Ora, è provato che Publio Sulpicio Quirinio, nativo di Lanuvium, condusse un censimento in Siria e in Giudea nell’anno 6 d.C. Ma poiché Luca (1,5) e Matteo (2,1) asseriscono concordi che Gesù nacque prima della morte di Erode, avvenuta, secondo Giuseppe Flavio, nel 4 d.C., molti usano questa apparente contraddizione per accusare Luca di essere contraddittorio.

In realtà, come ricorda la storica Marta Sordi (1925-2009), Luca non era affatto sprovveduto ed era, anzi, perfettamente al corrente dell’esistenza del censimento del 6 d.C, al quale peraltro allude con chiarezza (At 5,37). Infatti costui, a scanso d’equivoci, parla esplicitamente di un « primo censimento» (2,2 «apographé prote») nell’epoca in cui Quirinio era legato della Siria. Il punto è che esiste, oltre a questo, un censimento fatto in Giudea da Senzio Saturnino, governatore di Siria fino al 7 a.C. e poi impegnato, probabilmente per la successione del trono di Armenia. L’ipotesi più verosimile appare allora la seguente: che il primo censimento, quello iniziato da Senzio Saturnino, sia stato poi continuato da Quirinio quando questo, prima del 6 a.C., aveva finito la guerra contro gli Omonadensi, e reggeva temporaneamente la legazione di Siria. Anche lo storico Giulio Firpo concorda e aggiunge: « Un altro indizio può suffragare questa ricostruzione: nel 7 a.C., ai sudditi di Erode fu chiesto di giurare fedeltà ad Augusto. Era una richiesta frequente nei censimenti provinciali e secondo molti può essere collegata al censimento ricordato da Luca » (Storia e Dossier, anno VI, n.56, 1991, p. 39).

Non manca neppure chi sostiene, forte di argomenti interessanti, un’altra datazione (Cfr. Loconsole M. Quando è nato Gesù?, San Paolo 2011). Anche perché, guardando ai fenomeni astrali, dopo il 6 e 7 a.C., si sono verificarono altri eventi interessanti e che potrebbero essere ricondotti al fenomeno definito da Matteo come stella. Per esempio le numerose e significative congiunzioni planetarie che si verificarono tra il 3 ed il 2 a.C.: 12 agosto del 3 a.C. la congiunzione di Giove e Venere; il 14 settembre Giove si congiunse con Regolo (con replica, l’anno dopo, il 17 febbraio); il 17 giugno 2 a.C. si registrò una spettacolare congiunzione tra Giove e Venere nella costellazione del Leone, il 27 agosto di quell’anno, poi, nella costellazione del Leone si congiunsero addirittura quattro pianeti (Giove, Venere, Marte e Mercurio) e, dulcis in fundo, dal 12 agosto del 3 a.C. Giove, ritenuto il pianeta dei re, è sempre presente e dal 2 a.C. – combinazione proprio attorno al 25 dicembre di quell’anno! -inverte il proprio moto rispetto alle stelle fisse più vicine, in pratica – ha osservato Ruggero Sangalli (Cfr. Giove, la stella dei magi, La Bussola Quotidiana, 17/12/2011) – “fermandosi” in cielo.

«Evitiamo – mi ha scritto sempre Sangalli, a commento di un mio articolo sul tema – per quanto ci è possibile, di continuare a screditare la storicità dei fatti, mettendo in dubbio l’attendibilità dei vangeli senza nemmeno mettere in dubbio che a essere fuori strada siano quelli che lo fanno. Luca si accredita come uno storico preciso e infatti lo è. Gesù nacque sul finire del 2 a.C., trent’anni prima del XV anno di Tiberio. L’astronomia conferma: c’erano in atto singolarissime ed eccezionali congiunzioni planetarie. La storia ribadisce: Giuseppe Flavio pone la morte di Erode quasi quattro anni dopo quello che le pessime esegesi gli fanno dire. L’archeologia attesta che il censimento voluto da Augusto era in atto. La biologia aiuta: le pecore danno alla luce gli agnellini a fine autunno (fotoperiodo degli ovini). La tradizione ebraica e la Sacra Scrittura consolidano tutti gli indizi »

Ciò nonostante – lo dicevamo poc’anzi – per molti studiosi Gesù sarebbe nato tra il 6/7 a.C., ipotesi a cui ci conduce anche la citata e triplice congiunzione tra Saturno e Giove, evento previsto dagli astrologi orientali e che spiegherebbe la venuta dei Magi. Magi che, vale la pena sottolinearlo, non sono nemmeno loro frutto di fantasia. Matteo li racconta come nobili pellegrini e sapienti astronomi, anche se – è vero – i nomi Baldassarre, Gaspare e Melchiorre sono figli della tradizione medievale. Da parte loro, alcuni storici sostengono come le loro spoglie di questi Magi, da Costantinopoli, sarebbero state portate a Milano dal vescovo Eustorgio, mentre altri studiosi affermano che le loro reliquie siano giunte in Italia in seguito alle Crociate. Una cosa risulta certa: le spoglie dei Magi, nel 1162, si trovavano in Lombardia, e da qui, due anni dopo, sarebbero state portate a Colonia da Federico Barbarossa fino a quando, nel 1903, alcune di queste reliquie furono restituite simbolicamente da Colonia a Milano, precisamente a Brugherio, unica località italiana poter vantare la custodia di qualche resto dei nobili e colti adoratori di Gesù.

Tornando alla datazione del Natale, se c’è dibattito sulla questione dell’anno, su quella del giorno si consuma una vera e propria diatriba. E’ difatti diffusa, specie fra persone con una certa istruzione, l’idea che il 25 dicembre come data natalizia fu una scelta convenzionale della Chiesa, promossa per soppiantare il culto pagano del Sol Invictus. Orbene, su quest’idea andrebbe fatta chiarezza. Anzitutto specificando che questa ipotesi – avanzata verso la fine del XII secolo dal vescovo siriano Jacob Bar-Salibi (Cfr. Christianity and Paganism in the Fourth to Eighth Centuries, Ramsay MacMullen, Yale, 1997, p. 155) – viene spesso venduta come una certezza mentre invece è, per l’appunto, solo una ipotesi; peraltro discutibile. Infatti, se la prima citazione della celebrazione del Natale cristiano al 25 dicembre proviene da Ippolito di Roma, martirizzato nel 235 d.C., pare non si abbiano fonti storiche antecedenti, ma solo successive, che alludono al culto Sol Invictus. Ad ogni modo, il 25 dicembre non è comunque una data inventata o frutto di una scelta “politica”.
Vediamo perché considerando – ancora una volta – quanto riferisce il vangelo di Luca dove si spiega che l’Angelo del Signore, Gabriele, sei mesi prima dell’annunciazione a Maria (Lc 1, 26-38), alla conclusione della solenne e quotidiana celebrazione sacrificale, annunciò all’anziano sacerdote Zaccaria che avrebbe avuto un figlio dalla sua sposa, l’anziana e sterile Elisabetta. Ora, noi sappiamo che nel santuario di Gerusalemme David aveva disposto che i «figli di Aronne» fossero distinti in 24 taxis – sebaot in ebraico – ossia i “turni”. Questo significa che, avvicendandosi in ordine immutabile, tali “classi“, dovevano prestare servizio liturgico per una settimana, da sabato a sabato, due volte l’anno.

Ebbene, grazie ad uno studioso israeliano, Shemarjahu Talmon, che ha esaminato, servendosi del Libro dei Giubilei, la successione dei sopraccitati 24 turni sacerdotali, sappiamo che «il turno di Abia », quello di Zaccaria, corrispondeva all’ultima settimana di settembre. Un dato questo, che corrisponde al rito bizantino che, da secoli, celebra l’annuncio a Zaccaria il 23 settembre. E quindi, se consideriamo che l’Annunciazione a Maria è fissata quando Elisabetta era al sesto mese – ed è infatti festeggiata dalla Chiesa il 25 Marzo -, capiamo come sia tutto tranne che fantasioso credere che nella notte tra il 24 ed il 25 dicembre, in quel di Betlemme, sia effettivamente nato un Bambino di nome Gesù, un puer destinato a cambiare la storia.

Ora, considerazioni come quelle sin qui svolte non hanno – né potrebbero avere, vista la loro brevità – la pretesa di esaurire il dibattito e men che meno di archiviare questioni che, almeno fra gli specialisti, sono tutt’ora motivo di discussione. Ciò che invece premeva era mettere ciascuno di noi nella condizione di capire che il Natale che festeggiamo tutto è fuorché la rievocazione di una leggenda. Certo – lo abbiamo ammesso sin dall’inizio – vi sono molti elementi a noi familiari, dall’albero all’idea del pranzo natalizio, che nulla hanno a che vedere con l’autenticità storica del Natale. Vi sono tuttavia molte ragioni per credere che venti secoli fa qualcosa di davvero straordinario sia accaduto, e che quel qualcosa, ancora oggi, abbia molto a vedere con l’autenticità della nostra vita.


 

27 maggio 2017

Un campari con... Aurelio Porfiri

Aurelio Porfiri, apologeta e grande musicista contemporaneo, esperto di musica sacra, ha scritto un libro su Vittorio Messori. Lo abbiamo incontrato per parlarne.

Perché un libro su Messori?
Perché Vittorio Messori è il più illustre rappresentante italiano, e non solo, della nobile disciplina dell'apologetica cattolica nel XX e nel XXI secolo. Non c'è dubbio che il suo lavoro sia stato fondamentale per riavvicinare molte persone ad un senso forte ed identitario della fede cattolica.

Qual è la caratteristica principale dell'opera di Messori?
Io credo non ci sia una sola caratteristica ma varie. Senz'altro quella che per me è molto importante è di fare a meno di quell' "Ecclesialese" di cui parla il giornalista Roberto Beretta (tra l'altro autore di testi interessantissimi, come "Chiesa padrona" che vivamente consiglio), quel linguaggio fumoso e vago che nasconde una certa inconsistenza (sul linguaggio aveva detto cose interessanti anche Romano Amerio in"Iota Unum"). Insomma, facendo a meno di una delle armi principali del clericalismo e del sistema clericale, cioé quella del linguaggio, ci riavvicina ad un cattolicesimo più autentico e vero, un cattolicesimo non annacquato nella melassa liberal-progressista degli ultimi decenni. Il cattolicesimo di Messori è un cattolicesimo di cadute e redenzioni, egli non si erge a moralista come vediamo fare in tanti ambienti clericali che fanno della "misericordia" il loro volto pubblico ma del moralismo il loro vizio privato. La riscoperta dell'essenza dell'essere cattolico, ecco, questo è un elemento importante. Come certamente quello dell'et-et, quel essere cattolico che significa, seguendo Jean Guitton, "volere tutto". Molti non hanno capito questo, dicendo che il cattolico invece si distingue per l'aut-aut. Ma questo vale per quanto riguarda la scelta fondamentale, la risposta di fede che certamente è positiva e negativa. Ma una volta intrapresa la strada come discepoli di Gesù, l'aut-aut deve lasciare posto all'et-et.

Messori è un apologeta di fama. Qual è il ruolo dell'apologetica oggi?
Come dicevo, certamente l'apologetica ha un ruolo fondamentale oggi, molto più importante che nel passato. Purtroppo in Italia, specialmente, siamo schiavi del vaticanismo, dello sprecare tempo e risorse soltanto nel commentare su quale persona è stata fatta Vescovo o chi sarebbe meglio per un ufficio piuttosto che per un altro, mentre ci sfugge spesso l'essenza, che è sempre quella espressa dalla domanda: voi chi dite che io sia? In questo vedo anche la grandezza di Messori, che ci riconduce sempre all'essenza, che poi è quella che veramente conta.

Per la sua esperienza, qual è la situazione della Chiesa in Cina? Quali sono stati gli sviluppi degli ultimi tempi?
La situazione è una situazione di stallo, almeno per quello che si vede dal di fuori. I contatti ci sono, ma viene da pensare che essendo la situazione politica quella che è, forse è meglio attendere prima di fare qualunque accordo. Io sempre ricordo che non bisogna dimenticare la fondamentale differenza culturale che c'è fra noi occidentali e il popolo cinese. Quindi talvolta non si percepisce come le prospettive siano fondamentalmente divergenti. Questo accade nel condurre affari, nella vita quotidiana, nella visione del mondo. Sono sicuro che coloro che conducono le trattative per la Santa Sede sanno bene che i termini dei ogni accordo, possono essere interpretati diversamente a seconda delle prospettive culturali di chi li interpreta. Quando queste prospettive culturali sono simili, c'è un'ermeneutica comune, quando non lo sono ogni accordo nasconde potenziali pericoli. Ma questo non significa che non bisogna cercare un modus vivendi per andare avanti.

Lei è un compositore e musicista. Cosa può dire della musica sacra contemporanea e del suo utilizzo oggi? Vi sono stati degli abusi negli ultimi anni?
Che vi siano stati abusi lo ha detto anche Papa Francesco nel recente discorso per l'anniversario della Musicam Sacram. Il problema non è più quello, ma è che l'abuso è divenuto norma. Cioè, oramai è normale nelle Chiese ascoltare quello che sarebbe da considerare un abuso, canti con musiche di chiara ispirazione profana, sentimentalistici, con carattere marcatamente non liturgico. In Italia certamente la situazione è molto grave (ma anche in molte altre parti del mondo non si va meglio, in alcuni casi anche peggio), questo anche dovuto alla pressione che il sistema clericale ha su di noi. Si faccia attenzione, io parlo di sistema clericale, non di Chiesa. Il sistema clericale è un abuso dello stato ecclesiastico, non il suo essere come si dovrebbe. In fondo tutte le deviazioni sono venute come imposizioni di certo clero (non tutto, per fortuna), di certi liturgisti e pastori che hanno imposto una data ermeneutica della riforma liturgica e della musica sacra. Questo ha soffocato gli impulsi buoni, che anche ci sarebbero stati, ha messo fuori gioco coloro che avrebbero potuto contribuire positivamente ad un vero rinnovamento della musica sacra, sulle orme della tradizione ed aperto sanamente al nuovo, ha cancellato quel progresso organico che era stato chiesto dal Concilio stesso.
 

13 aprile 2017

Apologetica. La verità della Resurrezione contro i luoghi comuni


di Giuliano Guzzo

La tentazione è credere che il fatto non ci riguardi. Che la sola cosa importante, dopotutto, sia il messaggio di Gesù e che la ragione non possa spingersi oltre un certo limite. In realtà, insegna Pascal (1623-1662), «il passo supremo della ragione è riconoscere che ci sono un’infinità di cose che la trascendono» [1]. Sarebbe dunque superficiale – e umiliante per la ragione stessa – sottrarsi a priori ad un’indagine sul pilastro primo della fede cristiana, vale a dire la risurrezione di Gesù. Non che il resto non abbia alcuna importanza, intendiamoci, ma fu primariamente quell’evento il centro della fede delle prime comunità cristiane [2], evento che costituisce anche il punto sul quale – direbbe Dostoevskij (1821-1881) – l’«uomo colto», l’«europeo dei nostri giorni» è chiamato a valutare la possibilità di poter «credere, credere proprio, alla divinità del figlio di Dio, Gesù Cristo» [3].

Diversamente, annotava già San Paolo, «se Cristo non è risorto vana» è la «fede» [4]. Al punto che se si volesse riassumere il contenuto della fede cristiana in un’unica frase – osservava Romano Guardini (1885-1968) – si potrebbe dire tranquillamente questo: «Credo nella resurrezione dei morti e nella vita» [5]. La risurrezione come questione centrale, dunque. Questione che deve essere anzitutto sottratta a quel silenzio a causa del quale, per dirla con Yves Congar (1904-1995), non se ne parla più o quasi [6], e poi valutata senza imbarazzo anche sotto il profilo della storicità dato che «tutto nel Cristianesimo è storico» e la stessa fede «non aggiunge qualche cosa “in più” che non ci sia nel fatto, ma accoglie il fatto o l’evento, integralmente» [7].

Di qui la domanda che ci siamo posti in apertura: la risurrezione è una favola oppure no? E’ un’antichissima leggenda metropolitana oppure un «evento effettivamente accaduto» [8]? Trattasi di quesiti, insistiamo, della massima importanza dal momento che, com’è stato già osservato, dubitare della storicità della risurrezione non significa dare scarsa importanza ad una fase della vita di Gesù, no: significa mettere apertamente in discussione la sua stessa natura divina, il suo essere Figlio di Dio [9]. Siamo pertanto di fronte ad un bivio cruciale: o Gesù è risorto in quanto Figlio di Dio – e quindi il Cristianesimo, in sostanza, è integralmente vero – oppure è tutta una colossale illusione: tertium non datur. O tutto, o niente.

I Vangeli e la risurrezione che non c’è

Il punto di partenza obbligato per affrontare questo dilemma, ancora una volta, non possono che essere loro, i Vangeli, quattro testi che totalizzano 64.327 parole greche di cui la Chiesa, anche in occasione del Concilio Vaticano II, ha rivendicato «senza esitazione la storicità» [10], e che contengono la grandissima parte delle informazioni che abbiamo su Gesù; al punto che è stata osservata l’impossibilità di scindere il cosiddetto “Gesù storico” dal Gesù narrato nei vangeli [11]. Lo spazio ci impedisce, qui, un approfondimento sull’attendibilità storica dei vangeli, per cui ci limitiamo, confidando nella clemenza del lettore,  ad un’analisi più generale. Analisi che, a proposito di risurrezione, potrebbe iniziare dalla sottolineatura di un dato curioso eppure, di solito, poco considerato: i Vangeli – il primo dei quali, Marco, composto appena dieci anni dopo la morte di Gesù [12] – non la descrivono. Proprio così: nessuna testimonianza diretta [13]. Non per nulla questo dato di fatto viene spesso strumentalizzato da certo ateismo militante per accusare i credenti nel Risorto di essere creduloni. Immaginiamo, al riguardo, la soddisfazione con la quale il matematico Piergiorgio Odifreddi, mosso dal consueto piglio provocatorio, ha fatto per l’appunto presente che la risurrezione «nei Vangeli non c’è» [14], tentando così di far passare per ingenui quanti credono che Gesù abbia davvero vinto la morte.

In realtà è chi prende per buona questa critica a peccare di ingenuità. Vediamo perché. Ora, al di là di quello che affermano Odifreddi e compagni, nei Vangeli  – escludendo Giovanni – di risurrezione si parla, eccome se se ne parla: almeno 11 volte (Matteo: 16,21 17,22 20,19 26,32 e 27,63. Marco: 8,31 9,30 10,34 12,96 e Luca: 18,33), senza contare che in tutto il Nuovo Testamento i termini indicanti la risurrezione – eghiero e anastasis – ricorrono almeno 100 volte. Il punto, come dicevamo poc’anzi e com’è stato più volte osservato, è che a «tutti gli autori del Nuovo Testamento», non è mai venuto in mente neppure «di azzardare una cronaca dell’evento di risurrezione» [15]. Un dato, questo, che dovrebbe far riflettere, in particolare coloro che dubitano della serietà della narrazione evangelica: perché mai, se quei testi sono menzogneri, i suoi redattori si sarebbero dovuti trattenere, pur nominandolo, dal descrivere il miracolo dei miracoli, quello sul quale si fonda tutto il resto? Non avrebbe avuto molto più senso, in chiave apologetica, una cronaca – magari condita con effetti speciali, prodigi e colpi di scena – di Gesù che se ne esce vittorioso dal sepolcro? Perché mai, insomma, questo silenzio?

L’interrogativo è di quelli importanti, anche perché tutto si può dire tranne che quei giorni, nella narrazione evangelica, siano stati poco considerati: per dire, nel vangelo di Marco – il più antico – ben 107 dei 658 versetti totali sono dedicati esclusivamente dalla descrizione delle ultime 24 ore della vita di Gesù. Ma della risurrezione no, di come sia avvenuta non si riferisce in alcun modo. Non una parola, silenzio. Peccato. Anche perché, come si è detto, in ottica propagandistica avrebbe giovato – e molto – una cronaca in tal senso. A meno che – e a questo punto l’ipotesi non può più essere trascurata – i Vangeli non siano sul serio resoconti di quel che davvero avvenne, di quello che fu effettivamente visto (e non visto) dagli apostoli. Una sorta di diario scritto per portare sì la fede, ma prima di tutto per tramandare degli eventi che quella fede originarono, a partire dall’incredulità degli apostoli. E proprio «quell’iniziale incredulità degli apostoli» – osserva Antonio Socci – mostra «che gli evangelisti non stanno illustrando delle idee teologiche, o un mito, ma riferendo fatti. Fatti concreti, carnali, dettagliati. Fatti inimmaginabili e sorprendenti innanzitutto per loro» [16].

Pasqua, una storia di donne

A favore della volontà di cronaca prima che apologetica dei vangeli,  rileva anche un altro aspetto, e cioè la narrazione di quel che accadde la mattina del 9 aprile dell’anno 30 [17] (data sulla quale non c’è però concordanza, essendovi anche l’ipotesi, ancora più suggestiva, che si trattasse dell’1 aprile del 33 d.C.[18]): le prime a vedere il sepolcro vuoto e a riceverne la spiegazione dall’Angelo del Signore sarebbero state delle donne. Ebbene, si dà il caso che a quel tempo – secondo la prassi socio giuridica ebraica – la credibilità delle donne fosse assai irrilevante. Ce lo rammenta anche lo storico ebreo Giuseppe Flavio, nato sette anni dopo la crocifissione, che nelle sue Antichità Giudaiche ebbe ad annotare: «Le testimonianze di donne non valgono e non sono ascoltate tra noi, a motivo della leggerezza e della sfacciataggine di quel sesso». Chi avesse voluto architettare un racconto fasullo per poi spacciarlo come autentico, quindi, mai e poi mai si sarebbe servito di testimonianze femminili. Eppure, per i Vangeli, la scoperta del sepolcro vuoto è indubbiamente ed esclusivamente una storia di donne. «Un comportamento inspiegabile – commenta Vittorio Messori -, qualora fosse stato deciso dai redattori evangelici e non imposto invece – come evidentemente è – da una sconcertante realtà di fatto, visto che la comunità cristiana primitiva non è meno “maschilista” dell’ambiente da cui proviene» [19].

Una ulteriore conferma dell’autenticità di quella scoperta davvero effettuata da delle donne, ci viene dalle parole di Schnackenburg: «Per la mentalità giudaica, le donne non venivano prese in considerazione come testimoni; ma ciò nonostante le donne ricordate ebbero notevole importanza agli occhi della Chiesa primitiva per lo storico ruolo da esse sostenuto nella scoperta del sepolcro vuoto […] le donne accompagnano Gesù in tutto il suo cammino […] sono silenziose ma […] eloquenti testimoni di quell’evento unico e più d’ogni altro importante» [20]. In altre parole la centralità delle testimonianze femminili, oltre ad essere documentata in più fasi della vita di Gesù e a divenire della massima importanza con la sua risurrezione, fu talmente concreta che determinò una vera e propria svolta, perché quelle donne «ebbero notevole importanza agli occhi della Chiesa primitiva per lo storico ruolo da esse sostenuto».

A questo punto si può obbiettare che, per quanto curiosi, questi dubbi possono tutt’al più costituire basi per alcune ipotesi e non certo divenire indizi, né tanto meno prove fugando dubbi che rimangono.  Esattamente come rimasero ai seguaci di Gesù: il sepolcro vuoto non li convinse affatto – non tutti almeno, e vedremo tra poco perché – della risurrezione. La conferma è nelle parole di Maria di Màgdala, la quale, spaventata, subito ipotizza un furto o comunque un trasferimento improvviso del cadavere: «Hanno portato via il Signore e non sappiamo dove l’hanno messo!» [21]. Un pensiero che non riguardò solo lei se si tiene presente che, in un primo momento, gli stessi apostoli non pensarono alla risurrezione, anzi, «la domanda che essi si facevano era probabilmente di questo tipo: Che significava questo? Cos’è accaduto? Tutte le ipotesi erano possibili ma nessuna di esse sembrava convincente. Gli apostoli non sapevano proprio cosa pensare. E’ vero che sia la Scrittura che Gesù stesso avevano parlato del Messia in termini di prova, sofferenza, morte e risurrezione, ma nessuna delle donne e dei discepoli poteva immaginare che quelle parole bibliche o di Gesù potessero ora prendere la forma dell’evento che stava sotto ai loro occhi, e che faceva pensare invece ad un’assenza, piuttosto che ad un evento glorioso» [22].

Perché Giovanni «vide e credette»?

Anche se in realtà – dicevamo poc’anzi – qualcuno prima degli altri si convinse della vittoria di Gesù sulla morte ci fu. A riferirlo, ancora una volta, sono i Vangeli, che narrano di come Giovanni, giunto là dove Gesù doveva essere e non era più, «vide e credette». Come mai? Non poche traduzioni recenti affermano che i due discepoli (Giovanni e Pietro), giunti al sepolcro, scrutando all’interno videro «i teli ancora là, e il sudario, che era stato posto sul suo capo, non là con i teli, ma in disparte, ripiegato in un luogo». Tuttavia detta traduzione appare poco convincente dal momento che solleva un interrogativo: per quale ragione, vedendo delle bende funerarie ed un sudario ripiegato, Giovanni «vide e credette»? Non è affatto chiaro. A rendersene conto più di altri è stato un sacerdote, don Antonio Persili, che ha scelto di andare a fondo alla questione mettendosi ad analizzare le fonti originali: i Vangeli scritti in greco.

Ecco le sue conclusioni: «Nell’originale greco è scritto che Pietro, entrando nel sepolcro, vide tà othónia keímena […] la versione della Cei traduce questa espressione con “i teli ancora là”. Altre versioni la traducono con “i teli per terra”. In realtà il verbo keîmai, da cui viene il participio keímena, non significa genericamente “essere lì” né tantomeno “stare per terra”. Esso indica una posizione precisa, significa giacere, essere disteso, in una posizione orizzontale. Ciò vuol dire che i due videro non le fasce a terra, ma le fasce distese, afflosciate, senza essere state sciolte o manomesse. Erano rimaste immobili al loro posto. Probabilmente in una nicchia scavata nella parete, tipica dell’architettura funeraria di tipo signorile, in cui era stato posto il corpo di Gesù. Semplicemente, ora quel corpo non c’era più, e le tele si erano afflosciate su se stesse» [23].

Anche la descrizione della posizione del sudario – che secondo traduzioni recenti era «non là con i teli, ma in disparte, piegato in un luogo» – ha convinto poco don Antonio: «Keímenon, come già keímena, è participio di keîmai, giacere. Ou metà tôn othoníon keímenon significa che il sudario non era disteso come le altre bende. Ma, al contrario (così va tradotto l’avverbio khorìs, in senso modale), appariva arrotolato (entetyligménon, dal verbo entylísso, che significa avvolgere, arrotolare) in una posizione unica, singolare. Così si può tradurre eis héna tópon, che le versioni correnti traducono banalmente come “in un luogo”. Significa che il sudario, a differenza delle fasce distese, appariva sollevato, in maniera quasi innaturale, forse perché su di esso i profumi avevano avuto un effetto inamidante» [24].

Precisazioni, queste, tutt’altro che secondarie. Perché se davvero all’interno del sepolcro c’erano «fasce distese, afflosciate, senza essere state sciolte o manomesse» ed il sudario, a differenza di queste, «appariva sollevato, in maniera quasi innaturale», si può ben comprendere – eccome! – perché Giovanni «vide e credette»: vide l’ultima cosa che si aspettava di vedere, la più incredibile, la più impressionante. Tuttavia lo scopo della nostra piccola indagine era e rimane un altro; e verte su un interrogativo: perché dovrebbe essere “credibile” – ancorché non provabile, ovviamente – la risurrezione di Gesù?

Il dubbio e la grande possibilità

Abbiamo visto come l’ipotesi delle ricostruzioni evangeliche come narrazioni propagandistiche regga poco, prima che alla storia, alla logica: troppe cose non tornano – dalla risurrezione “non vista” da alcuno all’arrivo delle donne al sepolcro, dalla cronaca asciutta alla narrazione di apostoli pavidi al punto da lasciare Gesù solo dall’arresto fino al Calvario [25]  – se gli autori di quei testi erano davvero uomini decisi a divulgare il falso. Anche perché – come nota Sanders – nonostante una lettura critica dei Vangeli porti, dopo la risurrezione, a registrare «storie fortemente divergenti su dove e a chi Gesù apparve», una cosa appare certa: «i suoi seguaci erano sicuri del fatto che Gesù era risorto dalla morte» [26]. In altre parole nessuno nega, dopo il ritrovamento del sepolcro vuoto, la varietà delle esperienze [27] – fino a quel momento coincidenti – vissute da apostoli e discepoli, ma è altrettanto evidente, fra costoro, la comune consapevolezza, anzi la certezza, dell’avvenuta risurrezione.

Donde si originarono quella sicurezza e quella determinazione? Gli apostoli furono veramente – come descrisse allusivamente Petronio nel suo Satyricon – dei poveri creduloni che presero sul serio la risurrezione di un cadavere in realtà trafugato e sostituito, combinazione proprio il terzo giorno, con una persona viva, oppure «videro e credettero», e quindi ebbero riscontri concreti del Gesù Risorto? A giudicare da ciò che da dopo Pasqua fecero della loro vita, dedicandosi alla predicazione incuranti pure del martirio, non ci sono dubbi: erano proprio «sicuri del fatto che Gesù era risorto dalla morte», e di lì a qualche tempo lo scrissero – come abbiamo visto – correndo ben due rischi: quello di essere smentiti da persone e testimoni di quei fatti a quel tempo ancora in vita (l’ultimo Vangelo, quello di Giovanni, è stato redatto sicuramente entro il 90 d.C.), e quello di essere accusati di una narrazione contraddittoria e poco credibile.

Eppure loro, che avevano frequentato a lungo Gesù senza però mai fidarsi fino in fondo di Lui – Pietro lo rinnegò non una ma addirittura tre volte a poche ore dalla crocifissione! -, ad un certo punto, trasformati da una nuova consapevolezza, decisero di spendere quel che rimaneva loro da vivere per annunciare il Risorto. Allucinazione di massa oppure incontro con una realtà talmente grande da dover essere proclamata a tutti i costi? Il nostro percorso si chiude qui: si aprì con una domanda  – la risurrezione è una favola oppure no? – e con una domanda, inevitabilmente, si conclude. Una domanda che non ha naturalmente lo scopo di convincere nessuno, bensì di sollevare un dubbio, per quanto imponente, in fondo assai ragionevole. Il dubbio, cioè, che in quella remota mattina d’aprile, in effetti, qualcosa di straordinario possa essere accaduto. Qualcosa che cambiò totalmente la vita di chi allora c’era e che, a ben vedere, ancora oggi può cambiare quella di ciascuno. Perché se quel sepolcro era vuoto, lo dicevamo all’inizio, il Cristianesimo non è più una religione fra le altre; se quel sepolcro era vuoto, è tutto vero.

Bibliografia

Note: [1] Pascal B. Pensées (trad.it Pensieri, Newton Compton, Roma 1993, p. 92); [2] Cfr. Martini C.M. Il problema storico della risurrezione negli studi recenti, Università Gregoriana Editrice, Roma 1980, p. 15; [3] Dostoevskij F.M., I demoni; Taccuini per “I demoni”, Sansoni, Firenze 1958, p. 1011; [4] I Corinzi 15:17; [5] Biffi I., Verità cristiane nella nebbia della fede, Jaca Book, Milano 2005, pp. 33-34 [6] Cfr. Congar Y.-M.-J. cit. in Messori V. Vivaio, «Avvenire», 28/9/1989, p. 13; [7] Cfr. Guardini R. Le cose ultime, Vita & Pensiero, Milano 1997, p. 78; [8] Biffi G. cit. in AA.VV. Verrà a giudicare i vivi e i morti, «Communio», n.79, 1985, p. 101; [9] Cfr. Biffi I. op.cit. p. 44; [10] DV, 19; [11] Cfr. Dunn J.D.G. Christianity in the Making, vol. I, Jesus Rembered, Eerdemans, Grand Rapids 2003, p. 148; [12] Cfr. AA.VV. Vangelo e storicità, (a cura di Stefano Alberto), BUR Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1995, p. 38; [13] Cfr. Lüdemann et alii, Fand die Auferstehung wirklich statt? Eine Diskussion mit Gerd Lüdemann, Düssedorf-Bonn, 1995; [14] Dall’intervista di Baudino M., Piergiorgio Odifreddi: “Fieri di non credere”, «La Stampa», 1/3/2007, p. 42; [15] Ronchi E. (a cura di), I racconti di Pasqua, San Paolo, Milano 2008, 40; [16] Socci A. Indagine su Gesù, Rizzoli, Milano 2008, p. 262; [17]  Cfr. Ardusso F. La fede provata, Effatà Editrice, Cantalupa (To) 2006, p. 166; [18] Cfr. Sangalli R. E il sole si oscurò, l’ultima ora di Gesù, 19/3/2011 – I Vangeli e l’ultima cena, 5/3/2011, «La Bussola Quotidiana»; [19] Messori V., Dicono che è risorto. Un’indagine sul Sepolcro vuoto, Sei, Torino 2000, p. 41; [20] Schnackenburg R. Vangelo secondo Marco, Città Nuova Editrice, Roma 1973, p. 446; [21] Giovanni, 20:2 [22] Stancati S.T., Escatologia, morte e risurrezione, Editrice Domenicana Italiana, Napoli 2006, p. 225; [23] I primi indizi della resurrezione. Intervista di Gianni Valente, 30 Giorni, anno XIX, febbraio 2001, p. 36s; [24] Ibidem; [25] Cfr. Socci A. Indagine su Gesù, p. 267; [26] Sanders E.P., Gesù. La verità storica, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1995, pp. 281-283; [27] Cfr. Gronchi M. –  Muya J.L. Gesù di Nazaret, un personaggio storico, Paoline, Milano 2005 p. 218.

https://giulianoguzzo.com/2017/04/13/gesu-e-davvero-risorto/

 

08 aprile 2017

Apologetica. Contro l'ipotesi documentaria

(OVVERO SPIEGAZIONI TEOLOGICO FILOSOFICHE FRA MOSÈ E ARISTOTELE)

di Matteo Donadoni

«Sia sul piano scientifico che su quello morale, venni dunque gradualmente avvicinandomi a quella verità, la cui parziale scoperta m'ha poi condotto a un così tremendo naufragio:
l'uomo non è veracemente uno, ma veracemente due»
(Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, R. L. Stevenson)

“Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde” non è stato scritto da Robert Louis Stevenson (1850-1894) di suo pugno. No, il celebre medico, poeta e scrittore scozzese pare non abbia fatto altro che redigere e compilare fonti e frammenti di fonti. In particolare si tratta dei brani riguardanti la fonte J (o Jekyllista), la quale narra dei fatti accaduti al dottor Henry Jekyll, e la fonte H (o Hydista) più tarda, che riporta tutti quei passi, anche controversi, nei quali interviene nella narrazione il signor Edward Hyde. Sul corpus di entrambe le fonti gli studiosi dibattono dubbiosi. Infatti, gli autori profani, per qualche strano motivo non teologico, chiamano con due nomi diversi il signor Henry, ovvero Edward, che in realtà sarebbero la stessa persona.
Esegesi improbabile.

Eppure un’operazione simile venne compiuta nel XIX secolo da alcuni studiosi di area germanofona, di cui non vale la pena ricordare i nomi. Nota come “ipotesi documentaria”, detta anche “teoria delle quattro fonti”, questa teoria è stata poi accettata come scientificamente valida per tutto o quasi il secolo scorso. Una fra le questioni di fondo riguarderebbe il libro della Genesi e le presunte contraddizioni ivi contenute dato l’utilizzo dei nomi ebraici per indicare Dio: אֱלוֹהִים “Elohim” e il Tetragramma sacro  יהוה YHWH. Per spiegare la questione dobbiamo però sapere che Dio non fa mai le cose a caso, ma secondo criterio logico, e l’autore sacro ispirato, nel qual caso Mosè, ha scritto di conseguenza.

Perciò, pur non essendo linguisti del calibro del generale James Johnston Pettigrew (1828-1863), il quale pare disse «La nostra reputazione, dopo i Greci, sarà la più eroica fra le Nazioni», ne abbiamo la presunzione, passiamo ora a trattare dei primi due paragrafi dell’incipit dei Testi Sacri.

Nella fattispecie, la prima unità o perek aleph: Genesi 1,1 – 2,3. Questa sezione racconta della Creazione del mondo (in due fasi) da parte di Dio Onnipotente. Possiamo subito vedere che “Dio” è indicato con il termine Elohim, che, data la desinenza ים… “im” del plurale, non concorda con il verbo “creare dal nulla” “barà”  בָּרָא, che invece è terza persona singolare. Dunque, per esser grammaticalmente preciso, l’autore sacro avrebbe dovuto utilizzare “barù”, che però è termine non usato nel testo sacro, perché rivelerebbe un politeismo che non si dà, poiché unicamente Dio può creare dal nulla. E Dio è “ehad”  אֶחָד. Tuttavia, nella sua infinita sapienza, Egli ha ispirato Mosè in tal senso, affinché, in nuce, fosse da subito presente il mistero della Divina Trinità: il singolare del verbo indica l’unicità della natura (sostanza) di Dio, mentre il plurale del sostantivo indica la pluralità delle persone divine. 

Il perek aleph è un blocco strutturato rigidamente (וַיֹּ֣אמֶר אֱלֹהִ֔ים/  וַיַּ֥רְא אֱלֹהִ֖ים כִּי־טֽוֹב/ …וַֽיְהִי־עֶ֥רֶב וַֽיְהִי־בֹ֖קֶר י֥וֹם) ad indicare con certezza al popolo di Dio che non esistono gli dèi del politeismo pagano, non si celano entità antropomorfe negli elementi, ma la natura tutta è creazione dell’unico Dio di Israele, ed è opera buona. Dunque nella sezione si espone il cosiddetto Teorema di creazione, con cui Elohim, attributo della Giustizia divina, crea dal nulla la materia, che viene definita informe e desolata: il “tohu va vohu” תֹהוּ וָבֹהוּ o caos originario. Da esso viene poi plasmato il mondo tanto che la sezione termina con una natura ordinata, in termini greci il κόσμος dal χάος (Kosmos dal Caos).

Quindi, contemporaneamente, l’autore sacro spiega ai materialisti di tutti i tempi (ad esempio agli atomisti) che la realtà fisica, il mondo, non si è formato per caso dall’incontro scontro fortuito di atomi che cadono nell’etere, ma contiene in sé una struttura propria, voluta e rivelativa di un progetto intelligente. Da notare che מָּיִם “maym”, le acque, non sono da immaginarsi come il verde mare dai riflessi dorati tanto amati da Pavel A. Florenskij (1882-1937): queste acque non sono altro che ciò che gli scienziati, i quali spesso non hanno inventato nulla, chiamano “brodo primordiale”, ovvero l’insieme disordinato degli elementi chimici costitutivi della realtà naturale (gli antichi non erano a conoscenza della tavola periodica degli elementi, che il religioso Mendeleev compilò solamente nel 1869). Dunque il perek aleph spiega, con quel “creò”, il concetto che i rabbini definiscono “yesh me-ayin” יש מאין (letteralmente “c’è da non c’è”) e cioè qualcosa dal nulla, la creazione ex nihilo. Il culmine ontologico assiologico di questa creazione è l’uomo ad immagine e somiglianza di Dio. Tuttavia, se Dio avesse espresso solamente il proprio attributo di Giustizia, probabilmente l’intero universo non avrebbe potuto resistere alla tragedia assiologica dalle conseguenze ontologiche della caduta di Adamo ed Eva nel peccato originale.

Ecco che entra in gioco il perek bet, Genesi dal versetto 2,4 al 3,24. La seconda unità, nella quale Dio è individuato ed espresso con il Tetragramma sacro, Adonai - che erroneamente leggiamo Yahwè - unitamente ad Elohim, e che è l’attributo della Misericordia divina (tutto il perek bet usa entrambi i titoli per venti volte). Nella traduzione dei LXX gli Ebrei alessandrini riportano infatti “il Signore Dio”: Κύριος ὁ Θεὸς. Infatti, i LXX hanno sapientemente tradotto Elohim con “Theòs” e il Tetragramma con “Kyrios”. Quando dunque san Paolo, fariseo, dice le parole “Gesù è il Signore” e cioè “Κύριος Ἰησοῦς” (ex. I Cor 12,3) agli orecchi di un ebreo equivale a sentirsi l’annuncio “Adonai Yehoshua”   יְהוֹשֻׁעַ יהוה , Gesù è Dio. Una bestemmia per lui incomprensibile.
 Il verbo dedicato alla creazione, in questo frangente non è più “barà”, ma “yatzar”  יצר(es  Gen. 2,7 וַיִּיצֶר) ovvero il creare da qualcosa, cioè il plasmare – non a caso è il verbo del vasaio –, lo “yesh me-yesh”יש מיש  (letteralmente “c’è da c’è”). Che non è ex nihilo, ma una forma demiurgica. Tutto ciò perché l’intento dell’autore ispirato è ora differente: non vuole più trattare della creazione, ma del rapporto sussistente fra il Creatore e la sua creatura. Questo Dio di Israele non è il motore immobile dello Stagirita, la Scrittura rivela all’uomo che il suo Creatore gli è vicino, e vuole essere in stretto rapporto con lui. Rivela il rapporto agapico  fra Adonai e Adam. Tutto l’Antico Testamento (così come il Nuovo) esprime la volontà appassionata di Dio di vivere in mezzo al suo popolo.

Ora, ovviamente Elohim e Adonai sono lo stesso unico Dio, Theòs e Kyrios, il Signore Gesù, ma possiamo, utilizzando un linguaggio filosofico, dire che:
Theòs/Elohim è il Dio del mondo noetico, della conoscenza filosofica, il Dio che si giunge a concepire con la ragione umana (Teologia razionale).
Kyrios/Adonai è il Dio del mondo etico, della rivelazione, il Dio che chiama Abramo, che si rivela a Mosè in un roveto ardente dicendo “Io sono colui che sono!” (Esodo 3,14) (Teologia rivelata).

DUNQUE
Come dice Shakespeare, ci son più cose in cielo e in terra di quante ne possa sognare la filosofia di Orazio, perché diversa è la rivelazione divina dalla filosofia umana, anche se non completamente contraddittoria, infatti, Cristo è il Logos al principio di tutte le cose, “generato, non creato, prima di tutte le cose”, e in principio cosa è ? “Berescit” בְּרֵאשִׁ֖ית. Infatti la nostra filosofia naturale, che nel più alto grado fu quella greca, può giungere al monoteismo - e lo ha fatto (implicito già in Socrate) -, ma non colmare aporie sostanziali. Partiamo dalla fine del ragionamento: il Motore immobile dello Stagirita.

Il primo movente muove senza essere mosso, è puro atto. Non ha materia, è puro pensiero che pensa beatamente se stesso (= dimostrazione del secondo piano dell’essere. Ovvero il piano di Dio).

Il problema sembrerebbe risolto, e invece no, perché Aristotele dice che esso causa il moto, ma non lo produce, e cioè che non è una causa efficiente, ma finale: è attraente. D’altra parte nemmeno per gli Epicurei gli dèi, se mai esistono, si curano degli uomini. Nulla a che vedere con quanto espresso nel perek bet. Perché? Perché il primo movente non vuole che le cose si muovano, sono le cose che vogliono arrivare alla perfezione del primo movente. Attrae come fine, ma di nuovo da questa intenzione strutturale sfugge la materia. Il motore immobile spiega l’attualità ma, come il Demiurgo platonico, presuppone la materia. I Greci non sono riusciti a spiegare la materia, che è esclusa dall’Iperuranio e dal Motore immobile. Essa è “chora” per Platone e “hyle” per Aristotele.
Solo alla fine della classicità si arriva alla teoria di creazione della tradizione giudaico-cristiana, che ha contenuti di fede e di ragione (perek aleph).

Infatti l’idea di creazione è spiegabile dalla ragione con la filosofia. Il mondo non viene più concepito come estraneo a Dio, ma come totalmente dipendente da Lui e dalla sua intelligenza creatrice. Aristotele e Platone, infatti, spiegano l’intelligibilità, ma non la materia, che viene spiegata in una visione integrale solo dalla teoria della creazione. Tutta la filosofia classico-medievale trova la sua compiutezza col Teorema di Creazione.
Il Teorema di Creazione è un teorema filosofico che ha la sua genesi nella fede rivelata (diversamente dal dogma della Trinità, che non è filosofico, ma unicamente rivelato dalla fede). Questa creazione ha per culmine l’uomo, tutto è in funzione dell’uomo, tutto è creato al suo servizio ed egli ne è il signore. La rivelazione di Dio stravolge la concezione greca, superandola, mostrando un Creatore che vuole essere vicino alla sua creatura, occupandosene. Passeggiando con lui nel “Gan Eden”.

CONCLUSIONE
Da un romanzo storico ci si aspetta un racconto storicamente verosimile, quanto da un libro giallo  sia lecito attendersi, prima o poi, un omicidio. La Bibbia (fra l’altro) è entrambe le cose. Ma noi non leggiamo  i Testi Sacri per la storia o per gli omicidi di cui narrano. Noi leggiamo la Bibbia, che è sì una raccolta di libri, ma in sostanza perché è un testo profetico. Ovvero il profeta parla a nome di Dio, rivela un pensiero non suo, ma di Dio. Non è la trovata dello scriba del momento, ma Parola eterna e profezia, נְבוּאָה. Perciò non è importante e non interessa teologicamente dire se il testo sacro sia o meno frutto di più correnti o frammenti, redatti o compilati in tempi diversi, da persone diverse - cosa peraltro non provata e improbabile.

Anzi, è totalmente superfluo sostenerlo da parte di un cattolico, perché nello specifico i due passi della Parola sono entrambi ispirati da Dio ad un autore sacro, Mosè, e, a parte il fatto che il loro primo significato è quello letterale, entrambi veicolano un significato di verità, non di falsità o di gretta e speciosa manipolazione a fini politico propagandistici. Oltretutto, restando dal Principio nella medesima Verità, essi portano punti di vista diversi, hanno fini diversi e soprattutto spiegano concetti diversi, secondo la splendente pedagogia di Dio. Lo studioso che spreca tempo ed energie, invece, preoccupandosi di speculare su chi sia il reale autore della Parola di Dio - come se non fosse Dio! -, non viene da Dio, non è un teologo, ma uno sviatore di menti, uno scienziato che ha ingollato un filtro speciale, un intruglio malefico che lo ha fatto perdutamente innamorare della propria intelligenza. Rendendolo un “cieco e guida di ciechi” monsignor Hyde.

La Verità rivelata è, al limite, “veracemente due”, come direbbe Stevenson, ma nel senso che è sempre un’unica verità che si disvela, declinandosi nei diversi modi dell’espressione umana, all’interno della vicenda storica della Salvezza: l’unico piano salvifico che l’unico Dio di Israele ha in serbo per la sua creatura sin dalla fondazione del mondo.

 

15 giugno 2016

Un Campari(soda) con ... Rino Cammilleri


a cura della redazione

Rino Cammilleri è uno dei più famosi e caustici apologeti italiani. Di origini girgentine, si è laureato in Scienze Politiche a Pisa. Dopo essere stato assistente di Diritto Diplomatico e Consolare nella stessa facoltà ed aver insegnato materie giuridiche ed economiche nelle scuole secondarie, ha iniziato l'attività di scrittore, editorialista e conferenziere. Attualmente collabora con il sito La Nuova Bussola Quotidiana, la rivista Studi Cattolici, il quotidiano Il Giornale ed il mensile Il Timone. Cerchiamo di approfondire con lui alcune questioni di attualità.

Il suo lavoro intellettuale ha riguardato prevalentemente l'apologetica, che oggi è in crisi. Persino lo stesso termine "apologetica" è in disuso. Quali sono le cause secondo lei?

Una diversa sensibilità nei chierici, che lentamente ma inesorabilmente ha instaurato un primato dell’ortoprassi a scapito dell’ortodossia. Uno degli aspetti della fede (il soccorso del prossimo) ha eclissato tutti gli altri. Così, la «cultura» è morta. Tuttavia, l’attacco al cristianesimo è sempre stato, e continua ad essere, in primis culturale. E’ per via culturale che il mondo si è scristianizzato.

Leggendo i giornali si scopre che l'Europa si sta suicidando, mentre in Asia e Africa è in corso il martirio di molti cristiani. Che futuro ha il cristianesimo in questi continenti?
Il futuro è nelle mani di Allah, come dicono gli islamici. E io non ho la palla di vetro. Non credo, comunque, che il sangue dei martiri sia seme di cristiani. Per quanto mi riguarda, non potendo fare altro, sto alla finestra a vedere che cosa Cristo escogiterà per la prossima fase. Come diceva Keynes, nel lungo periodo saremo tutti morti. Almeno io.

In questo periodo molto confuso per la Chiesa, molti prelati sembrano aver smarrito il loro ruolo, mentre i laici si stanno organizzando. Come sta cambiando secondo lei il ruolo del laicato?

La trahison di (certi) clercs sta spaccando diverse realtà laicali, ed è ancora presto per chiedersi come andrà a finire. Il trend in atto, se continua così, è la divaricazione tra pastori e greggi varie. Un  esempio tra i tanti: se Medjugorje dovesse venire dichiarata ufficialmente falsa, qualche milionata di fans farebbero semplicemente spallucce.

Qualche tempo fa su "Antidoti" ha parlato di "aria di smobilitazione" della chiesa. Era una provocazione o percepisce davvero questo clima?

Non parlavo della Chiesa, ma di molti apologeti di lungo corso che, ormai anziani e vista l’aria che tira, si stanno progressivamente ritirando a vita privata.

Dopo Amoris Laetitia che sviluppi possiamo aspettarci?

Qui si rischia di fare come i climatologi catastrofisti: infilano nel computer i dati di oggi e li proiettano sul futuro, al grido  di «se continua così…». Ma chi l’ha detto che debba continuare così? I documenti vaticani sono fatti da persone, esseri umani che domattina potrebbero tranquillamente cambiare idea. Lo studio della (lunga) storia della Chiesa mostra che i periodi «confusi» non sono una novità; anzi, parrebbero proprio la regola. Per tornare al paragone meteorologico: se domani pioverà, apriremo l’ombrello. Ma spesso –troppo spesso- le previsioni non ci azzeccano. Dunque, inutile farne. Come diceva san Francesco a chi gli chiedeva che cosa avrebbe fatto se avesse saputo che l’indomani ci sarebbe stata la fine del mondo: continuerei a zappare (stava infatti zappando).
 

22 dicembre 2014

Indagine sul Natale


di Giuliano Guzzo

Per onestà dobbiamo riconoscere che buona parte del Natale, così come lo conosciamo oggi è in effetti “invenzione“. E’ così per il Babbo Natale di rosso vestito, trovata pubblicitaria della più globale delle bevande, la Coca-Cola; il presepe pare risalga al 1223 quando San Francesco – ottenuto il placet di papa Onofrio III – ne costruì il primo “ufficiale” a Greccio, piccolo paese laziale, anche se esistono testimonianze ancora precedenti che raccontano del grande interesse per il presepe da parte dei monaci cistercensi, persuasi più di tutti dell’importanza di far conoscere alla gente ogni fase della vita di Gesù.  E’ “invenzione“, infine, pure l’albero, tradizione inaugurata, pare, nel 1521 a Sélestat, località dell’Alsazia nella cui Bibliothéque Humaniste sono conservati documenti che – per la prima volta – attestano l’esistenza di un albero devozionale abbellito e decorato.
Anche se non si direbbe, risulta tradizione tardiva pure l’idea dei doni, degli auguri e del pranzo natalizio: trattasi, in questo caso, di un’eredità culturale che celebriamo a partire dall’epoca vittoriana.  Più precisamente, il merito è tutto di A Christmas Carol di Charles Dickens, racconto che vide le stampe il 18 dicembre 1843 riscuotendo subito successo e vendendo ben 6.000 copie in appena una settimana. George Orwell, non a caso, dirà che a Natale è «automatico» pensare a Dickens. Accanto a questi dati di fatto, che ci ricordano come il Natale contemporaneo sia in effetti una riuscita stratificazione di tradizioni e usanze differenti per origine storica e geografica, da tempo si sta facendo largo, negli scaffali delle librerie e negli interventi degli intellettuali, un’idea di per sé non nuova ma che non smette di affascinare, vale a dire la convinzione che, dopotutto, la stessa ragion d’essere del Natale, ossia la nascita di Gesù tramandataci dai Vangeli, non sia che un’invenzione.

Pensiamo ad una delle ultime fatiche di Corrado AugiasInchiesta sul Cristianesimo come si costruisce una religione, testo che sin dal titolo mira ad equiparare il Cristianesimo ad un artificio politico, ad un abuso di credulità popolare. Oppure pensiamo a Michel Onfray, che nel suo Traité d’athéologie (2005) scrive:«Con ogni evidenza Gesù è esistito come Ulisse e Zarathustra». Gli fa eco Piergiorgio Odifreddi, che in una delle sue fatiche sostiene che «il Gesù dei Vangeli non è altro che una costruzione letteraria» (Perché non possiamo essere cristiani, Longanesi 2007, p.104). Vi sono poi tentativi più tiepidi e leggeri, quasi comici a dir il vero, di criticare la storia di Gesù e della sua nascita, come quello proposto – non si è capito se volontariamente o meno – da Eugenio Scalfari, il fondatore di Repubblica, secondo cui vicino al Bambino, accanto all’asino, anziché il canonico bue, vi sarebbe stata «una mucca» (L’Espresso, 10/1/2008, p.154).
Decisamente meno morbidi sono stati invece i toni usati da Marcello Craveri e della sua Vita di Gesù (Feltrinelli, 1966), opera fortemente critica sulla vita di Gesù così come siamo abituati a immaginarla. A seguire ed estremizzare queste tesi ci ha pensato, in tempi recenti, Luigi Cascioli, ex prete nonché autodidatta di storia del cristianesimo arciconvinto che Gesù sia una creazione truffaldina della Chiesa delle origini, che avrebbe stravolto la storia di un personaggio del II secolo – a dire di Cascioli – realmente esistito, Giovanni di Gamala. Per meglio rendere l’idea della stravaganza delle tesi di Cascioli è sufficiente ricordare il titolo dell’opera che egli ha scritto e pubblicato a sue spese, La Favola di Gesù Cristo.
Chissà se Bruno Bauer, il teologo berlinese che nella prima metà dell’Ottocento dubitava dell’esistenza storica di Gesù, si sarebbe immaginato – dopo quasi due secoli – di avere ancora così tanti discepoli pronti a riproporre le sue tesi. Il punto è che oggi, lo scetticismo nei confronti della nascita e dell’esistenza di Gesù, non è più un fenomeno ascrivibile solo ad atei praticanti quali Augias ed Onfray. Basti ricordare quanto riferito ai microfoni della Bbc da Rowan Williams, arcivescovo di Canterbury nonché massima carica della Chiesa anglicana, a detta del quale «il mito della natività non è altro che una leggenda» (Avvenire, 21/12/07, p.27).
Anche tra i giovani iscritti a percorsi di studio universitari, la conoscenza di Gesù risulta contrassegnata da una confusione che sconfina talvolta nel ridicolo. A questo proposito, è significativo riprendere quanto ricordato dal filosofo Giovanni Reale: «Un collega mi ha detto che nel corso di un esame, alla domanda che il candidato dicesse chi era Cristo, quel candidato rispose che si trattava di un autore che pubblicava le sue opere per l’editore Mondadori. E la risposta veniva data da uno studente universitario, con alle spalle tutte le scuole elementari, medie e superiori. Si tratta di un monstrum dal punto di vista culturale, di cui non avevo mai sentito l’uguale» (Il Giornale, 14/8/2009, p.10).

Dinnanzi ad affermazioni ed episodi così gravi e sconcertanti, è bene interrogarsi e chiedersi se quella del Natale non sia davvero tutta una fiaba di successo, una sorta di best-seller ante litteram. Allarmato da questa tendenza a screditare la storicità della figura di Gesù, lo stesso Papa emerito – autore, fra l’altro, di una trilogia sull’argomento – già nel corso dell’udienza tenuta il 3 gennaio 2007 denunciava con forza il «dramma del rifiuto di Cristo, che, come in passato, si manifesta e si esprime, purtroppo, anche oggi in tanti modi diversi […] dal netto rigetto all’indifferenza, dall’ateismo scientista alla presentazione di un Gesù modernizzato o postmodernizzato […] oppure un Gesù talmente idealizzato da sembrare talora il personaggio di una fiaba».

Ora, per tentare di replicare a questa diffusa tendenza culturale, potremmo partire chiedendoci quali indizi possano in effetti suffragare la dimostrazione dell’esistenza storica di Gesù. Ebbene, gli indizi in tal senso abbondano: di Gesù troviamo ampia traccia, oltre che nei Vangeli canonici, anche in quelli apocrifi e pure nelle testimonianze di diversi autori non cristiani, tra i quali ricordiamo: Giuseppe Flavio, Plinio il Giovane, Mara Ben Serapion, Luciano di Samosata, Celso e, dulcis in fundo, Tacito, il più grande storico romano. A farci accantonare in modo definitivo l’idea di Gesù quale personaggio leggendario è poi, a ben vedere, il Cristianesimo stesso, a partire da quello degli apostoli, dei quali si conservano ancora oggi le reliquie: possibile che costoro si siano dati alla predicazione, incuranti persino del martirio, per annunciare il verbo di un personaggio mai esistito?
Perfino Rudolf Karl Bultmann, il teologo luterano pioniere di un metodo – quello storico critico – volto a ridimensionare fortemente, quando non del tutto, la divinità di Gesù, se la rideva di quanti negavano l’esistenza storica di Gesù asserendo che «il dubbio che Gesù sia realmente esistito è infondato e non degno di essere confutato. Nessuna persona sana di mente può dubitare che Gesù stia dietro come fondatore al movimento storico, il cui primo livello distinto è rappresentato dalla comunità in Palestina». Assodata quindi – sia pure in estrema sintesi – la storicità di Gesù, possiamo approfondire un’analisi del Natale vagliando i punti nodali della questione.

Iniziamo con l’attesa messianica. L’Antico Testamento risulta letteralmente costellato di profezie concernenti l’avvento di un dominatore del mondo: nella sua Indagine su Gesù (Rizzoli, 2008) Antonio Socci ne ha conteggiate quasi trecento. Come ci ricorda il vaticanista Andrea Tornielli nel suo Inchiesta su Gesù Bambino (Gribaudi, 2005) già nella IV Egloga di Virgilio si annuncia la venuta di un puer, un fanciullo che «riceverà la vita dagli dei […] reggerà il mondo pacificato per le virtù paterne», e grazie al quale l’«età del ferrò cesserà e (quella) dell’oro sorgerà in tutto il mondo».
Un’attesa, quella del Messia, decisamente fondata e diffusa dunque, tanto è vero che spaventò, e molto, Erode. A questo proposito, J. Schniewind annota: «La paura per la venuta del Messia (cioè del Figlio di Davide definitivo, del figlio di Dio aspettato dalla fine dei tempi dai re di Israele) ha veramente caratterizzato gli ultimi anni della vita di Erode […] la tradizione di quel tempo narra anche di consultazioni di Erode con gli scribi a riguardo delle affermazioni regali dell’Antico Testamento: il punto critico di Erode, come sovrano, consisteva nel fatto che, edomita qual era, stava al di fuori dell’attesa regale dell’Antico Testamento, della speranza messianica».
Compresa, sia pure per sommi capi, la fondatezza storica della figura di Gesù Cristo – fondatezza, giova ricordarlo, per nulla inferiore, sul piano documentale, a quella di altri grandi personaggi storici quali Alessandro Magno – e ricordato il clima di attesa che permeava il mondo ebraico dell’epoca, passiamo ora a ricostruire più da vicino l’avvenimento del Natale. Dove e quando nacque Gesù? Precisiamo subito che ignoriamo se effettivamente il Bambino nacque, come siamo soliti immaginare, di notte; i Vangeli canonici non dicono nulla in proposito e ci sono ottime ragioni per ascrivere la paternità di questo particolare al Sant’Ambrogio che, nei suoi Inni, scrive: «Risplende già il tuo presepe/ la notte effonde la tua luce,/ che nessuna tenebra offuschi,/ ma splenda d’inesauribile fede».
Quanto al dove Gesù sia nato, mentre Marco e Giovanni iniziano la loro narrazione dalla sua predicazione, com’è noto sia Matteo che Luca riferiscono, nominandola sette volte, di Betlemme. E poiché vi sono prove attestanti come Betlemme, già a partire dai primi secoli dopo la nascita Gesù, fosse meta di molteplici pellegrinaggi, non si vede ragione – con buona pace di Ernest Renan, secondo cui il Bambino nacque a Nazaret (Cfr. Vie de Jésus, 1863, p. 19) –  per dubitare dell’indicazione dei due evangelisti. Tanto più che l’imperatore Adriano – dopo averla rasa al suolo con l’intento di trasformarla da luogo di culto cristiano (quale già era) a sito di culto pagano – nell’anno 135 consacrò Betlemme al dio Adon, ed è sempre, guarda caso, sull’area della grotta della natività che i romani piantano un bosco sacro. Tra l’altro va ricordato che esiste, nell’Antico Testamento, una esplicita profezia che riconosce quella città come luogo speciale, dove sarebbe nato un Messia.
E’ il libro del profeta Michea (5, 1-3), dove possiamo leggere: «E tu Betlemme di Efrata / così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda / da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele». A quanti sostengono che l’evangelista Matteo, soprattuttto per quanto riguarda i 48 versetti “natalizi” della sua narrazione, abbia “inventato” tutto di sana pianta proprio a partire dalle profezie dell’Antico Testamento (il che spiegherebbe, a detta di costoro, l’impressionante convergenza fra queste ed il contenuto evangelico), facciamo rispondere da un cattolico autorevole ma certo non tacciabile di chiusure pregiudiziali, mons. Gianfranco Ravasi: «L’ipotesi è piuttosto stravagante. Come, infatti, si può “creare” tutto il racconto dei Magi dalla profezia di Michea che […] parla solo di Betlemme? Come “inventare” a partire dall’oracolo di Isaia sulla “vergine” che genere l’Emmanuele tutto il racconto che in realtà è un’annunciazione a Giuseppe?» (I Vangeli di Natale, San Paolo, 1992, p. 31). 
Se, nonostante le inevitabili divergenze, si può dunque ritenere assai fondata l’idea che Gesù – conformemente a quanto insegna la tradizione – sia nato a Betlemme,  più dibattuto, fra gli storici, è l’anno della sua nascita. Qui non ci sono certezze e l’ipotesi più condivisa è che Gesù possa essere nato fra il 6 e 7 a.C. Il punto di partenza per comprendere questa ipotesi è Luca, che scrive: «In quel tempo fu emanato un editto da Cesare Augusto per il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento ebbe luogo quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi iscrivere, ciascuno nella propria città. E anche Giuseppe salì dalla Galilea, nella città di David, chiamata Betlemme, perché egli era della casa e della famiglia di David, per farsi iscrivere insieme a Maria, sua sposa, che era incinta» (Lc. 2, 1 -2). Ora, è provato che Publio Sulpicio Quirinio, nativo di Lanuvium, condusse un censimento in Siria e in Giudea nell’anno 6 d.C. Ma poiché Luca (1,5) e Matteo (2,1) asseriscono concordi che Gesù nacque prima della morte di Erode, avvenuta, secondo Giuseppe Flavio, nel 4 d.C., molti usano questa apparente contraddizione per accusare Luca di essere contraddittorio.
In realtà, come ricorda la storica Marta Sordi (1925-2009), Luca non era affatto sprovveduto ed era, anzi, perfettamente al corrente dell’esistenza del censimento del 6 d.C, al quale peraltro allude con chiarezza (At 5,37). Infatti costui, a scanso d’equivoci, parla esplicitamente di un «primo censimento» (2,2 «apographé prote») nell’epoca in cui Quirinio era legato della Siria. Il punto è che esiste, oltre a questo, un censimento fatto in Giudea da Senzio Saturnino, governatore di Siria fino al 7 a.C. e poi impegnato, probabilmente per la successione del trono di Armenia. L’ipotesi più verosimile appare allora la seguente: che il primo censimento, quello iniziato da Senzio Saturnino, sia stato poi continuato da Quirinio quando questo, prima del 6 a.C., aveva finito la guerra contro gli Omonadensi, e reggeva temporaneamente la legazione di Siria. Anche lo storico Giulio Firpo concorda e aggiunge: «Un altro indizio può suffragare questa ricostruzione: nel 7 a.C., ai sudditi di Erode fu chiesto di giurare fedeltà ad Augusto. Era una richiesta frequente nei censimenti provinciali e secondo molti può essere collegata al censimento ricordato da Luca» (Storia e Dossier, anno VI, n.56, 1991, p. 39).
Non manca neppure chi sostiene, forte di argomenti interessanti, un’altra datazione (Cfr. Loconsole M. Quando è nato Gesù?, San Paolo 2011). Anche perché, guardando ai fenomeni astrali, dopo il 6 e 7 a.C., si sono verificarono altri eventi interessanti e che potrebbero essere ricondotti al fenomeno definito da Matteo come stella. Per esempio le numerose e significative congiunzioni planetarie che si verificarono tra il 3 ed il 2 a.C.: 12 agosto del 3 a.C. la congiunzione di Giove e Venere;  il 14 settembre Giove si congiunse con Regolo (con replica, l’anno dopo, il 17 febbraio); il 17 giugno 2 a.C. si registrò una spettacolare congiunzione tra Giove e Venere nella costellazione del Leone, il 27 agosto di quell’anno, poi, nella costellazione del Leone si congiunsero addirittura quattro pianeti (Giove, Venere, Marte e Mercurio) e, dulcis in fundo, dal 12 agosto del 3 a.C. Giove, ritenuto il pianeta dei re, è sempre presente e dal 2 a.C. – combinazione proprio attorno al 25 dicembre di quell’anno! – inverte il proprio moto rispetto alle stelle fisse più vicine, in pratica – ha osservato Ruggero Sangalli (Cfr. Giove, la stella dei magi, La Bussola Quotidiana, 17/12/2011) – “fermandosi” in cielo.
«Evitiamo – mi ha scritto sempre Sangalli, a commento di un mio articolo sul tema - per quanto ci è possibile, di continuare a screditare la storicità dei fatti, mettendo in dubbio l’attendibilità dei vangeli senza nemmeno mettere in dubbio che a essere fuori strada siano quelli che lo fanno. Luca si accredita come uno storico preciso e infatti lo è. Gesù nacque sul finire del 2 a.C., trent’anni prima del XV anno di Tiberio. L’astronomia conferma: c’erano in atto singolarissime ed eccezionali congiunzioni planetarie. La storia ribadisce: Giuseppe Flavio pone la morte di Erode quasi quattro anni dopo quello che le pessime esegesi gli fanno dire. L’archeologia attesta che il censimento voluto da Augusto era in atto. La biologia aiuta: le pecore danno alla luce gli agnellini a fine autunno (fotoperiodo degli ovini). La tradizione ebraica e la Sacra Scrittura consolidano tutti gli indizi.»
Ciò nonostante – lo dicevamo poc’anzi – per molti studiosi Gesù sarebbe nato tra il 6/7 a.C., ipotesi a cui ci conduce anche la citata e triplice congiunzione tra Saturno e Giove, evento previsto dagli astrologi orientali e che spiegherebbe la venuta dei Magi. Magi che, vale la pena sottolinearlo, non sono nemmeno loro frutto di fantasia. Matteo li racconta come nobili pellegrini e sapienti astronomi, anche se – è vero – i nomi Baldassarre, Gaspare e Melchiorre sono figli della tradizione medievale. Da parte loro, alcuni storici sostengono come le loro spoglie di questi Magi, da Costantinopoli, sarebbero state portate a Milano dal vescovo Eustorgio, mentre altri studiosi affermano che le loro reliquie siano giunte in Italia in seguito alle Crociate. Una cosa risulta certa: le spoglie dei Magi, nel 1162, si trovavano in Lombardia, e da qui, due anni dopo, sarebbero state portate a Colonia da Federico Barbarossa fino a quando, nel 1903, alcune di queste reliquie furono restituite simbolicamente da Colonia a Milano, precisamente a Brugherio, unica località italiana poter vantare la custodia di qualche resto dei nobili e colti adoratori di Gesù.
Tornando alla datazione del Natale, se c’è dibattito sulla questione dell’anno, su quella del giorno si consuma una vera e propria diatriba. E’ difatti diffusa, specie fra persone con una certa istruzione, l’idea che il 25 dicembre come data natalizia fu una scelta convenzionale della Chiesa, promossa per soppiantare il culto pagano del Sol Invictus. Orbene, su quest’idea andrebbe fatta chiarezza. Anzitutto specificando che questa ipotesi – avanzata verso la fine del XII secolo dal vescovo siriano Jacob Bar-Salibi (Cfr. Christianity and Paganism in the Fourth to Eighth Centuries, Ramsay MacMullen, Yale, 1997, p. 155) – viene spesso venduta come una certezza mentre invece è, per l’appunto, solo una ipotesi; peraltro discutibile. Infatti, se la prima citazione della celebrazione del Natale cristiano al 25 dicembre proviene da Ippolito di Roma, martirizzato nel 235 d.C., pare non si abbiano fonti storiche antecedenti, ma solo successive, che alludono al culto Sol Invictus.  Ad ogni modo, il 25 dicembre non è comunque una data inventata o frutto di una scelta “politica”.
Vediamo perché considerando – ancora una volta – quanto riferisce il vangelo di Luca dove si spiega che l’Angelo del Signore, Gabriele, sei mesi prima dell’annunciazione a Maria (Lc 1, 26-38), alla conclusione della solenne e quotidiana celebrazione sacrificale, annunciò all’anziano sacerdote Zaccaria che avrebbe avuto un figlio dalla sua sposa, l’anziana e sterile Elisabetta. Ora, noi sappiamo che nel santuario di Gerusalemme David aveva disposto che i «figli di Aronne» fossero distinti in 24 taxis – sebaot in ebraico – ossia i “turni”. Questo significa che, avvicendandosi in ordine immutabile, tali “classi“, dovevano prestare servizio liturgico per una settimana, da sabato a sabato, due volte l’anno.
Ebbene, grazie ad uno studioso israeliano, Shemarjahu Talmon, che ha esaminato, servendosi del Libro dei Giubilei, la successione dei sopraccitati 24 turni sacerdotali, sappiamo che «il turno di Abia», quello di Zaccaria, corrispondeva all’ultima settimana di settembre. Un dato questo, che corrisponde al rito bizantino che, da secoli, celebra l’annuncio a Zaccaria il 23 settembre.  E quindi, se consideriamo che l’Annunciazione a Maria è fissata quando Elisabetta era al sesto mese – ed è infatti festeggiata dalla Chiesa il 25 Marzo -, capiamo come sia tutto tranne che fantasioso credere che nella notte tra il 24 ed il 25 dicembre, in quel di Betlemme, sia effettivamente nato un Bambino di nome Gesù, un puer destinato a cambiare la storia.

Ora, considerazioni come quelle sin qui svolte non hanno – nè potrebbero avere, vista la loro brevità – la pretesa di esaurire il dibattito e men che meno di archiviare questioni che, almeno fra gli specialisti, sono tutt’ora motivo di discussione. Ciò che invece premeva era mettere ciascuno di noi nella condizione di capire che il Natale che festeggiamo tutto è fuorché la rievocazione di una leggenda. Certo – lo abbiamo ammesso sin dall’inizio – vi sono molti elementi a noi familiari, dall’albero all’idea del pranzo natalizio, che nulla hanno a che vedere con l’autenticità storica del Natale. Vi sono tuttavia molte ragioni per credere che venti secoli fa qualcosa di davvero straordinario sia accaduto, e che quel qualcosa, ancora oggi, abbia molto a vedere con l’autenticità della nostra vita.

http://giulianoguzzo.com/2014/12/15/indagine-sul-natale/