di don Mauro
“Le Forme del Sacro”[1], primo e intrigante lavoro del giovane Luigi Martinelli, fa parte di quei
rari scritti che, pur non essendo sostenuti da grandi penne, minuziosi apparati
critici o approcci sensazionalistici, merita procurarsi e tenere sullo
scaffale: costa poco, è agile e può tornare comodo.
L’argomento del testo è semplice e chiaro: confrontare
la vecchia Messa latina con quella di oggi, più propriamente la forma Extra-ordinaria (FE)
e la forma Ordinaria (FO) del Rito latino della Santa Messa cattolica. Ciò che
stupisce piacevolmente e, oserei dire, seduce, è il punto di fuga: mettiamo da
parte cavilli giuridici, dubbi teologici, sofismi filosofici, nostalgismi un
po’ retro e sfizi estetici. Luigi depone questi vecchi e scomodi puntelli e
assume lo sguardo del regista: sì, figuratevi un regista – la metafora è
mia – un regista di mezza età, non molto avvezzo al domandare religioso e anzi
diciamo praticamente ateo, il quale nel corso di una tranquilla mattinata
domenicale capiti occasionalmente in un paio di chiese cattoliche, e si trovi
ad assistere prima ad un rito antico e poi ad uno moderno (mi si scusi
l’ostinata imprecisione nella dicitura). Cosa vede quest’uomo? Cosa prova
quest’uomo? Quali gli elementi esterni, oggettivi, culturali, universali che
gli parlano?
Propongo il libro a un mio confratello, ma incontro
disagio: il Concilio, l’obbedienza, lo Spirito, tutti impedimenta a una
riflessione critica sul tema. Ecco, c’è una buona notizia per tutti: c’è uno
sguardo nuovo e sempre antico, lo sguardo del drammaturgo, lo sguardo dell’uomo
di cultura, del gentile – va tanto di moda! – che ha eletto a suo cortile il
palcoscenico, questo sguardo ha qualcosa da insegnarci, ha una dignità di
pensiero da restituirci come uomini, una libertà di dibattito che sta al di qua
di qualsiasi caposaldo religioso, un’apertura di vedute che ci permette il
confronto sereno e spregiudicato persino sulla liturgia (che è pur sempre una
realtà di questo mondo), e il tutto senza minimamente pensare, né tantomeno
aver da ridire, circa i precetti che la Chiesa, madre amorosa, dispensa ai fedeli.
Spendo un’ultima parola su questo tema e poi inizierei
con voi a scorrere, passo passo, gli snodi più brillanti del saggio.
Il momento è delicato. In una transizione non
facilissima tra Benedetto XVI e Francesco si assiste ad un significativo travaglio
di alcuni settori ecclesiali, non ultimi quelli affezionati alla Tradizione e
alle Sue forme liturgiche. Se da un lato c’è chi ha scritto “Questo Papa
piace troppo” o va addirittura asserendo che “Non è Francesco” il Papa,
dall’altro ordini serafici come i Francescani dell’Immacolata sono stati
severamente duramente commissariati per cause opinabili e non pochi sacerdoti
hanno iniziato a subire pressioni ingenerose per il loro stile liturgico
“benedettiano”. Rispetto a ciò tornano in mente le dichiarazioni perentorie di
san Basilio Magno: «solo un peccato è ora
gravemente punito: l’attenta osservanza delle tradizioni dei nostri Padri. Per
tale ragione i buoni sono allontanati dai loro Paesi e portati nel deserto». E’
in questo clima greve e decisamente poco sereno, non privo di eccessi da
entrambe le sponde, che scende attesa come rugiada sul vello l’indagine di
Martinelli. Per noi comuni mortali, affatto digiuni di battage
teologico-dottrinali, felici della situazione ordinaria della santa Chiesa, ma
anche desiderosi di riscoprirne con serenità i perpetui tesori liturgici,
serviva giustappunto un corridoio neutrale attraverso cui divincolarsi dai
lacci delle polemiche facili e garantirsi i doni universalmente e
legittimamente dischiusi col Motu Proprio Summorum Pontificum. Ripartiamo
da una prospettiva antropologica, ripassiamo con i maestri del teatro la
grammatica del più verace linguaggio simbolico, sforziamoci di ricostruire il sensus
liturgico con mitezza e pazienza, con umiltà e perseveranza, incominciando da
ciò che ci unisce e cioè la cultura, l’humanitas, l’arte, la bellezza.
Ci prende per mano Martinelli in questo nuovo itinerario, il cui obiettivo
finale, ricorda mons. Nicola Bux dalle pagine della Prefazione, «vuole
essere quello di comparare la liturgia cristiana e il mondo del teatro, non
soltanto sotto il profilo di presunte analogie, ma per suggerire una
rivalutazione della performance rituale in ambito liturgico». Della prefazione di Bux dovremo trattenere
anche una seconda importante considerazione, laddove con Terrin si ricorda che
«la ritualità è il sostrato comune di ogni liturgia... sia che i liturgisti
acconsentano a questo fatto sia che lo neghino per motivazioni allotrie o
pregiudiziose», principio fondamentale di razionalità e trasparenza
epistemologica, vero baluardo di libertà della ratio contro ogni nuova
forma di fideismo liturgico.
Le forme del sacro
Veniamo al testo vero e proprio, che si apre con una
ricognizione di gusto squisitamente teatrale, in cui si fissano alcuni fondamentali
teoretici e storici della disciplina. Si parte ricordando che «l'azione rituale è il
primo momento di organizzazione dell'esperienza che facciamo», e
puntualizzando che «la rappresentazione del reale come puro pensiero vale
soltanto per noi occidentali post-industriali che non conosciamo più
l'importanza del corpo», dal che si capisce l’urgenza di uno studio in cui,
«oltre il riduzionismo contemporaneo del cristianesimo, diviso tra dimensione
conoscitiva e dimensione etica, lo studio della performance permetta di
recuperare il valore della azione», che va ricompresa quale «intreccio
indissolubile di forma e contenuto» attraverso cui «le credenze cosmologiche
vengono trasmesse». Forti di questa lezione veniamo quindi invitati a
individuare le dimensioni fondamentali della ritualità, luogo in cui si
«innesca una contrazione della creatività»; si afferma una formalità che
propriamente «consente l'efficacia del sacramento»; vengono portati «in
primo piano i significanti non i significati, il comportamento convenzionale
non quello intenzionale»; si garantisce una impressione di stabilità
(anche solo presunta), per la quale risulta «meno importante che il rito per
secoli e secoli sia rimasto del tutto invariato, piuttosto che esso sia
percepito e vissuto dai partecipanti come appunto invariato»; ed infine, nella
ricchezza di relazioni intrattenute tra rito e teatro, si comprende quanto sia «importante
la dinamica della formalità ripetitiva come un meccanismo fondamentale ed
efficace».
Donde nasce allora la distanza attuale tra ritualità
performativa e liturgia cristiana? Essa si instaura nella visione dei «protestanti,
sostenitori della religiosità spirituale e del rapporto interiore tra l'uomo e
Dio», cui cronologicamente segue «l'atteggiamento moderno… quello di svalutare
il rituale, spostando l'attenzione dal suo potere emotivo al suo significato»,
per poi slittare sulla risposta della controriforma cattolica con cui si
«separa nettamente il sacro e il profano, che nel medioevo erano mescolati». E’
in tal modo che entriamo nella pienezza della modernità con la conseguente
«dittatura del logocentrismo». Servirà quindi qualche secolo per riuscire a
divincolarsi da tanto angusto reticolo, cosa che avverrà provvidenzialmente col
teatro novecentesco, ma solo con esso. Non altrettanto infatti possiamo dire
circa gli esiti della liturgia contemporanea, che evidentemente «non ha
recepito l'istanza simbolica del teatro novecentesco, propendendo per
l'assunzione mitigata delle proteste luterane, fino ad entrare in una rischiosa
competizione con tutti quei mezzi di comunicazione, rappresentazione... da cui
il teatro, per non essere sopraffatto, si è tenuto lontano». Giudizio tagliente
e per molti scomodo, però argomentato, profondo e perciò meritevole di studio e
riflessione.
Performance nel rito romano
Facciamo un passo ulteriore, andiamo a guardare in
modo sommario agli aspetti drammaturgici che contraddistinguono in linea
generale la liturgia cristiano-cattolica. Cosa bisogna tenere da conto in
una analisi del rito nell’ottica della performance? Lo puntualizza il secondo
capitolo. Si parla anzitutto dell’imprescindibilità della forma, perché
il rito «si esprime a livello esteriore», ma anche del suo legame indissolubile
con il contenuto. Qui si argomenta la plausibilità di una duplice formalità
rituale in seno al cattolicesimo latino – passaggio delicato, ne avvisiamo
Martinelli, tale da procurargli i duraturi odi da sponda conservatrice e
progressista –, in quanto fondata sulla duplice polarità
tematico-contenutistica del culto eucaristico: sacrificio e cena.
Segue la presentazione delle componenti rituali
fondamentali,
illustrazione né minuziosa né trascurata di alcuni elementi emblematici che
verranno successivamente scandagliati nel loro differente modo di presentarsi
all’interno della FE e della FO. Si descrivono dunque ruolo e importanza del
linguaggio, della vocalità, del canto e del silenzio, dei gesti corporei, degli
arredi e del vestire considerati quali parti imprescindibili della ritualità e
suoi momenti performativi essenziali. In queste pagine l’autore
opera così una prima fusione tra liturgia e teatro, immergendosi ormai
definitivamente nel primo dei due ambiti, getta uno sguardo panoramico sui
grandi temi del suo studio, fornisce al lettore un vocabolario introduttivo, il
tutto echeggiando fenomenologie del liturgico dal sapore inconfondibilmente e
piacevolmente guardiniano.
[1] Luigi
Martinelli, Le forme del Sacro. La performance nel rito romano,
Cavinato, Brescia 2014. Già disponibile in ebook e dal gennaio 2015 anche in
stampa cartacea.