Il terzo capitolo presenta “Il rito romano nella forma straordinaria”. Le suggestioni teatrali e le coordinate liturgico-performative delle due sezioni precedenti sono ora applicate alla FE. Dapprima vengono spiegate le tappe storiche cha anno portato con San Pio V al consolidamento del messale tridentino, particolarmente la necessità di restaurare la ritualità tradizionale offuscata dalle ampollosità medievali occorse, e quella di ribadire e rinforzare il carattere della Messa quale Sacrificio in opposizione ai riduzionismi luterani. Segue l’analisi drammaturgica dell’ordo Missae che coincide con l’illustrazione ragionata delle principali parti del rito. Non voglio seguirla nei suoi particolari, la cui finezza potrete gustare da voi stessi nelle agili pagine dedicate al tema. Noto solo essere una scelta felice, da un punto di vista euristico, lo sguardo di simpatia e benevolenza con cui l’autore considera gli usi tradizionali fin nei loro dettagli, il che permette di ricostruire senza irrisione il senso e l’apprezzabilità delle diverse componenti affrontate: il valore della lingua latina, la modulazione di tonalità nel recitativo del sacerdote, la costitutività rituale del silenzio (oggi perduta, come diremo), la studiata normatività del canto, l’accortezza spirituale e rituale riflessa fin nella tipografia dei messali, l’orientamento spaziale dell’altare e lo slancio sacrale del presbiterio (balaustre, gradinate, solennità); la valorizzazione della corporeità nella preghiera fisica, l’importanza della fissità gestuale contro ogni indebito spontaneismo.
Su tutto viene messo in luce, a mo’ di ricetta vincente, il ben difeso tripode
“intenzione, attenzione e azione”, la FE infatti «conserva la più importante
proprietà del ritus
che è quella di operare una trasformazione sulla realtà», possibile proprio
perché «la liturgia antica è dominata dalla azione, dal gesto, dal corpo, dal
movimento...». A questa riflessione sulle componenti drammaturgicamente
connotanti del rito segue una presentazione sintetica e schematica dell’ordo liturgico,
propriamente didattica ed utile a chi non ne conoscesse la scansione precisa.
Martinelli da ultimo indica i limiti della liturgia tradizionale insorti da
Trento in qua, e li individua nell’accumularsi di influssi dell’umanesimo
(latore di un entusiasmo ingenuo per l'antico), del protestantesimo (che accentua
l’intimismo amorfo), dell’illuminismo (fautore di un razionalismo logocentrico
deleterio per le dimensioni dell’emotivo e del corporale); ad essi vanno
assommate una eccessiva rigidità e fissità, caratteri spuri per la liturgia,
dipesi da un controllo rigido da parte delle gerarchie attuato senza
sufficiente formazione e aggiornamento, sì da ridurre nei secoli la stessa
scienza liturgica a mera compilazione e studio di rubriche; infine si denuncia
la decadenza di una liturgia ormai incrostata dai principali difetti del
ritualismo moderno (molti dei quali curiosamente corrispondenti alle brutture
di tante celebrazioni contemporanee): razionalismo, confusione, logocentrismo,
cattivo gusto, trascuratezza. Sul terminare del capitolo l’autore non manca poi
di tratteggiare la difesa della participatio
liturgica rettamente intesa, per la quale il fedele “più che capire, vuole
anzitutto vivere un’esperienza spirituale”; indicazione significativa e felice
punto di raccordo su cui FE e FO dovrebbero convergere sempre.
Il rito romano nella forma ordinaria
Il
capitolo quarto riprende, pressoché in parallelo col precedente, le tematiche e
le analisi fin qui svolte, applicandole questa volta al “Rito romano nella
forma ordinaria”. Echeggiano in apertura le importanti considerazioni
dell’ancora card. Montini: «tutto sembra cospirare a rendere difficile
l’intelligenza della liturgia, specialmente all’uomo moderno abituato a ridurre
ogni sua cosa ad un’estrema intelligenza e credere di capire una verità quando
ha potuto figurarla in un’immagine sensibile, in una figura geometrica, in uno
schema intuitivo». Le ragioni del rinnovamento sono così riportate da un lato
all’influsso del nuovo ordine mondiale «che ha plasmato una nuova coscienza
umana consacrando definitivamente la centralità dell’uomo con le sue libertà ed
i suoi diritti», dall’altro alla volontà della Chiesa di fornire col nuovo ordo Missae
«maggior spazio alle spiegazioni teologiche e spirituali come fossero una sorta
di iniziazione teologica, biblica e pastorale, limitando il più possibile le
regole cerimoniali». La ricognizione storica però, a fronte di nobili intenti,
deve ammettere che la riforma non si è «mai conclusa definitivamente» ed è pure
rimasta in scacco di una articolata ed ambigua dialettica tra intenti
conciliari e comitati post-conciliari. L’osservazione forse più acuta e
pungente in merito alla genesi storica della FO è dello studioso Ratzinger, il
quale nota come «al posto di una liturgia frutto di uno sviluppo continuo è
stata messa una liturgia fabbricata», sì da avere un cerimoniale creato, non
generato. L’accentuazione della dimensione sociologica, simposiale ed
orizzontale è ricostruita dalle stesse dichiarazioni di Paolo VI. In sintesi la
FO insiste sulla Messa come luogo di istruzione, memoria dell’ultima cena,
realizzazione di una comunione fraterna, il che spiega il consequenziale
ridimensionamento di «tutte quelle preghiere che esprimono l’indegnità dinanzi
al mistero che si celebra» o anche il prevalere del «carattere di lode e ringraziamento
mentre viene ridimensionato l’aspetto propiziatorio e impetratorio». Si innesta
qui l’analisi drammaturgica – invero poco generosa - cui non sfugge anzitutto
l’eliminazione del punto fermo che separa la parte narrativa dalla parte
sacramentale, e annota la nuova gestualità sacerdotale fatta di «gesti minimi e
sobri adatti al memoriale», ove le stesse «rubriche non richiamano più i
movimenti di Gesù e non indicano una mutazione gestuale e tonale fra narrazione
ed azione». La volontà di coinvolgere i fedeli sul piano razionale, mentale,
intellettivo è ulteriormente confermata dalle parole del beato pontefice
bresciano: «vale di più l’intelligenza della preghiera, che non le vesti
seriche e vetuste di cui essa s’è regalmente rivestita; vale di più la
partecipazione del popolo, di questo popolo moderno saturo di parola chiara,
intelligibile, traducibile nella sua conversazione profana». In questo modo la
FO compie quasi programmaticamente «il passaggio da una chiarezza dei testi
delle orazioni ad un loro sostanziale impoverimento» e più in generale «porta
tutto allo scoperto, aggirando il senso del mistero e riducendo il senso del
sacro» con l’esito paradossale di una «nuova forma di clericalismo» imposta
dall’ingombrante «giovialità e la familiarità del celebrante con la
congregazione» (Von Balthasar).
Andando ad esaminare le singole componenti
dell’azione rituale registriamo una «sovraesposizione fonetica, nella loquacità
impropria dei sacerdoti e dei commentatori» (difetto già emerso nelle fasi decadenti
della FE), nella marginalizzazione del silenzio che non è più «parte integrante
dell’accadere della celebrazione, ma piuttosto una pausa» al punto che «l’unico
momento in cui il silenzio riveste un ruolo fondamentale è al momento
dell’elevazione delle specie transustanziate, tuttavia l’acclamazione dei
fedeli dopo il Mistero della fede si presenta come un elemento di forte
discontinuità». Caoticità, allegria superficiale, disturbo, superficialità,
auto-compiacimento, ambiguità sono gli ulteriori caratteri spesso suggeriti e
favoriti dalle novità della musica (invadente, profana), dello spazio
(circolare, appianato, spettacolarizzato), dei gesti (tra censure di antiche
prassi e insignificanza delle nuove), dalla penuria di attenzioni riservate
alle specie eucaristiche. A fronte di ciò Martinelli riporta la dura
provocazione di Artaud, maestro del “Teatro delle crudeltà”, «un teatro che
subordini la regia e lo spettacolo al testo è un teatro di idioti, di pazzi, di
inveriti, di occidentali», e chiosa con una osservazione piana: «le performance
rituali proprie della tradizione cristiana possono apparire minimal, tuttavia
ogni gesto, ogni azione, ogni movimento necessitano di essere recuperati ed
eseguiti con la massima cura, perché se messi in atto tutti insieme con serietà
e precisione risultano altamente efficaci». Conclusa la disamina drammaturgica,
segue anche in questo caso l’elencazione schematica delle singole parti del
rito. A conclusione di capitolo vengono quindi presentati i limiti della FO, si
tratta di giudizi tanto onesti e rispettosi, quanto severi, in cui viene
sottolineata la dialettica teatro-massmedia, dromenon-legomenon,
azione-narrazione, comprensione-intelligibilità, emozione-mente,
esoterico-essoterico quale importante cifra ermeneutica della riforma avvenuta,
tale da portarci a dichiarare che «il rituale cristiano ha subito una cattiva
sorte» divenendo «un fatto cognitivistico che avrebbe dovuto essere
immediatamente funzionale alla pastorale». E’ il trionfo dell’illuminismo de facto, come
sottolineato da un lucido card. Martini: «tutto si era razionalizzato,
codificato… regolato dalle leggi della psicologia, della comunicazione sociale…
ci sono delle esplosioni interne della fede che non si possono ridurre a
formule e che nella liturgia precedente, attraverso il mistero, in fondo erano
tutte meglio presenti». Si badi bene: che non si tratti di una critica ottusa
alla FO, bensì di una disamina accorata, lo si deduce dal fatto che Martinelli
ha individuato il problema non nel Concilio o nella Riforma successiva in
quanto tale, bensì negli eventi storici specifici che l’hanno attualizzata ed
interpretata, particolarmente nella «tendenza a sviluppare i principi del
Concilio in una sola direzione» e cioè «assumendo le forme indefinite e confuse
del post-moderno», che hanno generato «un eclettismo di rappresentazioni senza
fine» tali da rendere noi tutti «testimoni di una catena di performance che
nascono e muoiono» e da suscitare quale fenomeno socio-culturale il «ritorno
minaccioso del chaos contro il kosmos». E ancora, l’autore distingue tra i
precetti liturgici e la prassi ribelle di «molti preti che hanno elevato
deliberatamente la desacralizzazione a livello di un programma», riducendo «la
liturgia alla lingua e ai gesti di una vita ordinaria» in cui il rito «viene
vissuto come se non oltrepassasse il senso e il valore di un incontro
conviviale fraterno». In ultima istanza, dopo le osservazioni relative alla
storia e alla drammaturgia rituale, dopo le considerazioni inerenti le
applicazioni caoticizzanti della FO, giungiamo ad un terzo e sottile problema,
quello della corsa ai rimedi. Purtroppo, quand’anche nella diagnosi si riesca a
trovare consonanza di vedute (il che non è molto frequente), si alimentano
subito nuove divergenze quanto alla cura da applicarsi, ed ecco dunque che i
moderni «liturgisti o animatori liturgici, per togliere la messa dal pantano
raziocinante e renderla più coinvolgente, sbizzarriscono la loro fantasia»,
facendo subentrare danze, canti pop, applausi, banalità e pastiche tutti
connotati a loro volta di chiari accenti «post-moderni: l’interdisciplinarietà,
la disorganizzazione dei segni, l’ambiguità ed arbitrarietà delle
interpretazioni», il cui risultato «è frutto dell’inventiva di un pugno di
persone abili e capaci».
Conclusione
La
conclusione riprende le suggestioni del teatro contemporaneo e le eleva a
possibile paradigma di risanamento liturgico, ribadisce il coraggio del teatro
novecentesco «di emanciparsi dall’intellettualismo, dalla letteratura e dalla
psicologia, per recuperare il rapporto con la performance fisica e le sue
origini attuali» mentre «la liturgia ha continuato la strada verso la modernità»,
allude nuovamente all’opportunità che il rito sacrificale impari qualcosa dal
Teatro delle Crudeltà (paradossale ironia dei semina verbi di
conciliare memoria), nello specifico apprezza il fatto che «la liturgia antica
sembra possedere una struttura performativa in linea con le caratteristiche
formali del rito identificate da Rappaport, cioè la formalità, la ripetitività,
la convenzionalità, la canonicità, l’immodificabilità, il potere trasformativo
sulla realtà», mettendo invece fuori circuito ogni aspetto «mutevole,
sperimentale e instabile» (proprietà della FO).
Per Martinelli, in ciò fedele alla linea di Bux, «la speranza è che la forma
straordinaria influisca positivamente sulla liturgia ordinaria affinché si
recuperi il valore della performance e la liturgia ritorni ad essere una viva
ed attiva esperienza di fede».
Per
noi l’auspicio è che il saggio di Martinelli possa divenire spunto per un
confronto serio, che possa almeno sottrarre la discussione all’arbitrio e al
sequestro cui è stata sottoposta fino ad oggi da teologi e liturgisti.
Importante sarebbe approfondire il senso della liturgia nell’alveo della storia
del teatro e in contrasto con la decadenza del mondo dello spettacolo, magari
inserendola in una prospettiva teologico-filosofica attenta ai problemi della
post-modernità e della cultura del chaos di ritorno (si pensi alla dittatura
iper-razionalistica ed anti-naturalista della gender theory). Allora si
potranno ripristinare le ragioni del rito nei suoi inalienabili snodi antropologici
ed operare di conseguenza: non per un complotto anti-conciliare o per un vezzo
intellettualista, al contrario per rendere il miglior servizio possibile al
popolo di Dio nelle sfide che la storia gli presenta, e per dare attuazione nel
modo più utile, fruttuoso e significativo al gesto liturgico, cercando non ciò
che divide, non la Rivoluzione, ma ciò che unisce, la riforma nella continuità,
per un fraterno supporto che la FE e la FO possono e debbono darsi ad maiorem Dei
gloriam et salutem animarum!
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