Visualizzazione post con etichetta Assad. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Assad. Mostra tutti i post

07 aprile 2017

Futuro incerto nel centenario di Fatima. Svolta pericolosa di Trump in Siria


di Alessandro Rico

L’azione militare lanciata da Donald Trump in Siria coglie di sorpresa in molti, deludendo quanti avevano sperato che il nuovo presidente invertisse il corso della politica estera imperialista degli Stati Uniti «poliziotti del mondo».

Non è semplice determinare le cause che hanno portato Trump a prendere questa drammatica decisione. Probabilmente delle avvisaglie su un cambio di rotta andavano già ravvisate nella scelta di estromettere Steve Bannon, fin qui quasi un alter ego del tycoon newyorkese, dal National Security Council. Una mossa che indicava il tentativo di The Donald di costruirsi una reputazione più istituzionale: Bannon, privo di esperienza sul campo, era stato preferito al generale McMaster, emblema dell’influenza dei militari sul governo americano. La pressione del complesso militare-industriale, denunciato in tempi non sospetti dal presidente Dwight Eisenhower, potrebbe forse spiegare l’inversione a U di Trump sulla questione siriana, anche se il Segretario di Stato Rex Tillerson ha sottolineato che il bombardamento di stanotte non indica la volontà di destituire Assad. Si tratterebbe, dunque, di una rappresaglia per aver violato l’accordo del 2013 sulla distruzione dell’arsenale chimico; e Trump potrebbe forse usare questa vicenda come pretesto per accusare di debolezza il predecessore Obama, il quale avrebbe vigilato male sul rispetto dei patti, visto che le armi chimiche siriane erano state trasferite nel porto di Gioia Tauro e poi distrutte sotto la supervisione dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche.

Di sicuro, la manovra di Trump risponde all’esigenza di evitare l’accerchiamento interno. La politica di disimpegno che aveva costituito una parte essenziale della sua campagna elettorale non piace a quello schieramento trasversale di falchi, da John MacCain alla stessa Hillary Clinton, che nel Russiagate ha trovato forse un’arma di ricatto. È vero, le intercettazioni ottenute dalla Consigliera per la sicurezza nazionale di Obama, Susan Rice, e poi prontamente girate ai giornali compiacenti, non contenevano materiale esplosivo. Ma qualche giorno fa Michael Flynn aveva dato l’impressione di voler cedere, annunciando di essere pronto a testimoniare sui legami tra Russia e amministrazione Trump, in cambio dell’immunità. L’obiettivo dei nemici di The Donald è chiaramente l’impeachment e, secondo i leaks di Julian Assange, nel complotto sarebbe coinvolto persino il suo vice Mike Pence, che i congiurati vorrebbero sostituire a Trump in quanto, secondo la Clinton, Pence sarebbe un personaggio «prevedibile, quindi neutralizzabile».

Se Trump sente il fiato sul collo, è ragionevole pensare che voglia dimostrare di non essere un burattino dei russi. Ma è pur vero che un presidente che si rimangia un pezzo importante del suo progetto di politica estera, provocando la Russia come neppure Obama aveva fatto (in fondo, il predecessore si era «limitato» a minacce, schermaglie e simbolici schieramenti di truppe), non solo dà un segnale di debolezza, non solo crea un precedente che ora i suoi nemici potranno sfruttare ogni volta che vorranno fare pressione, ma dimostra pure di non essere uno statista, sacrificando tutti i principi sull’altare della realpolitik. La qualità di un grande politico si misura anche così: se si serve della necessaria dote di pragmatismo per fare la differenza, a costo di essere criticato e combattuto, oppure se si accontenta degli elogi del New York Times.

Una versione più indulgente verso il presidente americano è quella che si concentra esclusivamente sulla situazione internazionale e sulla reale entità dell’attacco, che è stato invero piuttosto modesto, diretto a una base già evacuata (probabilmente Mosca e Damasco erano stati avvertiti in anticipo) e con danni contenuti. In questo scenario, Trump avrebbe cercato di alzare l’asticella per negoziare con i russi da una posizione di forza, ma non avrebbe davvero intenzione di spingersi là dove l’amministrazione Obama e la Clinton non erano arrivati. Il futuro della Siria potrebbe rimanere nelle mani di Assad, oppure quest’ultimo sarebbe costretto a un’uscita di scena dignitosa (ma poi non è chiaro con chi e come andrebbe sostituito). Insomma, Trump starebbe comunicando a Putin che il riavvicinamento non significa sudditanza e che l’attore più forte rimane ancora gli Stati Uniti. Inoltre, il tycoon newyorkese potrebbe ridisegnare gli equilibri europei a proprio favore: nella guerra commerciale in corso con la Germania, la mossa degli Usa favorisce gli interessi di Gran Bretagna e Francia, non proprio in ottimi rapporti con Berlino, che per coerenza con le proprie posizioni sui diritti umani dovrebbe supportare Trump. Non dimentichiamo, infine, che mentre The Donald ordinava l’attacco era in Florida con il leader cinese Xi Jinping: mostrare i muscoli alla presenza di un concorrente che Trump ha più volte attaccato e che, durante il G20 di Baden-Baden, aveva fatto fronte comune con i tedeschi contro il protezionismo, è un atto di forza che certamente non può passare inosservato, specialmente dopo le critiche del presidente Usa a Pechino sulla gestione dell’affare Corea del Nord.

In ultima analisi, comunque, è sicuro che da una ulteriore destabilizzazione della Siria, che arriva in un momento in cui l’Isis sembrava davvero con le spalle al muro, a pagare il prezzo più alto saranno le minoranze religiose, specialmente i cristiani. Il regime laico di Assad e il sistema della spartizione delle cariche in base all’appartenenza etnica e confessionale avevano garantito una certa tutela ai nostri fratelli nella fede, che dallo scoppio della guerra civile soffrono terribili persecuzioni. Non è un caso se il vescovo di Aleppo si è schierato a fianco di Assad, sollevando dubbi sulla vicenda del bombardamento chimico di Idlib.

E forse non è un caso neppure che tutto questo stia avvenendo nell’anno del centenario di Fatima. Due potenze nucleari si provocano a vicenda, tira aria da terza guerra mondiale. Se i cento anni di regno del demonio profetizzati dalla Beata Emmerick stanno volgendo al termine, può darsi che questa sia l’ora della resa dei conti.

 

Le tante incongruenze sul bombardamento chimico in Siria

Pubblichiamo questo articolo apparso ieri su La Verità, nel quale si pongono alcuni dubbi riguardo "l'attacco chimico" attribuito in questi giorni al governo di Assad, contro donne e bambini. Purtroppo questa notte gli Stati Uniti a presidenza Trump hanno bombardato una postazione militare siriana, adducendo a pretesto proprio la necessità di "punire" l'attacco di cui sopra.


di Alessandro Rico

Crimine di guerra o tragico incidente? Nella vicenda del bombardamento chimico in Siria, che i ribelli attribuiscono ad Bashar al-Assad, molte cose non quadrano.
Innanzitutto, guardiamo alla tempistica degli eventi. Il 3 aprile si verifica un attacco terroristico a San Pietroburgo. Nemmeno ventiquattro ore dopo scatta la filiera delle Ong, dall’Osservatorio siriano per i diritti umani (che stranamente ha sede a Londra) all’Unicef, che diffonde un comunicato apocalittico: «L’umanità è morta», Assad ha bombardato il villaggio di Khan Shaykhun con ordigni chimici, sono state uccise più di 70 persone, tra cui 20 bambini. È indubbiamente strano che, proprio quando gli Stati Uniti di Donald Trump, “falchi” permettendo, sembrano voler rinunciare ai piani di regime change, proprio mentre l’Isis è alle strette, Assad commetta un grossolano errore strategico. Tanto più che, come frutto di un accordo del 2013 tra Mosca e Washington, il regime siriano aveva consegnato tutto l’arsenale chimico per farlo distruggere. L’intesa era stata salutata come una vittoria da Assad, che così aveva scongiurato un intervento dell’Onu. Possibile che adesso fornisca alla coalizione occidentale un ottimo pretesto per destituirlo? E non è curioso che ciò avvenga all’indomani di un attentato in Russia, dando ai media anti-Putin l’opportunità di insinuare che il bombardamento sia stato una rappresaglia o che, peggio, l’attacco a San Pietroburgo fosse pilotato?

Ci sono perplessità pure sulle fonti. A diffondere le immagini del massacro è la solita agenzia Idlib Media Center, vicina ai ribelli. Dallo stesso milieu era partita la foto, diventata poi un’icona della guerra civile siriana, del bimbo di Aleppo coperto di polvere e con il volto insanguinato. Secondo ambienti filorussi, quella foto sarebbe stata un falso. Attribuiti a un reporter sconosciuto (nessun altro servizio reperibile su internet), peraltro immortalato in un selfie con uomini che somigliavano molto ad alcuni terroristi di al-Nusra (l’al-Quaeda siriana), l’immagine e i video davano l’impressione di essere stati preparati a tavolino: il bimbo non è dolorante, appare stupito delle macchie rosse sul viso, non sanguina copiosamente pur essendo ferito alla testa e nei report successivi ai raid su Aleppo emergono troppe contraddizioni. 

A proposito delle foto del massacro di Idlib, qualcuno ha osservato che in caso di attacco con gas nervino i soccorritori dovrebbero indossare tute speciali; la risposta dei Caschi Bianchi, la presunta “protezione civile” siriana, è che i volontari non dispongono di questi equipaggiamenti e che, infatti, alcuni di loro sarebbero rimasti intossicati.

Ma chi sono i Caschi Bianchi? Si tratta di un’organizzazione non governativa fondata da James Le Mesurier, ex militare britannico. In teoria, i White Helmets sono neutrali. In pratica, sono schierati contro Assad: nel 2015 cercarono di negoziare con la NATO una no-fly zone e i loro fondi provengono per lo più da Gran Bretagna, Stati Uniti e Paesi Bassi. Un giornalista russo li ha accusati di soccorrere i civili solo quando sono presenti le telecamere. Nonostante le candidature al Nobel per la pace (per intenderci, quello conferito a Obama, il principale responsabile della destabilizzazione del Medio Oriente), i Caschi Bianchi sono stati “beccati” a rilasciare false testimonianze sui bombardamenti e a girare un Mannequin Challenge, cioè un video in cui gli attori restano immobili e la telecamera si sposta, inscenando il salvataggio di un ferito. A ciò si aggiunga che alcuni membri dell’organizzazione, che ufficialmente dovrebbero girare disarmati, sono stati fotografati mentre imbracciavano dei fucili; porto d’armi per autodifesa o sostegno ai ribelli anti-Assad?

Insomma, vista la provenienza delle notizie, un po’ di scetticismo non è irragionevole: durante la Seconda Guerra Mondiale avreste chiesto informazioni sui bombardamenti alleati ai tedeschi?
Incongruenze aleggiano poi sulla reazione della comunità internazionale. A premere per la destituzione di Assad sono soprattutto António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite in ottimi rapporti con l’amministrazione Obama, la Francia e la Gran Bretagna, cioè due Paesi che promossero attivamente la destabilizzazione del Medio Oriente. Attaccare Assad, d’altronde, potrebbe essere un modo di colpire Putin, che in questo momento affronta una recrudescenza delle opposizioni di piazza. Senza dimenticare il ruolo di Erdogan, da sempre doppiogiochista, per il timore che la sconfitta dell’Isis lo costringa a fare concessioni ai curdi. All’improvviso la Turchia delle epurazioni di massa è diventata paladina del diritto internazionale? 
In ogni caso, mentre fioccavano le condanne di tutti i leader politici, l’agenzia di stampa russa Tuss riportava una dichiarazione dai toni meno accesi del portavoce di Guterres, Stephane Dujarric, per il quale le Nazioni Unite non sarebbero ancora in grado di verificare la veridicità dei report sul bombardamento.

La versione fornita da Mosca e Damasco è che siano stati colpiti dei depositi di armi chimiche dei ribelli. Dunque, neppure i diretti interessanti negano che ci sia stata un’azione di guerra, ma ritorcendo contro l’Occidente la topica delle fake news, ribaltano le accuse, spalleggiati persino dal vescovo di Aleppo Antonine Audo, che evidentemente sa bene chi, tra Assad e i ribelli, garantisca davvero la sicurezza dei cristiani perseguitati.
Difficile stabilire chi abbia ragione. In una guerra che si combatte sul filo della propaganda, tra false flag e video virali, e in cui i media occidentali si limitano a fare da megafono a una delle fazioni, è comunque opportuno coltivare il sano seme del dubbio. Senza complottismi, solo con un po’ di coscienza critica.

(tratto da La Verità del 6 aprile)

 

27 dicembre 2016

Se l'attivista "democratica" esulta per la tragedia di Soci

di Marco Mancini

Lei si chiama Aya Homsi, ha 30 anni ed è un’italo-siriana residente a Bologna. Figlia di genitori originari di Aleppo, dopo lo scoppio della guerra civile siriana ha assunto gli abiti di fervente attivista anti-Assad, fondando il gruppo FB “Vogliamo la Siria libera” e organizzando eventi e manifestazioni di sostegno all’opposizione del c.d. Esercito Siriano Libero.
In virtù di tale impegno Aya è ben presto assurta agli onori delle cronache: interviste per l’ineffabile Rai News ed altre testate (vedi qui e qui), articoli elogiativi sulla “ragazzina dagli occhi enormi e dallo spirito combattivo”, addirittura la partecipazione come speaker al Festival Internazionale di Giornalismo di Perugia (2012).

Insomma, Aya è riuscita a ritagliarsi il ruolo, ormai particolarmente ricercato dai media mainstream, di giovane attivista con un bel faccino in lotta per la libertà e per i valori della democrazia contro il crudele dittatore Bashar al-Assad. Coronamento di questa sua carriera la presenza sul palco, accanto all’allora segretario Pierluigi Bersani, in una manifestazione contro il regime siriano organizzata dal PD nel marzo 2012.
Passata la fase acuta della “rivolta”, ben presto degenerata in una guerra in cui le forze di opposizione sono state fagocitate dagli islamisti radicali come Al-Nusra e ISIS, Aya è passata un po’ di moda, salvo tornare nuovamente alla ribalta ai tempi del sequestro delle attiviste Greta e Vanessa, di cui confermò i contatti con l’Esercito Libero Siriano (cioè i gruppi armati ribelli). Già in quell’occasione si lasciò scappare una frase infelice sul fatto che Al Nusra e ISIS fossero da considerare, in qualche modo, un male minore rispetto al regime di Assad, considerato il “primo terrorista” che aveva portato il Paese all’esasperazione (e quindi, in qualche misura, legittimato la fiammata integralista).

La liberazione di Aleppo da parte dell’Esercito Arabo Siriano insieme agli alleati russi, iraniani e libanesi (Hezbollah) deve aver nuovamente risvegliato i bollenti spiriti della fanciulla “dagli occhi enormi”: così la mattina della Vigilia di Natale, sul proprio profilo FB, la nostra Aya si è pronunciata nella maniera che vedete sulla tragedia del volo russo precipitato nel Mar Nero, che ha provocato la morte di 92 persone, tra cui 64 membri del Coro Alexandrov (ex Coro dell’Armata Rossa):


“Babbo Natale esiste”: l’attivista “democratica” commenta così la tragica morte di 90 persone, le quali non avevano alcuna responsabilità diretta nei fatti siriani, ma si limitavano a portare conforto alle truppe russe di stanza al fronte o addirittura, come nel caso della dott.ssa Elisaveta Glinka, conosciuta come “Lisa”, erano impegnate in attività di natura umanitaria. Seguono i commenti, dello stesso tenore, di altri “attivisti” anti-Assad e dei loro tirapiedi italiani: ironia di pessimo gusto sul fatto che il livello artistico del Coro fosse ormai “sprofondato” e risate a crepapelle.
Qui non c’è nessun rispetto non solo per la vita umana, ma neanche per una delle istituzioni più storiche della musica e della cultura russa, universalmente stimata in patria come all’estero. Non v’è nulla che segnali l’appartenenza di questi figuri alla comune civiltà umana.

Questa, dunque, è la gente che per anni si è presentata come la Siria “libera e democratica” in lotta contro il dittatore. Questa è la feccia umana accreditata da media mainstream ed elite politiche occidentali come “opposizione moderata”, vittima delle violenze del regime siriano. Non stupisce che molti di loro abbiano finito per schierarsi con l’ISIS. E che diranno ora tutti coloro che ne avevano tessuto le lodi? Che dirà il povero Pierluigi Bersani, ora che ad Aleppo la gente scende in strada festante e che i cristiani sono tornati a festeggiare il Natale dopo cinque anni? Che diranno Obama e Hollande, ora che nelle aree abbandonate dai loro terroristi “moderati” emergono già le prime tracce di fosse comuni? Al Festival del Giornalismo di Perugia continueranno a invitare l’eroina Aya, o cominceranno a trattarla per quello che è, cioè la propagandista di gruppi armati dal curriculum poco commendevole?

Ai posteri l’ardua sentenza. 

 

09 settembre 2013

La Siria minacciata da Obama: da che "parte" stare?

di Andrea Virga



Dopo oltre due anni dall’inizio della guerra civile in Siria, ora si profila concretamente un intervento militare da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Il pretesto addotto sarebbe il presunto uso – e gli stessi media e politici occidentali non affettano certezze al riguardo – di armi chimiche, attribuito al legittimo governo siriano, guidato da Bashar al-Assad. Peccato che nei mesi precedenti, il rapporto di Carla Del Ponte – ex procuratore capo del Tribunale penale internazionale perl'ex Jugoslavia – sostenesse invece che fossero stati i ribelli a impiegare questo tipo di arma. Anche la testimonianza del giornalista belga Pierre Piccinin, da poco rilasciato insieme al collega italiano Domenico Quirico, sembra avallare questa ipotesi. Oltretutto, non si capisce quale titolo avrebbero gli Stati Uniti per intervenire militarmente contro un Paese sovrano. Dall’atomica di Hiroshima e Nagasaki al napalm in Vietnam fino al fosforo bianco a Falluja, il loro curriculum dovrebbe indurli, per pudore, a tacere.
 

12 settembre 2012

I frutti amari delle primavere arabe


di Andrea Virga
Ad un anno e mezzo di distanza, sembra che finalmente si sia spento quel coro mediatico che esaltava le “primavere arabe”, cui faceva eco il ceto semicolto italiano, con le sue ciance di “rivolte democratiche”, di “tiranni abbattuti” e di “rivoluzione dei social network”. I vari bloggers (come se avere un blog fosse una qualifica o un lavoro) democratici nostrani esaltavano i “colleghi” egiziani e tunisini, e si lamentavano della presunta inerzia italiana. Come quasi sempre accade, i fatti gli hanno dato torto marcio.