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28 ottobre 2016

Il diplomatico\1. Barack e burattini.


Inauguriamo con questo articolo la nuova rubrica dedicata all'attività di Joseph de Maistre come diplomatico, in una fase storica in cui diventa sempre più importante approfondire le questioni relative alla politica internazionale . La rubrica sarà periodicamente aggiornata dai nostri collaboratori esperti di relazioni internazionali.

di Alessandro Rico
Si ringrazia Fabio Petrucci per la preziosa consulenza

Sorrisi, strette di mano, siparietti, eccellenze italiane, cena di gala, Barack e burattini. Cosa c’è dietro la luna di miele tre Renzi e Obama? Cosa c’entrano la Clinton Foundation, la NATO, Mosul e un gasdotto?

Una panoramica della situazione
Facciamo un passo alla volta. Come tutti sapete, Renzi è volato negli Stati Uniti, dove il Presidente uscente Barack Obama lo ha accolto con tutti gli onori e gli ha dedicato l’ultima cena ufficiale del suo secondo mandato. L’8 novembre ci saranno le elezioni e, salvo sorprese, Hillary Clinton dovrebbe spuntarla (resta, comunque, l’incognita del Congresso, dove i Repubblicani potrebbero conquistare la maggioranza dei seggi e quindi ostacolare l’attività del governo, anche respingendo i veti del Presidente). Nel frattempo, manco fossimo nella terza stagione di House of Cards, dove Frank Underwood s’inventa una guerra ai terroristi nella speranza di condizionare gli elettori, gli USA hanno avviato la riconquista di Mosul, sostenendo una eterogena coalizione costituita da turchi, peshmerga, milizie irachene sciite e pure, particolare non secondario, appoggio logistico ed elicotteristico italiano. Già da qualche settimana, poi, si vanno deteriorando i tesi rapporti con la Russia, finché, pochi giorni fa, la NATO ha annunciato l’invio di un contingente nei Paesi baltici (ovvero, ai confini russi) entro il 2018, contingente che, in caso di conflitto, sarebbe guidato proprio dall’Italia. Un’altra circostanza di cui tenere conto sono le ripetute manifestazioni di insofferenza da parte di Renzi nei confronti della leadership tedesca dell’Unione Europea: lo strappo sui migranti nel mese di settembre, le continue richieste di flessibilità, le critiche all’austerity, la riprensiva contro i “tecnocrati”, quando Bruxelles ha pensato di censurare la finanziaria con una missiva.

Renzi corteggia Obama; e Obama ci sta…
Insomma, sembrerebbe che il nostro premier stia facendo di tutto per smarcarsi dall’Europa del rigore. E l’unico modo per dribblare la Merkel è convincere il Presidente della principale potenza occidentale a sostenerlo nella lotta per una politica economica più rilassata, che al governo italiano ovviamente farebbe aggio, in vista delle elezioni politiche del 2017 (Renzi ha già varato una finanziaria di elargizioni in prospettiva del referendum; figuriamoci quello che potrebbe progettare per la prossima, cruciale scadenza, a riforma costituzionale e legge elettorale incassate). A Obama il corteggiamento dell’Italia va particolarmente a genio. Innanzitutto, è sempre stata sua intenzione spingere l’Europa a cambiare rotta, a stimolare i consumi, magari con la speranza di invadere il mercato del Vecchio Continente con prodotti americani, grazie al TTIP. In secondo luogo, un riallineamento dell’Italia toglierebbe di mezzo quello che è stato spesso un concorrente scomodo nel teatro mediorientale (si pensi, a titolo di esempio, alla crisi di Sigonella): in un colpo solo, Obama compatterebbe gli alleati europei per operare in Libia, Siria e Iraq, assicurandosi un prezioso appoggio nella guerra (ancora asimmetrica) alla Russia di Putin. Il fatto che l’Alto Rappresentante UE per gli affari esteri, la nostra Federica Mogherini, faccia parte da anni di quelle istituzioni sovranazionali che rappresentano la longa manus degli Stati Uniti (FAO, Fondazione Italia USA, ecc.), non può che essere di ulteriore aiuto.
Non dimentichiamoci, però, che non certo da ieri Renzi flirta anche con i Clinton. È noto che nel 2013 il Ministero dell’Ambiente ha finanziato la Clinton Global Initiative con una somma forse non gigantesca, ma per citare Maccio Capatonda, sossempresoldi. La Clinton Fondation ha organizzato un incontro tra Renzi e Bill nel mese di aprile di quest’anno e poi una riunione a tre cui hanno preso parte gli stessi Renzi e Bill Clinton, con il nuovo Presidente argentino Macri. Evidentemente, il premier italiano confida nella vittoria di Hillary e nel fatto che quest’ultima, la quale pure ha avuto un passato di contrasti con Obama (che parrebbero oggi appianati), prosegua la politica di amicizia e sostegno al Bel Paese (e magari che convinca capitalisti americani a investire in Italia?).

Il sogno (infranto?) di Putin
Ovviamente, tutto ha un prezzo. E la spregiudicata strategia di Renzi fa dell’Italia una delle principali pedine sulla scacchiera che gli Stati Uniti stanno muovendo per impedire l’avvicinamento di Europa e Russia.
Non è un mistero che Putin sognasse l’integrazione del Vecchio Continente con la Russia, una sorta di Eurasia con un fulcro economico ed energetico: il mercato comune “da Lisbona a Vladivostock” e, ovviamente, la fornitura di gas, nel cui quadro doveva rientrare anche il gasdotto South Stream, per il quale aveva iniziato a spendersi il governo Berlusconi e che avrebbe dovuto collegare la Federazione Russa all’Italia, passando per la Grecia – stranamente, due dei Paesi colpiti più duramente dalla tempesta sui conti pubblici e lo spread. La Germania, d’altra parte, puntava soprattutto a un raddoppio del North Stream, in barba alle sanzioni anti-russe seguite all’annessione della Crimea (persino il Corriere della Sera, lo scorso anno, lamentava la doppiezza di Berlino e gettava sinistri sospetti sulla spartizione degli asset greci da parte di società private tedesche, mentre le istituzioni europee avevano chiaramente sabotato il South Stream).
In tutto ciò, gli Stati Uniti non potevano tollerare la dipendenza energetica europea da Mosca, né la prospettiva di una profonda integrazione economica tra Europa e Russia. Durante gli anni Novanta, gli USA hanno perseguito l’espansione della NATO verso Est, per schiacciare i russi entro i loro confini e costringerli a mollare la presa sul Vecchio Continente, sul quale gli americani avevano ben altre mire: in ballo c’erano l’importazione dei loro prodotti alimentari, che le normative sanitarie europee limitavano, oltre al dualismo tra le due grandi compagnie Boeing ed Airbus. E infatti Obama, intervistato dal bravo cameriere Federico Rampini su Repubblica, non si è fatto scappare l’occasione per rilanciare il TTIP, per ora affossato dall’aperta ostilità dell’opinione pubblica di molti Stati membri dell’UE, ai quali, nonostante tutto, i governi nazionali devono ancora in qualche modo rispondere.
L’opposizione degli Stati Uniti al South Stream, progetto avviato da Eni e Gazprom e poi esteso a compagnie francesi e tedesche, si è concretizzata in una serie di mosse strategiche, che alla fine hanno condotto alla rottura del partenariato industriale. Innanzitutto, c’è stata la doppia ondata di “rivoluzioni arancioni” in Ucraina, con la quale venne rovesciato il governo filorusso e il “granaio d’Europa” fu trasformato in una specie di avamposto o di muro simbolico tra Europa e Russia. Tuttora nel Donbass prosegue una sanguinosa guerriglia, che ovviamente le diplomazie e i media occidentali imputano alla brama di conquista dei russi; ma che la coalizione NATO a trazione americana ne sia la vera regista, è fatto ormai quasi acclarato, apertamente denunciato anche da un illustre studioso come John Mearsheimer su Foreign Affairs.
Dal canto loro, gli Stati Uniti hanno esercitato una forte pressione sulla Bulgaria, affinché impedisse il passaggio del gasdotto sul proprio territorio: innanzitutto, attraverso la Commissione Europea allora guidata da Manuel Barroso, che annunciò l’apertura di una procedura d’infrazione ai danni della Bulgaria per presunte irregolarità negli appalti (uscito dalle istituzioni europee, curiosa coincidenza, Barroso è stato premiato con un incarico da Goldman Sachs, la banca d’affari vicina alla Clinton); poi, nel 2014 fu addirittura il senatore repubblicano John McCain (quello che guarda caso ha annunciato che non voterà Trump) a incontrare il premier bulgaro, il quale in seguito annunciò il blocco dei lavori.
Alcuni cattolici sedicenti tradizionalisti, infettati dal morbo atlantista, come se vivessero ancora all’ombra del comunismo, ci hanno tenuto a spiegare che i poveri baltici e i poveri polacchi hanno le loro ragioni per temere l’espansionismo russo (in realtà è stata la NATO, come abbiamo già osservato, a muovere verso Est, con l’annessione di Paesi ex sovietici, in particolare quello del 2004, che incluse Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia, l’allargamento più grande della storia del Patto Atlantico). Tuttavia i fatti dimostrano che il vero obiettivo dietro queste manovre coincide soprattutto con gli interessi americani; con il proposito, cioè, di sottrarre l’Europa dalle “grinfie” del gas di Putin, magari per venderle il gas da argille prodotto negli USA e sponsorizzarne l’estrazione anche in alcuni Paesi europei. E indovinate un po’ qual è lo Stato del nostro continente con il più ingente quantitativo di giacimenti? Manco a farlo apposta, proprio la Polonia, storica nemica dei russi. Peraltro, visto il disastroso impatto ambientale dell’attività estrattiva, già da tre-quattro anni, nazioni come Austria, Regno Unito, Francia e Olanda hanno perso interesse per questa fonte di approvvigionamento energetico.
La campagna americana è riuscita a condizionare persino la Francia, messa alle strette sul piano economico, costretta a varare il classico piano di riforme in stile Troika, soffocata dall’emergenza sicurezza interna. Proprio la Francia, che nel 1966, per scelta di De Gaulle, abbandonò la NATO, salvo poi rientrarvi nel 2009, quando forse Sarkozy già puntava al beneplacito statunitense per le operazioni che avrebbe poi attuato in Libia contro Gheddafi (e contro gli interessi strategici dell’Italia). Putin, che si è detto meravigliato dalla retromarcia di Hollande, con il quale aveva provato a intavolare delle trattative per condurre un’offensiva comune ai danni dell’ISIS, durante l’ultimo Forum di Vladivostock ha chiaramente lasciato intendere che al momento la Russia sta guardando in un’altra direzione, all’Estremo Oriente: a un partenariato commerciale, energetico e infrastrutturale con Cina, Giappone e Corea del Sud.

Dalla Siria può cominciare una nuova guerra mondiale
Il teatro mediorientale è un altro degli aghi della bilancia, insieme all’Europa, nel conflitto USA-Russia. Nell’ultimo dibattito televisivo prima delle elezioni, Hillary Clinton si è detta favorevole all’istituzione di una no-fly zone sulla Siria: il che equivale quasi a dichiarare guerra ai russi, che colpiscono Aleppo con i loro raid aerei a sostegno di Assad. In Medio Oriente, gli obiettivi degli americani sono molto diversi. Innanzitutto, gli USA sono alleati dell’Arabia Saudita, con la quale, invece, la Russia non è in buoni rapporti. Inutile ricordare che Arabia e Qatar figurano tra i generosi finanziatori della Clinton Foundation e che, nondimeno, a nessun giornalista di grido è venuto in mente di denunciare, con la dovuta enfasi, che il probabile successore di Obama percepisce delle elargizioni dai principali sponsor del terrorismo islamico. È proprio grazie agli armamenti forniti dagli americani, che i sauditi hanno condotto la loro martellante campagna militare sullo Yemen, dove si intrecciano gli asti tra sunniti e sciiti e l’ostilità tra Arabia (che sostiene il governo) e Iran (che sostiene i ribelli Huthi).
D’altronde, la Clinton non è nuova ad ambigue frequentazioni: i leaks che i media ignorano spiegano anche perché Hillary si sia a lungo opposta all’inserimento di Boko Haram nella lista delle organizzazioni terroristiche, persino contro il parere di John Kerry. La Clinton Foundation era in affari con un magnate nigeriano, che premeva per un cambio di regime allo scopo di assicurarsi ricche commesse pubbliche. Gli Stati Uniti si rifiutarono di sostenere l’allora capo del governo  della Nigeria, Goodluck Jonathan, contro Boko Haram; sostegno che puntualmente è arrivato quando le elezioni hanno, prevedibilmente, premiato l’attuale presidente Buhari, nominato nel 2015.
È lampante che la presunta guerra al terrorismo degli Stati Uniti sia prevalentemente una farsa. L’offensiva su Mosul, che giunge a ridosso delle votazioni che dovrebbero, secondo i sondaggi, premiare la Clinton, non è niente più che un’accozzaglia di gruppi tenuti insieme a fatica da un comune nemico: per il resto, i peshmerga e i turchi sono ai ferri corti, gli sciiti lamentano l’ingerenza della Turchia, quest’ultima a sua volta teme l’indipendentismo curdo e, dopo la rottura con Putin, sembra essersi riallineata alla Russia (non ci scordiamo che, per dimensioni del suo esercito, la Turchia è la seconda potenza militare della NATO dopo gli USA). E infatti la riconquista di Mosul procede a rilento, nonostante i media celebrino in anticipo i trionfi della coalizione, mentre condannano le azioni della Russia e dell’esercito regolare siriano, senza remore e anche senza filtri, rilanciando spudoratamente le informazioni della propaganda dei ribelli anti-Assad,. E mentre giornali e telegiornali paventano il rischio che i combattenti dell’ISIS fuggano nascosti tra i civili, si viene colti dal sospetto che questa “fuga” sia in qualche modo favorita proprio dagli americani. Su AnalisiDifesa, in effetti, Gianandrea Gaiani accarezza l’ipotesi che i pullmini pieni di familiari dei membri del califfato, rifugiatisi a Raqqah, dimostrino come la coalizione voglia instradare l’ISIS verso la Siria per rintuzzare lo schieramento dei ribelli, ovviamente nella prospettiva di sabotare le operazioni militari guidate da Mosca e far cadere Assad.

USA e Russia, nemici naturali
L’Italia, su iniziativa del governo Renzi, si è impegnata su questo duplice fronte est-europeo e mediorientale (mesi fa abbiamo anche provato a guidare i difficili negoziati per la costituzione di un governo in Libia). Come tutto ciò possa promuovere i nostri interessi nazionali rimane un mistero, a meno che tali interessi non siano fatti coincidere con il capitale politico che Renzi vorrebbe spendere di qui al 2017. All’ultimo vertice europeo, Renzi e Mogherini hanno fatto in modo di ammorbidire la linea anti-russa di Germania, Francia e Gran Bretagna, scongiurando il pericolo di nuove sanzioni, che danneggerebbero ulteriormente le relazioni commerciali del nostro tessuto imprenditoriale con la Russia. Ma non si potrà a lungo dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Nel 2019 scadranno i contratti con l’Ucraina per il transito del gas e il Ministro per l’Energia russo ha già annunciato che il Turkish Stream, lanciato nel 2014 come alternativa al South Stream, sarà completato proprio in vista di quel termine. Ma prima di quel momento, Hillary Clinton potrebbe dare il via a un’escalation a partire proprio dalla Siria. E c’è da scommettere che Putin non starà a guardare.
Una delle tesi forti che vorremmo consegnare al lettore, in effetti, è che la politica non è solo questione di soldi e risorse economiche, ma anche e soprattutto di ideologie e narrazioni contrapposte. Fin qui abbiamo insistito molto sui retroscena legati alle forniture energetiche, agli affari di alcuni candidati nei Paesi destabilizzati, agli accordi commerciali; ma bisogna riconoscere che anche nel campo delle relazioni internazionali è necessario resistere al materialismo economicistico e indagare le cause profonde delle inimicizie tra i popoli. Stati Uniti e Russia sono nemici, nel senso schmittiano, perché entrambi sposano una qualche versione del “Destino manifesto”, l’idea di essere un popolo eletto, chiamato a redimere le sorti dell’umanità o a svolgere una funzione civilizzatrice, a costituire un nuovo ordine mondiale o a restaurare la gloria della Terza Roma. Ogni pedina che viene mossa mira a costringere all’angolo l’avversario, a ridurlo a piccolo potentato regionale, con alcune grosse incognite, come la Cina, che al momento sta a guardare, mantiene relazioni cordiali con entrambi, ma se da una parte mal sopporta l’egemonia americana, dall’altra è più volte entrata in rotta pure con la Russia (è una rivalità che i due Paesi si portano dietro almeno dal dualismo tra comunismo russo e comunismo asiatico, e dai negoziati che, negli anni Settanta, Kissinger intraprese con Pechino in funzione antisovietica).
Ci troviamo indubbiamente a un bivio fondamentale, ma l’impressione è che la nostra leadership ci stia trascinando alla deriva, in un’operazione molto pericolosa per la pace mondiale, se non addirittura suicida: è una coincidenza che in uno degli ultimi tweet, Hillary Clinton si sia messa a farneticare di codici nucleari?

 

08 settembre 2015

Profughi e Siria: l’Occidente tra realismo e ipocrisia



di Fabio Petrucci

La foto del piccolo Aylan Kurdi, il bimbo curdo-siriano morto in Turchia nel tentativo di raggiungere la Grecia insieme alla famiglia, ha fatto il giro del mondo, riaccendendo l’attenzione internazionale sulla Siria. Tuttavia, nell’epoca dei social network, la società occidentale appare molto propensa ad ondate di emotività collettiva ed a manifestazioni d’indignazione destinate ad eclissarsi nel giro di una settimana. Per tale ragione la complessa questione migratoria esplosa in questi anni, ed aggravatasi ulteriormente negli ultimi mesi, rischia di essere affrontata con la proverbiale improvvisazione di chi basa la politica sugli slogan ad effetto, senza la capacità di individuare cause, responsabilità ed eventuali soluzioni realistiche e durature.
La tragica morte di Aylan non è che la punta dell’iceberg del dramma vissuto in questi anni da milioni di cittadini del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale, travolti dal caos seguito a quelle che l’ingenuo entusiasmo politico-mediatico (di chi oggi si indigna per i profughi) battezzò con il nome di “primavere arabe”. Come ormai è noto a chiunque, dietro i sommovimenti verificatisi in Tunisia, Libia, Egitto e Siria si agitavano gli interessi di un’eterogenea coalizione di paesi: dagli USA al Regno Unito, dalla Francia alla Turchia, fino ai “petro-Stati” dell’Arabia Saudita e del Qatar. Mentre in paesi come la Tunisia e l’Egitto si è giunti, con modalità diverse, ad una parziale stabilizzazione della situazione politica, la Libia e la Siria hanno avuto il destino peggiore. In Libia, la distruzione dello Stato forgiato da Gheddafi ha condotto ad una spirale di conflitti tribali e spinte separatistiche tragicamente simili a quelle conosciute in passato dalla Somalia. In tal modo l’ex colonia italiana è tornata ad essere base di partenza per massicci flussi migratori, provenienti dall’Africa sub-sahariana e dal Medio Oriente e diretti verso l’Italia.
In Siria si è invece sviluppata una “guerra civile” che va avanti dal 2011 e che vede coinvolto in pieno territorio siriano anche l’autoproclamato “Califfato” salafita dell’ISIS. Dopo quattro anni di guerra feroce, inevitabilmente il numero dei profughi siriani si è allargato a dismisura, arrivando a contare oltre quattro milioni di persone. La gran parte di costoro ha trovato ospitalità nei paesi più prossimi, ossia la Turchia, il Libano, la Giordania, l’Iraq e l’Egitto. Mentre paradossalmente, malgrado la vicinanza al territorio siriano, i ricchissimi paesi della penisola arabica, in prima linea nel finanziamento ai gruppi dell’opposizione armata contro il governo di Damasco, non ospitano alcun profugo.
Negli ultimi mesi, forse anche a fronte di un cambio di strategia da parte dell’esecutivo turco, flussi di profughi siriani d'inedita portata hanno cominciato a dirigersi verso l’Europa. Dinanzi a tale circostanza l’opinione pubblica europea si trova sostanzialmente divisa tra due forme di retorica cariche d’ideologia: la retorica dell’accoglienza che non va alla radice dei problemi e quella della becera xenofobia. In realtà, come ha ricordato il patriarca della Chiesa cattolica melkita, Gregorio III Laham, la soluzione dell’emergenza profughi è legata a doppio filo alla necessità di pacificare la Siria, liberandola innanzitutto dalla brutale presenza dell’ISIS: «Ai governi occidentali dico che il punto centrale non è accogliere e ospitare i profughi, ma fermare il conflitto alle radici. Tutti devono essere coinvolti, dall’Occidente alle nazioni arabe, dalla Russia agli Stati Uniti. Questo è ciò che aspettiamo, la pace. Non parole sui migranti e discorsi sull’accoglienza».
Le parole pregne di realismo e concretezza del patriarca Gregorio III chiamano in causa principalmente gli USA ed i loro alleati europei. L’irragionevolezza delle politiche di Obama e dei suoi alleati in Siria è la principale causa non solo della crisi che attanaglia quel paese, ma anche del dilagare dell’ISIS in Iraq. L’Occidente ha la gravissima responsabilità di aver alimentato un conflitto sanguinario, in combutta con Stati che non brillano per democrazia e liberalità come l’Arabia Saudita, al solo scopo di provocare la caduta di un regime politicamente indipendente, alleato fedele della Russia e dell’Iran e nemico delle correnti fondamentaliste del sunnismo. Un paese, la Siria, per cui ancora nel 2010 l’ex presidente italiano Giorgio Napolitano usava parole di «apprezzamento per l’esempio di laicità e apertura che offre in Medio Oriente e per la tutela della libertà assicurate alle antiche comunità cristiane». Un paese descritto dall’ex vescovo cattolico di Aleppo, mons. Giuseppe Nazzaro, nel seguente modo: «C’era libertà e rispetto reciproco. A maggio facevamo le processioni lungo le vie di Aleppo alle quali i musulmani guardavano con curiosità e rispetto. […] I diritti erano uguali per tutti, tanto che il governo annoverava ministri cristiani».
D’altra parte il richiamo del patriarca Gregorio III, tra le voci più importanti dei cristiani di Siria, ben si sposa con la proposta russa di una grande coalizione internazionale contro l’ISIS, inclusiva dei principali attori internazionali e regionali. Una proposta che però, purtroppo, l’Occidente pare determinato a non ascoltare, stante la ribadita volontà della Casa Bianca e dall’Eliseo di escludere Assad e le forze che sostengono l’esercito siriano (miliziani libanesi di Hezbollah, volontari iraniani) dallo sforzo bellico contro i fanatici del “Califfato”. Prospettiva che, anziché limitare la tensione, rischierebbe di aggravare ulteriormente il conflitto e provocare il collasso definitivo della Repubblica di Siria. In tal caso, ancor più di oggi, sapremo che quelle dei governi occidentali per i bimbi morti sono solo ipocrite lacrime di coccodrillo.

 

02 settembre 2013

La crisi egiziana, tra islamisti e militari

di Andrea Virga

Dopo i precedenti articoli, pubblicati su questo sito, riguardanti le rivolte arabe e in particolare la situazione delle minoranze cristiane in Medio Oriente, ritorniamo volentieri sull’argomento, anche perché l’evolversi della situazione, con l’avanzata degli islamisti e la persecuzione dei cristiani, ha purtroppo confermato le mie analisi. Ciò che più colpisce, a prima vista, della situazione politica in Egitto è la grande complessità sia delle forze politiche in gioco, sia delle reazioni dell’opinione pubblica internazionale. Vediamo di spiegare brevemente la questione.
 

12 settembre 2012

I frutti amari delle primavere arabe


di Andrea Virga
Ad un anno e mezzo di distanza, sembra che finalmente si sia spento quel coro mediatico che esaltava le “primavere arabe”, cui faceva eco il ceto semicolto italiano, con le sue ciance di “rivolte democratiche”, di “tiranni abbattuti” e di “rivoluzione dei social network”. I vari bloggers (come se avere un blog fosse una qualifica o un lavoro) democratici nostrani esaltavano i “colleghi” egiziani e tunisini, e si lamentavano della presunta inerzia italiana. Come quasi sempre accade, i fatti gli hanno dato torto marcio.