di Giuliano Guzzo
Quasi non credevo ai miei occhi, ieri pomeriggio, leggendo sul portale de L’Espresso una lunga e interessante inchiesta a firma di Arianna Giunti sulla condizione lavorativa delle madri. Prima di spiegare la mia
incredulità, meglio illustrare i contenuti dell’articolo, volto
sostanzialmente a denunciare come spesso, anche nel nostro Paese, per
una donna rimanere incinta equivale a rischiare il posto. «I dati parlano chiaro – osserva la giornalista – negli
ultimi cinque anni in Italia i casi di mobbing da maternità sono
aumentati del 30 per cento. Secondo le ultime stime dell’Osservatorio
Nazionale Mobbing solo negli ultimi due anni sono state licenziate o
costrette a dimettersi 800mila donne. Almeno 350mila sono quelle
discriminate per via della maternità o per aver avanzato richieste per
conciliare il lavoro con la vita familiare» [1]. Vero, anzi
verissimo. Novanta minuti di applausi per questa scomoda ma innegabile
verità. Il punto è che non si tratta di una novità. Per niente.
Esattamente un anno fa, in questi giorni, veniva diffuso Maternity and paternity at word: Law and practice across the world, un report dell’Ilo – acronimo che sta per International Labour Organization
–, dai contenuti esplosivi. Dalle quasi quasi 200 pagine di quel
documento, infatti, emergeva un dato drammatico: il 71,6% delle donne
nel mondo non è tutelato in caso di maternità. Una tendenza – denunciava
quel rapporto – alla quale non è estranea l’Italia [2], dove la prassi
sfocia talvolta nella presentazione di lettere di dimissioni in bianco
sottoposte dal datore di lavoro alle lavoratrici già al momento
dell’assunzione, in modo che queste possano essere tempestivamente
licenziate nell’eventualità di una gravidanza. Ma neppure quel
documento, a ben vedere, svelava novità assolute: vi sono indagini
conoscitive degli Novanta dalle quali emergeva come ad oltre cento
donne, in Italia, fosse richiesta addirittura, prima di procedere con
l’assunzione, la certificazione di avvenuta sterilizzazione [3].
In questo caso non sorprende allora il fatto che, da noi, il 60%
delle donne con un figlio e persino il 50% di quelle con due figli
sarebbe disposto a farne un altro se solo fosse garantita loro
un’assenza lavorativa solida e indolore, vale a dire con rientro
garantito – diversamente da come avviene – senza penalizzazioni [4]. No,
quello che sorprende – come dicevo all’inizio – è L’Espresso,
che finalmente sottopone ai propri lettori una denuncia non ideologica
ma concreta e controcorrente. Anche se, a ben vedere, i conti ancora non
tornano. Non del tutto, almeno. Perché appare parziale da un lato
denunciare – e va benissimo – la discriminazione ai danni della madre
lavoratrice e, dall’altro tacere sul fatto che è la giovane madre in
quanto tale ad essere discriminata. Per quale ragione? Per il fatto che
non solo, se ha un posto di lavoro, ha poche tutele, ma perché non ne ha
neppure una nell’eventualità la sua fosse una gravidanza difficile o
indesiderata.
Ha molte più tutele la donna che abortisce, che rifiuta di essere
madre e si vede rimborsato completamente dallo Stato il costo
dell’intervento, il cui costo oscilla almeno fra i mille ed i duemila
euro. Ma la giovane donna che ha un bambino, che non sa che fare e alla
fine sceglie di non eliminarlo e di portare a termine la propria
gravidanza su quali sostegni può contare? Quali aiuti concretamente offrono a lei uno Stato ed una Legge – l’intoccabile 194/78 –, che ha pure la sfacciataggine di intitolarsi “Norme per la tutela sociale della maternità”?
Questo è il punto. La vergognosa discriminazione della maternità sul
posto di lavoro non è che il riflesso di una discriminazione più antica e
trasversale, di un’ostilità non dichiarata ma fattuale contro la donna
che, dispiace dirlo, talvolta le stesse donne o non vedono o perfino
contribuiscono ad alimentare. Sarebbe bello che a L’Espresso, sul cui sito è pubblicata ora un’analisi coi fiocchi – e lo si è riconosciuto -, aprissero gli occhi anche su questo.
Note: [1] Giunti A. Il mobbing per maternità colpisce mezzo milione di lavoratrici ogni anno. «Espresso.repubblica.it»: 4.5.2015; [2] Cfr. AAVV. (2014) Maternity and paternity at word: Law and practice across the world. «International Labour Organization»; 1-193:74; [3] Cfr. «Il Messaggero», 18/10/1997; [4] Cfr. Blangiardo G.C. Fecondità e lavoro: la faticosa ricerca di nuovi strumenti per nuovi equilibri in Donati P. (a cura di) Famiglia e lavoro, San Paolo 2005, p. 123.
http://giulianoguzzo.com/2015/05/05/maternita-e-lavoro-la-grande-discriminazione/
Pubblicato il 06 maggio 2015
Una nota di colore sulla pratica delle dimissioni in bianco.
RispondiEliminaTale procedura venne di fatto resa impossibile dall'ultimo governo Prodi: per dimettersi occorreva far richiesta sul sito dell'INPS che assegnava un codice, da inserire sulla lettera di dimissioni. Tale codice "scadeva" dopo un breve tempo (mi pare, 30 giorni).
Fu una della prime norme che abolì il successivo governo Berlusconi
L'errore a monte di tutto questo è il lavoro femminile in sé.
RispondiEliminaLe donne hanno sempre lavorato: in casa (intendo dire producendo beni di consumo venduti fuori, non pulendo o cucinando, si pensi alle sarte, filatrici, ecc.). nei campi, ecc. La differenza è che oggi ricevono a mani il salario, prima no, si dovevano accontentare del mantenimento. In molte parti del modno è an corea così. A noi donne a volte piacerebbe molto NON lavorare e siamo ben consapevoli che il nostro lavoro sia un errore (meglio riposarsi tutto il giorno), però sembra che il mondo non ne possa proprio fare a meno...
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