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13 aprile 2019

Se Benedetto risponde ai dubia

Nelle ore successive alla pubblicazione della lunga dichiarazione di Benedetto XVI sulla crisi morale e teologica della Chiesa, molte persone hanno intravisto una connessione indiretta fra il documento ratzingeriano e il memoriale di monsignor Viganò dell'estate scorsa. Concetti simili ai seguenti sono stati espressi anche su la Verità.

di Giorgio Enrico Cavallo
È bello potersi abbeverare ad una fonte limpida, quando si ha sete. E dal 2013 di sete ne abbiamo avuta molta, davvero. La carrellata di scandali, di stramberie teologiche, di frasi inopportune e soprattutto di preoccupanti e perpetrati silenzi necessitava di un intervento chiarificatore. L’intervento di Benedetto XVI, esteso e meditato come una piccola enciclica, ha tutto il pregio di una sapiente riflessione sulla crisi della Chiesa ma anche il valore di un soccorso pastorale, dottrinale e teologico per questi anni di evidente crisi.

Le tematiche trattate da Benedetto XVI sono state molte – giova ricordare lo j’accuse al ’68, causa del collasso morale nella Chiesa –  ma c’è la sensazione che il pontefice quasi 92enne abbia voluto, con ferma lucidità, dare quelle risposte che Bergoglio non ha mai dato. Benedetto, con il suo consueto stile pacato e gentile, ha squarciato una coltre di silenzio che ha imbarazzato e rattristato i cattolici fin da quando i quattro cardinali hanno reso pubblica la loro lettera contenente gli ormai celebri dubia. I “dubbi” sottoscritti dai cardinali Caffarra, Brandmüller, Burke e Meisner dopo la pubblicazione dell’esortazione apostolica Amoris Laetitia del 2016 sono rimasti lettera morta: Bergoglio non ha mai risposto, mentre i quattro firmatari sono stati oggetto di un fuoco incrociato di critiche dai pasdaran del progressismo cattolico.

Benedetto risponde tra le righe. Al quarto dubium dei cardinali, collegandosi alla Veritatis Splendor di san Giovanni Paolo II, egli spiega che «ci sono valori che non è mai lecito sacrificare in nome di un valore ancora più alto e che stanno al di sopra anche della conservazione della vita fisica. Dio è di più anche della sopravvivenza fisica. Una vita che fosse acquistata a prezzo del rinnegamento di Dio, una vita basata su un’ultima menzogna, è una non-vita».

Ma è sull’Eucaristia che il Santo Padre emerito Benedetto riafferma con forza un atteggiamento di buon senso cristiano. Buon senso, perché quanto affermato da Ratzinger è semplice abc del cattolico che vuole accostarsi con serietà ai sacramenti, che ha rispetto per Cristo e, a dirla tutta, che ha anche rispetto per la propria anima. Constata Benedetto XVI: «L’Eucaristia è declassata a gesto cerimoniale quando si considera ovvio che le buone maniere esigano che sia distribuita a tutti gli invitati a ragione della loro appartenenza al parentado, in occasione di feste familiari o eventi come matrimoni e funerali. L’ovvietà con la quale in alcuni luoghi i presenti, semplicemente perché tali, ricevono il Santissimo Sacramento mostra come nella Comunione si veda ormai solo un gesto cerimoniale. Se riflettiamo sul da farsi, è chiaro che non abbiamo bisogno di un’altra Chiesa inventata da noi. Quel che è necessario è invece il rinnovamento della fede nella realtà di Gesù Cristo donata a noi nel Sacramento».

Sempre leggendo tra le righe, queste parole rispondono inevitabilmente al primo dubium dei cardinali. Quello sull’ammissione alla Santa Eucaristia di una persona che, essendo legata da vincolo matrimoniale valido, convive more uxorio con un’altra. No, dice papa Benedetto, non è possibile che l’Eucaristia sia concessa a tutti con leggerezza. Non è un gesto cerimoniale. Serve un «profondo rispetto di fronte alla presenza della morte e risurrezione di Cristo», cosa che non avviene al giorno d’oggi. Tanto che, aggiungiamo noi, si arriva a pretendere l’accesso al sacramento anche da parte di chi vive una situazione oggettiva di peccato grave.

È chiaro che non era nello stile di Benedetto XVI rispondere puntualmente ai quattro dubia; egli resta un professore un po’ timido, lontano da “invasioni di campo”: Amoris Laetitia è stata scritta da Bergoglio. L’intento della lettera è quello di fornire qualche «indicazione» che possa «essere di aiuto in questo momento difficile», ma, proprio per questo, è impossibile non scorgervi all’interno anche le indirette risposte ai dubia dei cardinali. Dubbi che sono del tutto legittimi e che, ahinoi, si legano ai fondamenti di una sana dottrina cattolica.

Constatare come da anni nella Chiesa vi sia un “liberi tutti”, uno sbracamento teologico deprimente ed inquietante, non può che allarmare e farci apprezzare ancora di più l’estremo tentativo di Benedetto XVI di raddrizzare il timone della barca. E qui si pone la risposta ad una domanda latente nei cattolici: che Chiesa è quella che stiamo vedendo? Benedetto analizza: «Oggi la Chiesa viene in gran parte vista solo come una specie di apparato politico. Di fatto, di essa si parla solo utilizzando categorie politiche e questo vale persino per dei vescovi che formulano la loro idea sulla Chiesa di domani in larga misura quasi esclusivamente in termini politici. La crisi causata da molti casi di abuso ad opera di sacerdoti spinge a considerare la Chiesa addirittura come qualcosa di malriuscito che dobbiamo decisamente prendere in mano noi stessi e formare in modo nuovo. Ma una Chiesa fatta da noi non può rappresentare alcuna speranza».

Per usare un termine molto più terra-terra e già più volte impiegato da giornalisti e blogger, la Chiesa sta diventando una Ong: vicina ai bisogni degli uomini (e neanche tutti, soltanto alcune specifiche categorie) e lontana da Dio. Un organismo politico, dice Ratzinger, che guarda al futuro in termini politici. Ed è così che, travolta da una crisi dottrinale, teologica e pastorale, «la Chiesa muore nelle anime». E alla domanda latente nei cattolici, sconcertati di fronte a questa Caporetto spirituale, su quale sia la strada da percorrere per salvare la Chiesa, il papa emerito ha una risposta chiara. Per salvare la Chiesa non bisogna snaturarla. Non la si può riformare, plasmandola secondo i bisogni attuali dell’uomo: «L’idea di una Chiesa migliore creata da noi stessi è in verità una proposta del diavolo con la quale vuole allontanarci dal Dio vivo, servendosi di una logica menzognera nella quale caschiamo sin troppo facilmente. No, anche oggi la Chiesa non consiste solo di pesci cattivi e di zizzania. La Chiesa di Dio c’è anche oggi, e proprio anche oggi essa è lo strumento con il quale Dio ci salva. È molto importante contrapporre alle menzogne e alle mezze verità del diavolo tutta la verità: sì, il peccato e il male nella Chiesa ci sono. Ma anche oggi c’è pure la Chiesa santa che è indistruttibile. Anche oggi ci sono molti uomini che umilmente credono, soffrono e amano e nei quali si mostra a noi il vero Dio, il Dio che ama. Anche oggi Dio ha i suoi testimoni (“martyres”) nel mondo. Dobbiamo solo essere vigili per vederli e ascoltarli». Un messaggio in bottiglia per questi tempi difficili. Un vademecum per coloro che oggi hanno le redini della Chiesa, affinché indirizzino al meglio la barca di Pietro.



 

30 luglio 2018

Libri. Liberare la libertà. Fede e politica nel terzo millennio

Un libro di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI

di Samuele Pinna
Tra tutti gli scrittori che ho avuto il dono di conoscere personalmente colui che ho più frequentato con ammirazione e di cui ho studiato il pensiero è, senza dubbio, Joseph Ratzinger-Benedetto XVI.
È da poco stato pubblicato, per i tipi di Cantagalli, Liberare la libertà. Fede e politica nel terzo millennio (è il secondo volume della collana “Joseph Ratzinger. Testi Scelti”), che raccoglie una selezione di interventi e di scritti del Papa emerito dedicati al tema “fede e politica”. Il libro è, poi, impreziosito da un testo inedito dello stesso Benedetto XVI e dalla prefazione di Papa Francesco, il quale afferma: «Il rapporto tra fede e politica è uno dei grandi temi da sempre al centro dell’attenzione di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI e attraversa l’intero suo cammino intellettuale e umano […]. E così, con un salto di trent’anni, egli ci accompagna alla comprensione del nostro presente, a testimonianza dell’immutata freschezza e vitalità del suo pensiero. Oggi infatti, più che mai, si ripropone la medesima tentazione del rifiuto di ogni dipendenza dall’amore che non sia l’amore dell’uomo per il proprio ego, per “l’io e le sue voglie”. […] sono particolarmente lieto di potere introdurre questo secondo volume dei testi scelti di Joseph Ratzinger sul tema “fede e politica”. Insieme alla sua poderosa Opera omnia, essi possono aiutare non solo tutti noi a comprendere il nostro presente e a trovare un solido orientamento per il futuro, ma anche essere vera e propria fonte d’ispirazione per un’azione politica che, ponendo la famiglia, la solidarietà e l’equità al centro della sua attenzione e della sua programmazione, veramente guardi al futuro con lungimiranza» (pp. 5-7).

Il testo, molto denso e ricco di profonde riflessioni, è quasi impossibile da sintetizzare. Forse, è più interessante lasciare un piccolo assaggio del volume (sono le pagine 31 fino a 34), mostrandone così – semmai ce ne fosse bisogno – la bellezza della prosa e la profondità dei contenuti.

«Che cos’è la verità? La domanda del pragmatico – scrive Benedetto XVI –, buttata lì con scetticismo, è una domanda molto seria, nella quale effettivamente è in gioco il destino dell’umanità. Che cosa è, dunque, la verità? Possiamo riconoscerla? Può essa entrare, come criterio, nel nostro pensare e volere, nella vita sia del singolo che in quella della comunità?
La definizione classica formulata dalla filosofia scolastica dice che la verità è “adaequatio intellectus et rei – corrispondenza tra intelletto e realtà” [Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae I, q. 21, a. 2c.]. Se la ragione di una persona rispecchia una cosa così come essa è in se stessa, allora la persona ha trovato la verità, ma solo una piccola parte di ciò che esiste realmente, non la verità nella sua grandezza e interezza. Con un’altra affermazione di San Tommaso ci avviciniamo già di più alle intenzioni di Gesù: “La verità è nell’intelletto di Dio in senso vero e proprio e in primo luogo (proprie et primo); nell’intelletto umano, invece, essa è in senso vero e proprio, e derivato (proprie quidem et secundario)” [Id., De ventate, q. 1, a. 4c]. E così s’arriva infine alla formula lapidaria: Dio è “ipsa summa et prima veritas — la stessa somma e prima verità” [Id., Summa Theologiae I, q. 16, a. 5c].
Con questa formula siamo vicini a ciò che Gesù intende dire quando parla della verità, quando dice che è venuto nel mondo per dare testimonianza alla verità. Nel mondo, verità e opinione errata, verità e menzogna sono continuamente mescolate in modo quasi inestricabile. La verità in tutta la sua grandezza e purezza non appare. Il mondo è “vero” nella misura in cui rispecchia Dio, il senso della creazione, la Ragione eterna da cui è scaturito. E diventa tanto più vero quanto più si avvicina a Dio.

L’uomo diventa vero, diventa se stesso se diventa conforme a Dio. Allora egli raggiunge la sua vera natura. Dio è la realtà che dona l’essere e il senso. “Dare testimonianza alla verità” significa mettere in risalto Dio e la sua volontà di fronte agli interessi del mondo e alle sue potenze. Dio è la misura dell’essere. In questo senso, la verità è il vero “re” che a tutte le cose dà la loro luce e la loro grandezza. Possiamo anche dire che dare testimonianza alla verità significa che, partendo da Dio, dalla Ragione creatrice, si rende la creazione decifrabile e la sua verità accessibile in modo tale che essa possa costituire la misura e il criterio orientativo dell’uomo nel mondo, che ai grandi e ai potenti si faccia incontro il potere della verità, il diritto comune, il diritto della verità. Diciamolo pure: la non-redenzione del mondo consiste, appunto, nella non-decifrabilità della creazione, nella non-riconoscibilità della verità, una situazione che poi conduce inevitabilmente al dominio del pragmatismo, e in questo modo fa sì che il potere dei forti diventi il dio di questo mondo.

A questo punto, come uomini moderni, siamo tentati di dire: “Grazie alla scienza, per noi la creazione è diventata decifrabile”. Di fatto, ha detto ad esempio con lieto stupore Francis S. Collins, che ha diretto lo Human Genome Project: “Il linguaggio di Dio è stato decifrato” [cfr. Il linguaggio di Dio. Alla ricerca dell’armonia fra scienza e fede, Sperling & Kupfer, Milano 2007]. Sì davvero, nella grandiosa matematica della creazione, che oggi possiamo leggere nel codice genetico dell’uomo, percepiamo il linguaggio di Dio. Ma purtroppo non il linguaggio intero. La verità funzionale sull’uomo è diventata visibile. Ma la verità su lui stesso – su chi egli sia, di dove venga, per quale scopo esista, che cosa sia il bene o il male – quella, purtroppo, non la si può leggere in questo modo. Con la crescente conoscenza della verità funzionale sembra piuttosto andare di pari passo una crescente cecità per “la verità” stessa, per la domanda su ciò che è la nostra vera realtà e ciò che è il nostro vero compito.

Che cos’è la verità? Non soltanto Pilato ha accantonato questa domanda come irrisolvibile e, per il suo ufficio, impraticabile. Anche oggi, nella disputa politica come nella discussione circa la legislazione del diritto, per lo più si prova fastidio per essa. Ma senza la verità l’uomo non coglie il senso della sua vita, lascia, in fin dei conti, il campo ai più forti. “Redenzione” nel senso pieno della parola può consistere solo nel fatto che la verità diventi riconoscibile. Ed essa diventa riconoscibile, se Dio diventa riconoscibile. Egli diventa riconoscibile in Gesù Cristo. In Lui Dio è entrato nel mondo, e ha così innalzato il criterio della verità in mezzo alla storia. La verità esternamente è impotente nel mondo, come Cristo, secondo i criteri del mondo, è senza potere. Non possiede alcuna legione. Viene crocifisso. Ma proprio così, nella totale mancanza di potere, Egli è potente, e solo così la verità diviene sempre nuovamente una potenza. Nel colloquio tra Gesù e Pilato si tratta della regalità di Gesù e quindi della regalità, del “regno” di Dio. Proprio nel colloquio di Gesù con Pilato si rende evidente che non esiste alcuna rottura tra l’annuncio di Gesù in Galilea – il regno di Dio – e i suoi discorsi in Gerusalemme. Il centro del messaggio fino alla Croce – fino alla iscrizione sulla croce – è il regno di Dio, la nuova regalità che Gesù rappresenta. Il suo centro è, però, la verità. La regalità annunciata da Gesù nelle parabole e, infine, in modo del tutto aperto davanti al giudice terreno è, appunto, la regalità della verità. L’innalzamento di queste regalità quale vera liberazione dell’uomo è ciò che interessa».


 

19 giugno 2018

Libri. Ratzinger la rivoluzione interrotta

di Alfredo Incollingo e Francesco Filipazzi
Il portato del pontificato di Joseph Ratzinger è ancora tutto da valutare ed analizzare. Nonostante siano passati oltre cinque anni dal funesto giorno delle “dimissioni” per ingravescente aetate, quotidianamente emergono aspetti importanti, testi da rileggere e messaggi che analizzati oggi appaiono profetici e dirompenti.
A sviscerare la figura di Benedetto XVI ci ha pensato dunque Francesco Boezi, firma del quotidiano Il Giornale, scegliendo di intervistare una serie di personaggi del mondo cattolico che hanno vissuto o addirittura hanno maturato la propria fede proprio nel periodo ratzingeriano. Il tutto è raccolto nel volume “Ratzinger : La rivoluzione interrotta”, edito da La Vela.

Sono tanti i nomi celebri della cultura cattolica italiana che hanno deciso di raccontare il papato di Benedetto XVI, facendo luce su un aspetto particolare della sua apologetica.
Il volume riporta le testimonianze di quattordici testimoni, fra i quali troviamo anche due collaboratori del nostro blog, Aurelio Porfiri e Giuliano Guzzo. Il maestro Porfiri, nell’ultimo contributo del volume, propone una riflessione sul senso del sacro, della liturgia e della musica nel pensiero Ratzingeriano, forse il principale aspetto (contro)rivoluzionario del pensiero del Papa tedesco, in contrapposizione culturale e perfino estetica con il mondo circostante. Anche se non citato, il riferimento al Summorum Pontificum viene automatico.

Interessante, parlando di questo confronto, il testo del sociologo Guzzo, che pone l’accento su un altro testo importante e a suo modo sorprendente. «La Deus caritas est è stata non soltanto un capolavoro, ma anche una sorpresa: il papa regnante da non molto, additato dalla cultura dominante come il grande inquisitore, che esordisce con un’enciclica sull’amore. Fu qualcosa di stupendo e di inatteso, anche perché con quell’enciclica Benedetto xvi iniziò il suo ufficiale confronto con la cultura laica o comunque non cristiana. Ricordo a questo proposito la meravigliosa replica che il papa intese dare a Friedrich Nietzsche, secondo cui il cristianesimo  –  cito testualmente  –  “avrebbe dato da bere del veleno all’eros, che, pur non morendone, ne avrebbe tratto la spinta a degenerare in vizio”. Sono trascorsi già tredici anni, ma ritengo che la Deus caritas est abbia ancora molto da dire e da dare a chiunque la rilegga».

Ettore Gotti Tedeschi, da sempre attento alle tematiche sociali della Chiesa Cattolica, ci illustra i punti salienti della riflessione economica di Benedetto XVI: pur parlando di sistemi di produzione o di indici di borsa, il Papa Emerito non ha mai estromesso il Vangelo dai suoi discorsi sui mali della finanza mondiale. Si dibatte fin troppo spesso, e inutilmente, su un'economia dal volto umano, senza giungere ad una proposta realista e soddisfacente. Solo Ratzinger è riuscito a cogliere la radice della cattiva economia: questa non è né buona né cattiva di per sé, perché è un semplice strumento umano. Sta all'uomo usarlo nel modo migliore e lo può fare solo seguendo gli insegnamenti di Gesù nei Vangeli.

Il giornalista Marco Tosatti, invece, cerca di rispondere ad una domanda tuttora irrisolta: perché Benedetto XVI si dimise nel 2013? Citando dati e fatti, ci racconta i legami tra le lobby di potere, alle volte poco cristiane, che si intrecciano in Vaticano e che avrebbero sospinto il Santo Padre ad abdicare. Il suo “conservatorismo” era un ostacolo troppo arduo da superare per chi avesse voluto riformare in chiave progressista la Chiesa Cattolica.

Francesco Agnoli, instancabile apologeta, intervistato da Boezi, ricorda la battaglia del Papa Emerito per dimostrare la razionalità del cristianesimo. Si pensa spesso, sulla scia di opinioni storiche piuttosto dubbie, che la religione di Cristo abbia perseguitato la scienza moderna, ritardandone la nascita. Benedetto XVI, al contrario, ha spiegato l'irrinunciabile e fondamentale connubio tra Fede e Ragione, un rapporto imprescindibile per il cattolicesimo.

Fra i contributi trova spazio anche una voce femminile, quella di Maria Rachele Ruiu, che coglie con grazia uno degli aspetti basilari della comunicazione di Benedetto XVI: «Proprio papa Ratzinger ci ha dimostrato che anche un’attitudine mediaticamente mite e pacata, quasi schiva, è capace di far vibrare i cuori e smuovere le masse, quando è al servizio di un messaggio che resta comunque di per sé potente, coinvolgente e sovversivo com’è quello del Vangelo: papa Ratzinger ha avuto e ha la capacità di trasmettere altissimi concetti teologici con una semplicità disarmante. Rende tutto semplice anche a un’ignorante come me! E poi, definire non comunicativo il primo pontefice che si è iscritto a Twitter… non mi torna». Insomma, per comunicare e farsi capire non sono necessarie pagliacciate e gesti fantasmagorici ma possono bastare mitezza e contenuti.

Il libro è molto completo e analizza aspetti che vanno dal "tradizionalismo di Ratzinger" fino ai discorsi sulle radici cristiane dell'Europa, al rapporto con il mondo e con i giovani. La raccolta di interviste di Boezi racconta una rivoluzione (o una restaurazione, come nota Gotti Tedeschi in prefazione e noi azzardiamo a dire controrivoluzione) incompiuta e ci parla di un uomo che, forse sconfitto sul piano terreno da forze più grandi di lui, ha deciso di ritirarsi in disparte. Ma il testimone non è caduto.



 

21 luglio 2017

Ratisbona. La verità è ben altra

di Paolo Maria Filipazzi

A proposito dei cinquecentoquarantasette-bambini-abusati-del-coro-di-Ratisbona-quando-c’era-il-fratello-di-Ratzinger.
Innanzitutto va precisato che i fatti di cui si tratta, ai sensi della legge tedesca, sono caduti in prescrizione da decenni e che, dei 49 responsabili, i principali sono morti da tempo. Insomma, parliamo di fatti che non potranno mai essere verificati in un processo e di cui alcuni responsabili non potranno mai dire la loro e difendersi per ovvie ragioni.
Precisiamo poi che l’indagine riguarda violenze avvenute nella scuola Vorschule Etterzhausen, ai tempi in cui era diretta da Johan Meier, preside dal 1953 al 1992 e morto venticinque anni fa. Nel 2010 tal Alexander Probst per la prima volta parlò pubblicamente delle violenze subite fra il 1960 e il 1970 da quest’uomo morto da tempo e sulla base della sua denuncia la diocesi di Ratisbona, all’epoca guidata da monsignor Müller, aprì l’inchiesta, i cui risultati definitivi sono stati esposti nei giorni scorsi.

Ne esce fuori il quadro di un tipico istituto “di una volta”, in cui ancora vigevano le pene corporali, che in Germania furono proibite per legge solo nel 1980. I 547 sono coloro che, ascoltati dalla commissione, hanno affermato di averle subite. Molti di questi racconti urtano sicuramente la sensibilità contemporanea ma, in buona parte, corrispondono ai metodi educativi notoriamente in uso pressoché ovunque fino a pochi decenni fa.
Vi sono poi i 67 che hanno subito molestie di tipo sessuale da parte di 9 persone di cui i due principali accusati erano già morti ai tempi dell’apertura dell’inchiesta e non hanno quindi potuto raccontare la loro versione.
Senza negare la gravità di questi episodi, ci permettiamo di dire che la vicenda ci sembra avere una portata, tutto sommato, molto più circoscritta di quella che i titoli di TG e giornali chiaramente cercano di dare a intendere.
Fatto sta che c’è una parolina che a un certo punto spunta fuori, appositamente per rendere più succoso il tutto: Ratzinger.

Eh, già… La scuola suddetta era, infatti, quella in cui studiavano i membri del Regensburg Domspatzen, noto coro di voci bianche di cui all’epoca era maestro Georg Ratzinger, fratello dell’attuale Papa emerito. Quest’ultimo non è stato mai minimamente sfiorato dall’accusa di abusi sessuali. Dalle testimonianze che si leggono nel rapporto finale, risulta un quadro in cui alcuni allievi lo ricordano con apprezzamenti positivi e in qualche caso con affetto e altri ne rievocano soprattutto il carattere burbero che lo portava qualche volta a mollare qualche schiaffone. Ci sono anche passaggi che fanno sinceramente sorridere, come il racconto di un aneddoto in cui, mentre il maestro strilla arrabbiato, gli cade la dentiera… Per le percosse che, ripetiamo, erano tipiche dei metodi educativi “di una volta”, l’anziano sacerdote si era scusato sette anni fa, subito dopo le prime denunce. In sintesi, si tratta davvero di pochissima cosa.

Tuttavia, sembra proprio che si sia voluto a forza accostare il nome Ratzinger ai casi di abusi sessuali. E così l’avvocato Ülrich Weber, incaricato dalla diocesi di Ratisbona di condurre l’inchiesta, ha accusato, nella conferenza stampa dei giorni scorsi, il sacerdote, oggi 93 enne, di “aver chiuso gli occhi e non aver preso misure a riguardo”.

In realtà, a leggere il rapporto, le informazioni a riguardo sembrano assai confuse. George Ratzinger avrebbe ricevuto notizie in tre occasioni, molto distanziate nel tempo, nel 1969, nel 1979 e nel 1993. Di cosa abbia effettivamente avuto notizia, in realtà, non si capisce. Nel rapporto si parla genericamente di “violenze” senza precisarne la natura. L’avvocato Weber afferma che il sacerdote non capì che si trattava di abusi sessuali e pensò probabilmente ad un semplice eccesso nei metodi correttivi, cosa che il diretto interessato aveva già affermato nel 2010. A pag. 380 si afferma che egli “non fosse il contatto preferito per riferire di violenze sessuali considerato il suo carattere” e a pag. 381 si riporta l’affermazione di un ex corista che definisce “impensabile” fare discorsi inerenti il sesso con lui, descritto come un vero puritano. Diciamoci la verità: da quello che si ha in mano, a carico di Georg Ratzinger non c’è nulla di nulla.

Ma tant’è: la sera di martedì scorso, il nome “Ratzinger” era stato pronunciato vicino alle parole “abusi” e “sessuali” e tutti i TG hanno potuto urlare il titolo: “Abusi sessuali: il fratello di Ratzinger sapeva!”. Cosicchè tutto l’Occidente è andato a letto inorridito per il 547 bambini violentati dal fratello di Ratzinger. Con in più il non detto che però era l’unico e il solo motivo per cui la notizia era stata data: l’Emerito poteva forse non sapere?
Il tutto, guardacaso, a stretto giro di posta dal necrologio che Benedetto XVI ha dedicato al defunto cardinal Meisner e che ha creato scompensi nervosi a-chi-sappiamo-noi… E già che c’era, l’avvocato Weber si è sentito in dovere di attaccare anche il cardinal Müller, vale a dire colui che dispose l’apertura dell’inchiesta. Probabilmente fingeva…

Del resto, subito dopo che gli era stato suonato il chitarrino, nelle scorse settimane, qualcuno farfugliò che il motivo del siluro fosse che “non aveva fatto abbastanza contro i preti pedofili”. Nessuno era stato in grado di precisare la cosa. Ora forse capiamo. D'altra parte, si sa, quando vuoi fregare un prete, l’accusa di pedofilia è l’asso pigliatutto…
 

19 maggio 2017

GrilloShock. "Esiliare Ratzinger per sempre". E vuole chiudere i conti con il Summorum Pontificum


di Francesco Filipazzi
 
Generalmente quando parliamo di certa gente non facciamo nomi, ma questa volta l'entità delle affermazioni urlate da Andrea Grillo in un'intervista è tale, che è obbligatorio citarlo. Il "teologo" di fama ha infatti rilasciato dichiarazioni sconcertanti riguardo Benedetto XVI, reo di aver semplicemente scritto una postfazione al prossimo libro del card. Sarah.

Grillo auspica la "morte istituzionale" di Ratzinger

E' chiaro che l'intervista è stata rilasciata in modo concitato, perché il limite della decenza è ampiamente superato. Secondo Grillo l'uscita pubblica di Benedetto è uno sconfinamento inaccettabile, una scelta di campo ben precisa per disconoscere il successore Francesco. Opinione legittima? Forse, però condita con una selva di insulti vomitata contro il nostro novantenne preferito, che fanno presagire solo una grande isteria. "Come è evidente che la veste bianca e la loquacità, oltre alla residenza, debbono essere dettagliatamente normate. Il Vescovo emerito deve allontanarsi dal Vaticano e tacere per sempre." Inoltre "si dovranno prevedere, in futuro, norme che regolamentino in modo più netto e sicuro la “morte istituzionale” del predecessore e la piena autorità del successore, in caso di dimissioni". Dunque la libertà personale del Papa Emerito dovrà essere limitata in qualche modo? Lo mandiamo a Sant'Elena?
Ebbene, secondo Grillo Benedetto è ipocrita, poco umile, troppo loquace. E il cardinal Sarah sarebbe uno che ha "creato continui imbarazzi alla Chiesa" e a Papa Francesco. Quali imbarazzi? Difendere la liturgia è imbarazzante? Secondo Grillo sì.

Chiudere i conti con la San Pio X e abolire il Summorum Pontificum

Grillo è un fiume in piena. Il palesarsi sulla scena di Ratzinger, teologo che accademicamente Grillo non vede neanche con il binocolo, lo ha fatto andare fuori dalla grazia divina. Purtroppo però non ha gli strumenti culturali per parlare di liturgia e si lascia andare ad un'inveterata che però spiega molte cose. "La fissazione sul “rito antico” è, precisamente, il segno preoccupante che accomuna il Vescovo emerito di Roma e il Prefetto della Congregazione del culto. E su questo papa Francesco ha preso posizione con giusta fermezza". Posto che Sarah recentemente ha parlato molto di più del rito di Paolo VI, ci chiediamo quale posizione avrebbe preso Francesco, perché a noi non risulta che ci siano state comunicazioni pubbliche o ai vescovi al riguardo.

Poi arriva l'affondo. L'intervistatore chiede a Grillo cosa ne pensi dell'accordo con la San Pio X. Ebbene, la risposta è molto semplice. I lefebvriani avranno una funzione molto importante, nell'economia grilliana. "Mi riferisco, in particolare, all’uso del “rito antico”, che con un accordo di comunione con i lefebvriani – subordinato a specifiche garanzie – sarebbe sottratto all’”uso straordinario” ed entrerebbe nelle caratteristiche rituali di un settore specifico della esperienza ecclesiale, che per questo risulterebbe accuratamente circoscritto e controllato". Rileggete bene.

Sarebbe sottratto all'uso straordinario.  Ciò vuol dire che, stando così le cose, il Summorum Pontificum verrebbe abolito e si rinchiuderebbe praticamente nel recinto della San Pio X, circoscritto e controllato accuratamente, il rito antico.

D'altronde si sa, il Motu Proprio Summorum Pontificum non è mai andato giù a questi signori, soprattutto perché hanno avuto la plastica rappresentazione del loro fallimento. Il movimento collegato alla Messa di San Pio V è ormai talmente numeroso e capillarmente diffuso, che ha fatto saltare tutte le elucubrazioni di chi lo avversa.

Alcune domande

Poniamo alcune domande, sperando che prima o poi qualcuno risponda.
1 - Grillo si presenta spesso come interprete di Bergoglio. Ebbene, è davvero l'interprete di Bergoglio? Ciò che pensa il teologo assieme alla sua compagnia di giro, è condiviso dal vertice?
2 - L'intento recondito dell'operazione "San Pio X" è questo? Nel caso, mons. Fellay ne è a conoscenza? In caso contrario, qualcuno potrebbe per favore smentire?

Chi vuole farsi due risate, legga pure l'intervista completa.

 

26 settembre 2016

Padre Amorth e l'ultimo liturgista

 di Amicizia San Benedetto Brixia


Per commemorare la scomparsa del grandioso padre Gabriele Amorth, uomo della Provvidenza, che ha salvaguardato e rinnovato la consapevolezza demonologica negli ultimi critici e decisivi decenni, mi pare bello andare a recuperare un articolo di Satiricus, giovane penna genovese, da anni attiva sul medesimo blog che ci vede da poche settimane suoi collaboratori. L'articolo in questione si intitola L'ultimo liturgista ed è un'ode alla profonda opera liturgica compiuta da Benedetto XVI. Sul finire dello scritto l'autore riporta alcune parole di p. Amorth, che gettano luce sulla figura del pontefice tedesco, sul valore della liturgia rettamente celebrata, sul peso specifico della liturgia Vetus Ordo rispetto agli adattamenti sociologici del Novus Ordo. Riportiamo interamente il brano, incluse alcune frasi un po' audaci e barocche del nostro amico Satiricus.

"Servono nuove chiavi di lettura... La trovo con piacevole sorpresa nell’indovinata intervista di Rodari a padre Amorth, La mia battaglia contro satana. L’ultimo Esorcista, Piemme, Milano 2012, e merita di essere ripresa:
Benedetto XVI è temutissimo da Satana. Le sue messe, le sue benedizioni, le sue parole sono come dei potenti esorcismi… Credo tuttavia che il suo pontificato sia un grande esorcismo contro Satana.
Il modo con cui Benedetto XVI vive la liturgia. Il suo rispetto delle regole. Il suo rigore. La sua postura sono efficacissimi contro Satana. La liturgia celebrata dal pontefice è potente. Satana è ferito ogni volta che il papa celebra l’eucaristia.
(p. 219)
E’ una testimonianza che, di per sé, già dice tutto. Ma sarebbe un peccato interpretarla in chiave meramente celebrativa.
Benedetto XVI non è temuto per il valore della sua persona, per un carisma di fascinoso prelato o simili: è la liturgia a fare la differenza, è lo stile celebrativo a ferire Satana. Capire questo significa TUTTO, soprattutto per le giovani generazioni che hanno perso il senso soprannaturale del liturgico.
Non che l’abbiano perso per colpa propria, è il clero – a partire dai cosiddetti teologi e docenti – ad aver estromesso certe categorie e addirittura ad opporvisi fino ad oggi. Che una messa possa essere “più potente” di un'altra è cosa bollata come residuo di magismo. Inutile cercare di spiegare che tra magia e socialismo esisteva una sana via di mezzo: la liturgia cattolica e cattolicamente intesa (e celebrata). Inutile, anche perché faticoso rispondere alla mole ipertrofica di ragionamenti intricatissimi e dottissimi quanto originariamente anti-romani, sfiancante sopportare l’abuso di autorità e potere degno delle peggio sacrestie e da quelli ampiamente sfoggiato, quasi impossibile far breccia contro l’irrefragabile pregiudizio del senso comune (cui i cattolici non riescono a svincolarsi – e non per nulla il papa viene a indire un anno della Fede: c’è da ricostruire!). Contro tali e tanti baluardi, nei quali va serrandosi il post-conciliarismo, serve una testimonianza potente, capace di convertire i cuori prima che le menti.
Padre Amorth ci aiuta pienamente in questo, narrandoci un episodio ignoto ai più, ma a mio avviso strategico e risolutivo. Riassumo in poche righe i fatti narrati intorno a pagina 214 del testo: tra le grandi novità del Concilio si registrò anche la riforma del Rito degli esorcismi, rito venerabile compilato per lo più in età moderna, da pregarsi esclusivamente in latino, di chiaro taglio – diciamolo con i periti – amartiocentrico, cupo, pessimista, profeta di sventura, etc. Chiaramente la modifica del rito avvenne a porte chiuse, ad opera di un pool di insigni teologi e pastori che fecero a meno di ascoltare il parere degli esorcisti attivi sul campo. Il nuovo rituale fu diffuso per un periodo di prova, quanto basta perché gli esorcisti si accorgessero che esso era totalmente inefficace. Si rischiava la catastrofe: lo scatenamento di Satana in nome dell’obbedienza al Concilio e a Roma.
In extremis il cardinale J A Medina Estevez, che nel 1996 divenne prefetto della Congregazione per il culto divino, riuscì con un colpo di mano dell’ultimo minuto a inserire una particolare notificazione in cui si concedette agli esorcisti di servirsi ancora del vecchio rituale facendone richiesta al vescovo. Fu la nostra salvezza. Tutti potemmo continuare ad esorcizzare con il vecchio rituale, a mio avviso l’unico efficace contro il demonio.
L’attuale pontefice… è stato l’unico [allora] a ricercare ed ascoltare il parere di noi esorcisti
(p. 214)
E’ quanto. Non soffermiamoci sui soliti complottismi anti-conciliari. Inutili. Teniamo il dato sicuro, l’idea chiara e distinta: modificare i riti significa modificare l’efficacia della preghiera. No, la pretesa del tradizionalismo non è una faccenda di pizzi e merletti, ma di radicale salus animarum.
E quindi ben venga il fanone, ben venga la celebrazione del Summorum Pontificum in san Pietro, ben venga tutto l’armamentario utile a ferire Satana, ben venga la salvezza delle anime, specialmente le più bisognose della Sua misericordia."
 

19 settembre 2016

"Ultime Conversazioni": alcuni spunti di riflessione


di Francesco Filipazzi

Il libro "Ultime Conversazioni", la lunga intervista a Benedetto XVI appena uscita a firma di Peter Seewald, ha infiammato il dibattito nel mondo cattolico, riguardo quanto ci sarebbe scritto sulle motivazioni delle dimissioni del Papa tedesco. In realtà, a parte qualche spasmodico tentativo di ricercare fra le righe messaggi in codice, al riguardo degli argomenti scottanti che in questi anni stanno togliendo il sonno ai cattolici, non c'è scritto granché e, sotto questo aspetto, che il libro non riservasse colpi di scena era prevedibile. Qualche punto interessante però si può trovare, in particolar modo riguardo la persona Joseph Ratzinger.

Il volume parla della storia di un giovane sacerdote che, dopo il seminario, prese la strada dell'insegnamento totalmente ignaro di cosa la vita gli avrebbe riservato, ma sempre pronto ad obbedire alle chiamate che gli giunsero dall'alto. L'intelligenza brillante e il metodo con cui si applicò, portarono il teologo a diventare subito una specie di celebrità nel mondo accademico tedesco e la novità del linguaggio ratzingeriano ben presto lo portò ad essere considerato un "progressista". Quest'ultimo però, per chi conosce i suoi scritti e alla luce di ciò che spiega Benedetto nel ricordare la sua vita, non appare un aggettivo esatto. Un punto centrale del volume è probabilmente  questa distinzione che, se non tenuta in considerazione, rischia di trarre in inganno nella valutazione dell'uomo e del sacerdote. Il progressismo del giovane Ratzinger è infatti un metodo espositivo rinnovato, un nuovo approccio alla teologia, un linguaggio novecentesco applicato alla dottrina di sempre. Non è il progressismo deleterio di chi ancora oggi vuole negare verità di fede e rileggere il cattolicesimo in un'ottica mondana.

L'approccio teologico nuovo venne portato da Ratzinger al Concilio Vaticano II e inizialmente fu dirompente, ma ben presto lasciò il passo a chi, con la scusa di un nuovo linguaggio cercò davvero di fare della Chiesa una struttura svuotata e "moderna" nel senso stretto del termine. L'operazione modernista non riuscì, ma i semi del male vennero piantati.

 Lo stesso Ratzinger ammette di essersi interrogato poco tempo dopo, con i suoi interlocutori, sull'esito del Concilio. Già nel 1966 denunciò che gli avvenimenti stavano prendendo una brutta piega. Anche in ambito liturgico, il futuro Papa non fu d'accordo con il pensionamento frettoloso dell'antica liturgia, ritenendo che un rito millenario non potesse essere liquidato in poco tempo. Proprio per ricostruire un legame che riteneva spezzato, scrisse durante il suo pontificato, il Motu Proprio Summorum Pontificum.

Le critiche e le riflessioni post conciliari valsero al professor Ratzinger molti grattacapi, tanto che il suo amico Kung iniziò ad odiarlo e lo odia tutt'ora.

Ratzinger però non era solo un teologo di fama. La sua attività di insegnante lo portò ad avere a che fare con molti studenti dei quali curava anche l'anima. Un aspetto della storia di Benedetto poco conosciuto è proprio il suo rapporto con i giovani, dai quali a quanto pare era molto amato e cercato. In misura diversa, ma in qualche modo simile, un altro grande "pastore" di giovani fu Karol Wojitila e non è un caso che entrambi durante i loro pontificati abbiano saputo toccare le corde del cuore dei ragazzi di tutto il mondo.

A parte questi aspetti, nel libro non c'è molto e chi ha già avuto modo di leggere l'autobiografia troverà la possibilità di fare un veloce ripasso della vita e delle opere di Joseph Ratzinger, il cui ruolo storico e spirituale probabilmente sarà chiaro nei prossimi anni.


Scriveva Joseph de Maistre che l'Ordine, dopo la rivoluzione, non potrà essere identico a quello pre rivoluzionario. "Questa rivoluzione - scrive il Conte - non può finire con un ritorno all'antico stato di cose, che sembrerebbe impossibile, ma con la rettifica dello stato in cui siamo caduti". Ciò vuol dire che non si riporteranno indietro le lancette dell'orologio, ma che nascerà qualcosa di nuovo, nel segno della millenaria tradizione cristiana, mondato dalle eresie dell'oggi. A mio parere, mi si permetta un giudizio del tutto personale, la "rettifica" si baserà sugli scritti di un mite teologo tedesco che per un caso fortuito divenne Papa. Joseph Ratzinger ha fornito le fondamenta per permettere alle nuove generazioni di riedificare la Chiesa. Nei prossimi anni sarà evidente.
 

11 luglio 2015

"Realismo, umorismo, concretezza": un ricordo del Cardinale Giacomo Biffi

di Marco Mancini

Vorrei infine dirle grazie per il suo realismo, per il suo umorismo e per la sua concretezza, fino alla teologia un po’ audace di una sua domestica: non oserei sottoporre queste parole "il Signore forse ha i suoi difetti" al giudizio della Congregazione per la Dottrina della Fede. Ma in ogni caso abbiamo imparato e i suoi pensieri, Signor Cardinale, ci accompagneranno non solo nelle prossime settimane”. Con queste parole Benedetto XVI si rivolgeva al Cardinale Giacomo Biffi, Arcivescovo emerito di Bologna, al termine degli Esercizi spirituali per la Quaresima del 2007, che lo stesso Cardinale aveva predicato su incarico del Pontefice. Realismo, umorismo, concretezza: non si potrebbero trovare sostantivi migliori per descrivere il più “cattolico” tra i Cardinali, spentosi oggi all’età di 87 anni.
 

17 giugno 2015

Così Ratzinger “bocciò” il ddl Cirinnà


di Giuliano Guzzo

Sono trascorsi meno di quindici anni da quando, nel giugno 2003, la Congregazione per la Dottrina della Fede, il cui prefetto era un certo Joseph Card. Ratzinger, diffondeva un documento formidabile e per diversi aspetti profetico intitolato Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni omosessuali. Sono trascorsi meno di quindici anni, ma sembra passato un secolo a giudicare da come e, soprattutto, da quanto quell’intervento sia stato rimosso persino da parte di quei politici cattolici che ad esso, specie in risposta alle istanze del movimento gay e di quanti ne appoggiano le rivendicazioni, sarebbero più degli altri tenuti ad ispirarsi. Tuttavia non tutto il male viene per nuocere giacché «il vantaggio della cattiva memoria – per dirla col filosofo Nietzsche (1844-1900) – è che si gode parecchie volte delle stesse cose per la prima volta». Siamo pertanto nella condizione, tanto più in una fase che vede il nostro Parlamento impegnato nell’esame di un’iniziativa legislativa in materia di unioni civili fra persone dello stesso sesso – il c.d. ddl. Cirinnà, dal nome della sua prima proponente –, di riscoprire quel documento della Congregazione per la Dottrina della Fede che a ben vedere, benché intarsiato di rimandi alle Sacre Scritture, si configura come difesa essenzialmente razionale della famiglia naturale fondata sul matrimonio.

Infatti – come si legge in apertura – «la verità naturale sul matrimonio» risulta non fondata bensì «confermata dalla Rivelazione» (I.,3), puntualizzazione alla quale ne segue un’altra, assai poco politicamente corretta, secondo cui a differenza di quelle matrimoniali le relaziono omosessuali – scrive l’ex Sant’Uffizio – «contrastano con la legge morale naturale» (I.,4), tesi che oggi verrà giudicata “omofoba” ma che, ben prima Paolo di Tarso (Cor 6,9-10), avevano più o meno esplicitamente formulato pensatori tanto illustri quanto certamente non cristiani e consapevoli dell’esistenza dell’omosessualità quali furono prima Platone (Leggi, 836 B) e poi Aristotele (Etica Nicomachea, 1148b 24-30). Ora, posto che la non approvazione morale delle relazioni fra persone dello stesso sesso non segue, se non nella logica ristretta di alcuni, alcuna legittimazione di odio o discriminazione, è innegabile come l’odierna difficoltà di cogliere la nozione stessa di «legge morale naturale» sia conseguenza non solo di povertà filosofica inescusabile, ma pure dell’insistita quanto ingannevole sovrapposizione – promossa da alcuni – fra ciò che è conforme alla legge naturale e ciò che, molto più banalmente, è conforme ai costumi in un dato contesto di una data epoca. Detta truffaldina sovrapposizione merita attenzione perché è proprio a partire da essa che taluni asseriscono la compatibilità tra il matrimonio fra persone dello stesso sesso e la famiglia così come definita dalla nostra Costituzione (art. 29).

Torniamo però al documento della Congregazione per la Dottrina della Fede, dove la consapevolezza della centralità della «legge morale naturale» non oscura quella per cui «il compito della legge civile è certamente più limitato» (III.,6); del resto già Tommaso d’Aquino (1225–1274) tracciava il perimetro del diritto positivo non già facendolo coincidere con quello del diritto naturale, bensì individuandone i confini in ciò che minaccia il bene comune e la sopravvivenza della società (Cfr. Pizzorni R. Diritto naturale e diritto positivo in S. Tommaso d’Aquino, Esd 1999, pp. 314-329). Questo spiega come mai le unioni civili sono da rigettare, e cioè non tanto e non solo perché «contrastano con la legge morale naturale» – aspetto morale, come detto, da solo non giustifica un divieto – ma perché attentano al bene comune. In che modo? «Considerando i valori in gioco, lo Stato – scrisse la Congregazione guidata dal Card. Ratzinger – non potrebbe legalizzare queste unioni senza venire meno al dovere di promuovere e tutelare un’istituzione essenziale per il bene comune qual è il matrimonio». D’altra parte, in che modo rimarrebbe tutelata e promossa la famiglia – il cui preziosissimo ruolo generativo era ben chiaro ai nostri Padri Costituenti, che vollero tutelare solo la famiglia fra uomo e donna così come già definita nel codice civile del 1942 (C.C. sent. n. 170/2014), tanto che impegnarono lo Stato ad aiuti «con particolare riguardo alle famiglie numerose» (art. 31) – una volta che questa, di fatto, fosse equiparata ad altre unioni, per di più strutturalmente e non già accidentalmente sterili quali sono quelle fra persone dello stesso sesso?

Senza trascurare il fatto – denunciando il quale la Congregazione per la Dottrina della Fede ha mostrato capacità profetica – che il riconoscimento delle unioni civili, specie con le disposizioni del ddl. Cirinnà, comporta «l’equivalenza legale delle unioni omosessuali al matrimonio propriamente detto, senza escludere il riconoscimento della capacità giuridica di procedere all’adozione di figli» (II.,5). Contrastare il riconoscimento delle unioni civili non significa dunque, in Italia, negare diritti fra l’altro già largamente tutelati dal nostro ordinamento anche per le coppie conviventi composte da persone dello stesso sesso: si pensi solo – per rammentarne alcuni – alla possibilità di stipulare di accordi di convivenza per interessi meritevoli di tutela (ex art. 1322 cc), di successione nel contratto di locazione a seguito della morte del titolare a favore del convivente (C.C. sent. n. 404/1988), di vista in carcere al partner (D.P.R 30 n. 230 del 2000), di risarcibilità del convivente omosessuale per fatto illecito del terzo (Cass., sez. unite Civ., sent. 26972/08), di obbligo di informazione da parte dei medici per eventuali trapianti al convivente (L. n. 91 1999), di permessi retribuiti per decesso o per grave infermità del convivente (Cfr. L.n. 53 2000), di nomina di amministratore di sostegno (artt. 408 e 417 cc), di astensione dalla testimonianza in sede penale (art. 199, terzo comma, c.p.p.), di proporre domanda di grazia (art. 680 c.p.).
No: respingere le unioni civili significa anzitutto difendere il primato familiare. Significa, se si è credenti, preservare il piano di Dio, mentre se non lo si è fare in modo che tutti si ricordino cosa sia una famiglia – riconoscimento che non esige alcuna adesione confessionale – e che il diritto dei figli ad un padre ed una madre non sia calpestato da un inesistente diritto “ai” figli. La Congregazione per la Dottrina della Fede, aggiungendo al proprio intervento ulteriore profezia, ipotizzò pure lo scenario – già reale in diversi Paesi – dell’avvenuta approvazione delle unioni civili: «Nel caso in cui il parlamentare cattolico si trovi in presenza di una legge favorevole alle unioni omosessuali già in vigore, egli deve opporsi nei modi a lui possibili e rendere nota la sua opposizione: si tratta di un doveroso atto di testimonianza della verità» (IV, 10). Quanti politici cattolici, oggi, rendono un simile, «doveroso atto di testimonianza della verità»? La risposta è dolorosa benché purtroppo non sorprendente. Una ragione in più, allora, per battersi contro il c.d. ddl. Cirinnà, proposta da avversarsi non solo per quelle ragioni di ordine relativo alla retta ragione, di ordine biologico e antropologico, di ordine giuridico e di ordine sociale così ben illustrate nelle Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni omosessuali, ma anche perché per molti, dopo divorzio, aborto e fecondazione extracorporea, sarebbe premessa di un nuovo letargo della ragione e del coraggio. Ma ragione e coraggio non hanno certo bisogno di altri letarghi bensì di un risveglio che, giorno dopo giorno, si rendere sempre più urgente.

(“La Croce”, 13.6.2015, p.5).

 

10 ottobre 2014

Il suicidio dei buoni, ossia, la falsa obbedienza che demolisce la Fede


di Giorgio Mariano 

Nel II secolo a.C. un sacerdote, di nome Mattatia (in ebraico «dono di Dio»), alla vista dell’apostasia generale del popolo d’Israele, dal Sommo Sacerdote all’ultimo israelita, pianse su Gerusalemme, stracciandosi le vesti per la corruzione, l’idolatria e il tradimento perpetrato da tutto il popolo contro la fede dei padri.
Vennero, dunque, a chiamarlo i messaggeri del re Antioco Epìfane, per convincerlo ad accettare i “nuovi” riti, di sottomettersi, per obbedienza, alla pratica del nuovo culto. “Ma Mattatia rispose a gran voce: «Anche se tutti i popoli nei domini del re lo ascolteranno e ognuno si staccherà dal culto dei suoi padri e vorranno tutti aderire alle sue richieste, io, i miei figli e i miei fratelli cammineremo nell'alleanza dei nostri padri; ci guardi il Signore dall'abbandonare la legge e le tradizioni; non ascolteremo gli ordini del re per deviare dalla nostra religione a destra o a sinistra”. (1Mac 2, 19-22).
A ben vedere, questo brano del primo libro dei Maccabei, riporta delle forti analogie con gli avvenimenti dei nostri tempi.


Quello che è successo ai Frati Francescani dell’Immacolata, per esempio, è semplicemente sconcertante e doloroso, e tuttavia è ancora più sconvolgente la loro risposta a questa ingiusta oppressione: hanno deposto le armi, hanno scelto la non belligeranza. L’atteggiamento che hanno sposato è quello di obbedire all’ingiustizia e contemporaneamente affidarsi ciecamente all’Immacolata la quale, a dir loro, li libererà, prima o poi, da questa persecuzione. Premesso che la devozione e la fiducia sconfinata nella Santa Madre di Dio è santissima nonché doverosa per ogni battezzato, tuttavia la Madonna non ci priva del nostro intelletto, né la devozione a Lei ci esime dal resistere alle ingiustizie e di rimboccarci le maniche dinanzi all’errore e al sopruso: basti guardare l’esempio militante di San Massimiliano Kolbe (sic!). In parole povere, “bisogna dar battaglia perché Dio conceda vittoria!” (Santa Giovanna d’Arco).
L’immobilismo apparentemente pio ed eroico in cui i Francescani dell’Immacolata si sono rinchiusi sembra essere più un cieco fideismo che mal si concilia con la “Vera” e santa obbedienza cattolica. I frati vorrebbero cioè rimanere fedeli all’autorità, che li ha privati della Santa Messa di sempre, pur riconoscendo la palese ingiustizia di tale comando. Ma l’obbedienza, per definizione, non consiste nell’accettare controvoglia, con critiche, con mormorazioni e giudizi un decreto dell’autorità, bensì, per essere vera obbedienza, deve tendere alla conformazione della volontà del sottoposto con quella del suo superiore. Ossia, il religioso deve pensare come il superiore o almeno tendere alla totale identità di volontà (cfr. Summ. Theol.). Ora, posto che i frati perseguitati si considerano appunto “perseguitati”, si deduce che essi non accettano (moralmente) il provvedimento della Suprema autorità contro di essi, riconoscendone la palese ingiustizia, eppure l’accettano sul piano pratico. Bè cari frati, se credete così di assolvere al precetto dell’obbedienza, vi sbagliate di grosso. Questa non è l’obbedienza cattolica, è falsa obbedienza. Dunque, se volessimo essere veramente puristi e vestire i panni dell’avvocato del Diavolo, dovremmo richiamarvi ad una più piena obbedienza, ad una più piena “comunione”, ad un vero “sentire cum Ecclesia”. Ma se i frati chinano il capo dinanzi a tale provvedimento, ne riconoscono la giustezza, dunque perdono ogni diritto di lamentarsi, e di compatirsi, leccandosi le ferite che hanno voluto autoinfliggersi. Inoltre, sembra che i nostri frati si dimentichino che fu lo stesso Papa Benedetto XVI a smascherare la totale falsità di questa prospettiva, dichiarando che l’antica Messa non “è mai stata abrogata” e che il suo uso da parte di qualsiasi sacerdote all’interno della Chiesa “è stato sempre permesso”, non potendo, neppure il Papa, in alcun modo eliminarla o abrogarla, né, tantomeno, sostituirla (cfr. CCC n. 1125). Infatti è stato proprio a causa di un falso principio di obbedienza all’autorità ecclesiastica che la sovversione della Fede Cattolica è stata così rapida e diffusa. Fu proprio lo stesso Papa Benedetto, quando era ancora il Cardinal Ratzinger, a confutare questa erronea teoria: “Il Papa non è un monarca assoluto la cui volontà è legge, ma piuttosto il custode dell’autentica Tradizione, e perciò il primo garante dell’obbedienza… Per cui, per quanto concerne la Liturgia, ha il compito di un giardiniere, e non quello di un tecnico che costruisce nuove macchine e butta quelle vecchie[2]. Dobbiamo dare atto a S.S. Benedetto XVI del valido e coraggioso tentativo di ritorno sui binari della Tradizione e, contemporaneamente, dobbiamo tenere conto della violenta e tempestiva offensiva che i suoi oppositori hanno riversato su di lui, tanto da costringerlo alla rinuncia papale.
Ciò che è vero per il Papa – ovvero che il suo potere e la sua autorità sono limitate dall’obbedienza alla Fede – è ancor più vero per tutti i suoi sottoposti. Eppure tra le fila di questi ultimi, in quest’epoca post-conciliare, l’obbedienza alla Fede è stata largamente rimpiazzata dall’obbedienza all’autorità gerarchica, a loro uso e consumo. Il positivismo (la mia volontà è legge) ed il nominalismo (ciò che voglio è giusto perché lo voglio io) hanno invaso la Chiesa, facendo in modo che gli abusi della gerarchia venissero coperti in virtù dell’obbedienza, che ormai sembra essere diventata l’unica e sola virtù su cui insistono le autorità ecclesiastiche”[3]. “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”(5,29), e facilmente si obbietterà che Dio parla per mezzo del Papa, di un Concilio o della gerarchia, eppure bisogna ricordare anche che Dio non può comandare cose contraddittorie, Dio non “evolve”, Egli è Immutabile per essenza. “Lo giuro su me stesso, dalla mia bocca esce la verità, una parola irrevocabile”(Is  45,23), con buona pace del card. Kasper e del sua fanta-teologia schellinghiana. Dio non dice un giorno di credere in una cosa e il giorno dopo di non crederla più: Dio non cambia, rimane stabile per sempre, e con Lui coloro che rimangono fedeli alla dottrina immutabile: “Veritas Domini manet in aeternum”(Esdr 3,12). Non solo, per quanto riguarda la Fede, che è il presupposto della Speranza e della Carità, l’Apostolo dice: “se lo rinneghiamo, anch'egli ci rinnegherà; se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele perché non può rinnegare se stesso”(2Tm 2,12-13). Dio cioè non può contraddirsi, non può rinnegare ciò che ha già dichiarato.
Ma riprendiamo per un secondo il passaggio del libro dei Maccabei: “Si avvicinò un Giudeo alla vista di tutti per sacrificare sull'altare in Modin secondo il decreto del re. Ciò vedendo Mattatia arse di zelo; fremettero le sue viscere ed egli ribollì di giusto sdegno. Fattosi avanti di corsa, lo uccise sull'altare; uccise nel medesimo tempo il messaggero del re, che costringeva a sacrificare, e distrusse l'altare. Egli agiva per zelo verso la legge come aveva fatto Pincas con Zambri figlio di Salom. La voce di Mattatia tuonò nella città: «Chiunque ha zelo per la legge e vuol difendere l'alleanza mi segua!». Fuggì con i suoi figli tra i monti, abbandonando in città quanto avevano”(1Mac2,23-28).
Torniamo, per concludere, ai Maccabei. In seguito alla persecuzione, “molti che ricercavano la giustizia e il diritto scesero per dimorare nel deserto con i loro figli, le loro mogli e i greggi, perché si erano addensati i mali sopra di essi”(29-30). Ora, i mali addensatisi sopra i Francescani dell’Immacolata perché ricercavano sinceramente la giustizia sono innegabili, e molti di loro sono attualmente “nascosti” e braccati come lepri dal cacciatore. E tuttavia, qui non si lotta contro gli uomini ma contro le potenze infernali, le quali non si fermeranno finché non avranno annientato coloro che gli si oppongono. Ma quale fu la reazione dei “fedeli” d’Israele dinanzi alla battaglia? «Non usciremo, né seguiremo gli ordini del re, profanando il giorno del sabato[…]Moriamo tutti nella nostra innocenza. Testimoniano per noi il cielo e la terra che ci fate morire ingiustamente» (34,37). Apparentemente sembrerebbe una morte eroica e santa, giustificata dalla loro “obbedienza” legalistica al giorno di sabato nel quale era proibito combattere ed uccidere. Eppure, all’udire la fine di questi “pii” giudei, Mattatia dichiarò: «Se faremo tutti come hanno fatto i nostri fratelli e non combatteremo contro i pagani per la nostra vita e per le nostre leggi, ci faranno sparire in breve dalla terra». Presero in quel giorno questa decisione: “«Noi combatteremo contro chiunque venga a darci battaglia in giorno di sabato e non moriremo tutti come sono morti i nostri fratelli nei nascondigli» (40-41). Dunque, alla luce di tali riflessioni, voglio concludere con una santa esortazione, con una chiamata alle armi (spirituali).
Frati Francescani dell’Immacolata e voi tutti sacerdoti timidi, (comprensibilmente) impauriti: combattete la buona battaglia, difendete con fortezza la Santa Messa, quella tramandataci dalla Sacra Tradizione, quella dei Santi, quella immutabile, quella che è perseguitata, quella che è stata messa al bando, quella che il Maligno non sopporta. A tal proposito, è opportuno chiedersi seriamente: se la Messa moderna è “sostanzialmente” uguale all’antica, se la grazia è la stessa, perché il Maligno la tollera? Perché non la perseguita? Perché non gli dà fastidio? Pertanto, sacerdoti e religiosi tutti, amanti della Tradizione e perciò stesso amanti della Chiesa, e ancor più amanti di Cristo: unitevi insieme, alzatevi a difesa dell’unico Vero Innocente, dell’Unica Vera Vittima, dell’Unico Vero Perseguitato, Gesù Cristo Signore Nostro! Mi rivolgo qui anche a quei vescovi e cardinali che sotto Ratzinger si dimostrarono coraggiosi e che ora si sono un po’ “contratti”, ora che, invece, ce n’è più bisogno. Non siate quei cani muti, di cui parla Isaia, ma siate, al contrario, pastori che difendono il gregge. “Salire contro è contrastare i poteri di questo mondo con libera parola in difesa del gregge; e stare saldi in combattimento nel giorno del Signore, è resistere per amore della giustizia agli attacchi dei malvagi. Infatti, che cos’è di diverso, per un Pastore, l’avere temuto di dire la verità dall’avere offerto le spalle col proprio silenzio?” (San Gregorio Magno, La Regola pastorale).
A tal proposito c’è una nota storiella popolare molto istruttiva, che narra di un uomo molto fervente che stava affogando nel mezzo di un lago. Costui implorava la Divina Provvidenza che lo salvasse e lo liberasse dalla morte: confidava fermamente che Dio lo avrebbe salvato. Passò, dunque, una barca che gli tese un remo, ma lui rispose: “no grazie, aspetto che Dio mi salvi” e, intanto, annaspava e sperava…passò dunque una seconda barchetta che, allo stesso modo, si offrì di portarlo in salvo, ma egli replicò: “no grazie, sono sicuro che verrà Dio a salvarmi” e, intanto, beveva acqua e continuava a confidare…passò infine una terza scialuppa di salvataggio ma egli: “mi salverà Dio, ne sono certo”. Alla fine, l’uomo fidente, morì affogato. Quando si trovò al cospetto di Dio chiese indispettito: “perché non sei venuto a salvarmi?” e l’Onnipotente rispose: “ma come? Sono passato tre volte e mi hai rifiutato!”. Morale della favola, bisogna rimboccarsi le maniche, e combattere la battaglia del nostro tempo, e non ritirare i remi in barca nascondendoci dietro un’apparente “pia” obbedienza. Prima di tutto, dice San Tommaso: “la Carità è una virtù più grande dell’obbedienza”[1].



Quello appena visto è l’esempio di obbedienza che non pochi santi si sono trovati a dover opporre a decreti ingiusti provenienti, non di rado, anche dalla Suprema Autorità ecclesiastica (San Paolo, Sant’Ambrogio, Sant’Ilario, Sant’Atanasio, San Massimo, Santa Caterina, Santa Brigida ecc…). “Poiché tutta l’autorità proviene da Dio, noi obbediamo agli uomini solo e unicamente perché la loro autorità si basa in ultima analisi su quella del Signore. Questa obbedienza, laddove non vada contro la legge di Dio, è in realtà un atto di giustizia, un dare agli altri, e a Dio in primo luogo, ciò che è dovuto. Ma il Signore non dà a nessun uomo l’autorità di impartire un ordine che contravvenga ai comandi e ai precetti da Lui Stesso fornitici, come quelli contenuti nei Dieci Comandamenti o nel Vangelo, che costituisce la “legge positiva” di Cristo Re. Ne consegue che nessun uomo abbia il diritto di obbedire ad un ordine simile. Per di più, tutta l’autorità in terra è limitata dalla giustizia. Neanche il Papa dispone di un’autorità illimitata, perché i suoi limiti provengono dalla Rivelazione, dalle Scritture, dalla Tradizione e dagli insegnamenti autentici dal Magistero Ordinario ed Universale, nonché da quello Straordinario con le sue definizioni dogmatiche[4].





[1] Summa Theologiae, II-II, Q. 104, Art. 3
[3] GRUNER N., Il Terzo Segreto e il problema della falsa obbedienza.
[4] Ibidem.