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20 febbraio 2018

La persecuzione celtica

 di Franco Ressa
Chi erano gli antichi Galli ? Popolazioni celtiche di pastori, agricoltori e guerrieri, stanziate in quasi tutta l’ Europa, ma concentrate specialmente nell’odierna Francia. Ciò che rimane oggi dei Celti e della loro lingua sono gli abitanti della Scozia, dell’Irlanda e del Galles nelle isole britanniche.

Della loro religione ci riferisce Giulio Cesare che la Gallia la conquistò. Il condottiero romano fa notare l’esistenza di una classe di sacerdoti-stregoni e giudici, i druidi, che per loro convenienza spaventavano i propri fedeli con credenze minacciose, con déi e dee terribili e vendicativi, in modo che la religione fosse una continua superstizione tipo: “abbiamo paura che il cielo ci caschi sulla testa”.

Dal 50 avanti Cristo, Cesare aveva sottomesso la Gallia, che in tempi successivi si civilizzerà con l’arrivo di coloni italici, la costruzione di strade, la fondazione di nuove città con case e cinte di difesa costruite in muratura e non più in legno, la razionalizzazione delle coltivazioni agricole e l’introduzione di nuove specie coltivate come la vite e l’olivo.
I druidi avevano un potere che contrastava con la dominazione civile di Roma e potevano fomentare ribellioni, perciò al tempo della nascita di Cristo, l’imperatore Augusto aveva vietato ai cittadini romani di praticare culti druidici, e i suoi successori Tiberio e Claudio avevano soppresso con la forza l’intera classe dei sacerdoti celtici.

Dopo due secoli di dominazione la Gallia era perfettamente integrata nell’impero romano, e la popolazione parlava in latino, ma nella mente della gente certe vecchie superstizioni potevano rispuntare. Questo accadde quando dall’anno 165 una pestilenza proveniente dall’oriente si diffuse in tutto l’impero. La diminuzione della popolazione causò carestia per mancanza di braccia nell’agricoltura, e lo sconvolgimento dell’apparato militare sui confini causò incursioni ed invasioni di barbari dalla Germania. Tutto ciò venne interpretato come collera degli déi. I pagani tentavano di placarli con sacrifici di animali, ma i Celti facevano di peggio.

Giulio Cesare scrive nel suo libro De bello gallico, La guerra contro i Galli, che presso di essi usava il sacrificio umano; si sacrificavano esseri umani per ingraziarsi gli déi in caso di malattie e di guerre, si poteva persino fare voto di sacrificare sé stessi facendosi uccidere o suicidandosi, ma di solito le vittime venivano prese tra i ladri, gli assassini, i nemici, gli stranieri. Se si voleva compiere un sacrificio di moltitudini, veniva costruito un fantoccio di legno alto diversi metri, cavo all’interno. Dentro questo simulacro venivano stipati a forza gli uomini e donne da sacrificare, poi si dava fuoco al tutto. Se moriva una personalità importante, come un capo guerriero, si buttava nel fuoco ciò che egli possedeva, compresi gli animali e gli schiavi.

Date queste tradizioni, resta facile comprendere come dopo anni di morìa, di privazioni e di minacce esterne circolasse tra le popolazioni galliche il desiderio di dare agli déi ciò che si credeva volessero: sangue umano. Le vittime pacifiche ed innocenti c’erano: i cristiani.

Il Cristianesimo si era affacciato nelle Gallie solo da pochi decenni, attraverso la migrazione di individui provenienti dalle regioni dell’oriente: Anatolia e Siria. Sbarcati alle foci del fiume Rodano (si dice che la prima sia stata Maria Maddalena), i cristiani avevano risalito questo fiume fino ad arrivare a Lugdunum, cioè l’attuale Lione, che era la capitale di tutte le Gallie e sede del governatore generale romano. La diffidenza verso il nuovo rito e l’origine straniera dovettero essere il motivo della decisione di arresto di quarantotto cristiani avvenuta il 2 giugno 177, durante una sommossa popolare a Lione e Vienne. Il governatore romano non fu migliore di Ponzio Pilato, la marmaglia isterica esigeva sangue, e glielo concesse, tutti i cristiani, tra i quali c’erano diciannove donne, furono condannati a morte, ma uno di essi, Vettio Epagato, venne risparmiato perché romano e nobile. In quel periodo regnava l’imperatore Marco Aurelio, saggio e filosofo, nemico delle ingiustizie e delle superstizioni, ma si trovava sul fronte bellico, impegnato a ricacciare i barbari invasori, e sarà informato a cose fatte.

A Lione ogni anno in agosto si svolgeva la fiera delle Gallie. I rappresentanti delle quaranta tribù galliche si riunivano per una specie di parlamento, in concomitanza c’era un grande mercato con festeggiamenti vari, tra i quali anche i giochi del circo. L’esecuzione dei cristiani fu lo spettacolo di quella stagione.

Dei quarantotto cristiani arrestati risulta che sedici morirono in carcere per i maltrattamenti, tra questi c’era il vescovo novantenne Potino (o forse Pontino, cioè originario della regione del Ponto sul mar Nero), che interrogato dal governatore: “Chi è il tuo dio ?” rispose “Lo conoscerai quando ne sarai degno”. A seguito di questa affermazione l’anziano vescovo venne picchiato, e morì in cella due giorni dopo. Ventisei vennero decapitati, questa era la pena per i cittadini romani. Sei furono gettati ai leoni probabilmente perché schiavi, tra questi ultimi c’erano due adolescenti: Blandina e Pontico, martirizzati l’8 agosto. La leggenda narra che Blandina non venne toccata dalle belve feroci, fu fatta incornare da un toro furioso e poi sgozzata. Nel culto tributato posteriormente ai martiri di Lione, Blandina è la più famosa e ricordata, forse perché tra tutti era l’unica vergine. I corpi dei martiri vennero bruciati e le loro ceneri gettate nel fiume Rodano, per questo non si hanno loro reliquie autentiche. Ardere gli umani sacrificati come si è visto era una tipica usanza druidica, per mandare le vittime in omaggio agli déi.

Appagati dal massacro, i Galli credettero di aver placato i loro idoli, e per più di settant’anni non vi furono più persecuzioni contro i cristiani. Le credenze druidiche però continuarono a decadere ed erano del tutto dimenticate alla fine dell’impero romano nel V secolo, anzi, il Cristianesimo fu così forte da convertire subito i barbari invasori, i Franchi e il loro re Clodoveo con la regina Clotilde. Dal sangue di quei primi martiri nascerà una nuova nazione attraverso la fusione dei Gallo-romani con i Franchi, la più cristiana di tutte nel medioevo, la Francia.

 

08 settembre 2017

La Chiesa o divide o diventa apparato di potere (III parte)


(le parti precedenti sono qui e qui)

di Marco Sambruna

RICAPITOLANDO
  
Il primo a cedere alle lusinghe della post modernità è stato il popolo dei cristiani ancor prima della chiesa gerarchica. L’adeguamento alle promesse delle magnifiche sorti e progressive secolari hanno cominciato a praticarlo i credenti abbandonando i sacramenti, la custodia dei sensi, la sobrietà.
La pigrizia e l’ottimismo hanno corrotto la cristianità inducendola a credere che il cristianesimo sia da sempre predestinato a divenire una religione secolare che promuova la tolleranza, l’ecologia, il vivere fraterno. Il che non è esattamente una menzogna, ma un idiotismo; infatti mentre la menzogna conosce la verità, ma decide di allontanarsene (apostasia), l’idiotismo non conosce nemmeno la verità, la ignora totalmente, nasce dall’entusiasmo emotivo privo di un minimo di esame sulle pulsioni da cui la mente è agita che è lo stigma della nostra debolezza umana. Per questo chi dice e promuove idiotismi ha molte più probabilità di salvarsi rispetto a chi dice e promuove menzogne.
Gran parte dei credenti credeva a una sua idea di cristianesimo a misura delle proprie debolezze, a un  Cristo frazionato da cui prelevare ciò che fa più comodo, a un’escatologia in cui il lieto fine è garantito mentre è solo previsto, preferisce un cristianesimo che tranquillizza anziché inquietare.
Ora invece proprio in quest’epoca metafisicamente desolata c’è una novità: i cattolici, gran parte dei quali hanno creduto di credere e quindi hanno dimorato in uno stato di fondamentale menzogna, pervengono alla verità su se stessi ossia hanno coscienza di essere stati cristiani solo superficialmente secondo il modello dei cristiani del primo tipo sopra menzionati. Situazione paradossale: perché se è vero che i cristiani si sono creduti tali senza esserlo per molto tempo ne consegue che quando si credevano  nella verità  (la creduta appartenenza cristiana) dimoravano nella menzogna vivendo secondo un ethos neopagano, mentre ora che sono nella menzogna in quanto lontani da un ethos cristiano dimorano nell’autenticità perché in effetti hanno una corretta percezione di sé stessi. 
Finalmente cioè si è ricomposta quella scissione che separava la percezione di sé come cristiani e lo stile di vita improntato a fondamentale neopaganesimo: ora il credente, forse per la prima volta nella storia, si percepisce per quello che è ossia fondamentalmente intriso di ethos neopagano.
In questa prospettiva si colloca la Chiesa come realtà che ha sempre denunciato e testimoniato la fondamentale debolezza e lontananza dell’uomo, anche se credente, dalla verità cioè da Dio; essa si conferma come unica depositaria della verità sull’uomo. La Chiesa infatti ha sempre denunciato come peccato supremo la superbia, ossia la convinzione di dimorare nelle virtù  laddove invece la comoda scissione fra auto percezione e stile di vita (ethos) generava ipocrite sopravvalutazioni, sebbene spesso inconsapevoli.
La Chiesa ha sempre segnalato il pericolo di credersi cristiani mentre non lo si è, ha sempre segnalato la necessità di continue correzioni virtuose per istituire la necessaria coerenza fra ciò che si pensa, ciò che si verbalizza e ciò che si agisce: gli stessi sacramenti del resto servono a favorire questa coerenza, una più chiara percezione delle proprie debolezze e contraddizioni al fine del cammino di correzione. Si può dunque affermare che la Chiesa non solo conosce, ma ha sempre conosciuto e divulgato la verità sull’uomo.
In questo senso la Chiesa non solo non esce sconfitta dal confronto col processo di secolarizzazione che finalmente chiarifica i cristiani a sé stessi, ma da questo confronto esce vittoriosa perché trova conferma della correttezza del suo pensiero sull’uomo nel momento in cui il credente, chiamato allo scoperto dalle scelte ineluttabili che la secolarizzazione impone, perviene alla verità su se stesso, scoprendosi animato da quell’ethos neopagano che la Chiesa ha sempre indicato come supremo pericolo.
Sembra siamo così arrivati a un punto decisivo, anzi conclusivo: l’uomo, anche il credente, sa per la prima volta chi è. La Chiesa potrebbe così avere assolto in pieno la sua missione, cioè rivelare l’uomo a se stesso proprio in quest’epoca metafisicamente desolata, ponendolo davanti a uno specchio in modo possa osservare la sua vera natura, quella natura violentata dal peccato originale che da sempre ostacola la relazione con Dio.
In un’ottica di economia salvifica Chiesa e secolo sono per una volta alleate: entrambe guidano  l’uomo alla conoscenza di sé stesso l’una indicandogli le sue contraddizioni, l’altro costringendolo a scelte divisive. Entrambe rendono l’uomo lucido a sé stesso, lo liberano da false auto rappresentazioni e gli chiedono infine di scegliere fra Dio o se stesso, fra un ethos coerentemente cristiano o uno secolare.
La Chiesa come discrimine nella scelta fra l’autenticità come fedeltà alla propria natura umana decaduta e  la verità come fedeltà a Dio ha quindi sempre conosciuto lo scarto fra le due realtà: essa è dunque garante della libertà di scelta e come tale non può scomparire perché altrimenti cessa la possibilità dell’esercizio della libertà che sempre presuppone la conoscenza di se stessi.
E’ dunque di suprema importanza che la Chiesa conservi il suo carattere distintivo: quello di essere divisiva e segno di contraddizione, cioè di discrimine, così come lo è stato Cristo. Qualora cessasse di esserlo perché cessa di distinguere fra ethos cristiano ed ethos laicista  stabilendo un’equivalenza fra ciò che tende al divino e ciò che tende all’ umano, se tutto questo avviene, ecco che la Chiesa diventa un apparato collaterale al Potere. 
Se si vuole qualcosa di simile a un falso profeta.

(fine)

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23 gennaio 2017

Quando dalla Pax Romana si passò alla Pax Christiana


di Marco Notarfonzo

Spesso capita di sentire o di leggere in giro discussioni, commenti, o apprezzamenti sull’impero romano, e in particolare sulla religione dei Romani. Questo è, probabilmente, un fatto positivo, perché gli uomini del mondo antico hanno ancora molto (e forse avranno sempre) da dirci. Per questo motivo può essere utile inquadrare brevemente la religione romana, i perché della sua decadenza e perché il Cristianesimo fu, fin dalla sua nascita, tanto prorompente nel contesto in cui si trovò ad essere, ed in cosa, più esattamente, fu una novità rispetto all’era precedente. Nei giorni scorsi, durante le festività natalizie si è parlato della genesi del Natale così come lo conosciamo, e a questo si è già risposto. Ma come era, in generale, il mondo romano nelle sue festività?

Il paganesimo romano è uno dei sistemi politeisti del mondo antico su cui abbiamo più informazioni ed è anche uno dei politeismi più complessi in assoluto (raggiunto in questo forse solo dall’induismo), complessità peraltro cresciuta di pari passo con l’imperium di Roma, per motivi intrinseci alla religione romana stessa. La religione romana era una tipica religione indoeuropea e mediterranea, legata cioè inestricabilmente alla comunità politica di cui era espressione, la stessa città di Roma: tutti gli ordini sacerdotali erano in realtà subordinati all’ideologia politica, fondamentalmente guerresca, che sosteneva la polis antica (e Roma in questo non faceva eccezione). I primi segni di crisi della religione romana si ebbero nella tarda repubblica (in realtà qualcosa potrebbe essere ravvisabile già dall’opera di Catone il Censore contro i Greci, durante le Guerre Puniche), quando Roma era già venuta a contatto con il mondo ellenistico e con la Grecia, e soprattutto per via delle guerre civili.

A partire dall’uccisione di Tiberio Gracco nel 133 a. C. si ebbe una escalation crescente che portò alla dissoluzione di tutti quei meccanismi che permettevano il funzionamento della polis: l’uccisione di un tribuno, violandone la sacrosanctitas, per di più all’interno del pomerio, la linea sacra che delimitava la città, da cui era estromesso tutto ciò che aveva a che fare con la morte, e più che mai uccidere un cittadino al suo interno era vietato. La mentalità giuridica e religiosa di Roma faceva sì che ciò che si fosse già verificato in passato, e con successo, si potesse ripetere, e così fu: si passò dallo scontro politico verbale a quello fisico come prassi, gli schiavi delle famiglie più influenti si armarono di bastoni durante le elezioni dei magistrati. I colpi successivi che subì la polis di Roma e, con essa, la sua tradizione, vennero da Silla, che entrò per la prima volta in armi all’interno del pomerio e assunse cariche politiche a vita e, per motivi simili, da Cesare. L’inizio della crisi del paganesimo si può quindi far risalire alla crisi della polis quale era la Roma repubblicana e con il successivo affermarsi di quella forma di governo che oggi chiamiamo principato.

Già nel periodo della tarda repubblica troviamo dunque i germi della decadenza della tradizionale religione romana, e perfino Cicerone, dopo aver ricoperto la carica sacerdotale di augure, scrisse il De Divinatione, criticando tutta l’arte divinatoria romana. I meccanismi politici che tenevano in vita la polis erano dunque intimamente legati alla religione, una religione fortemente e intrinsecamente politica, nella quale le cariche religiose erano anche politiche e attraverso la quale la cittadinanza, inconsciamente, adorava se stessa. La crisi politica della repubblica romana e la sua trasformazione portarono, per la prima volta nella storia mediterranea, all’affermazione del singolo su una collettività ormai non più politica, e quindi allo scollamento tra quello che era il consensum della volontà dei cittadini e l’azione di governo dei capi politici.

Tutti questi eventi non erano ovviamente sentiti in modo così repentino dai contemporanei ma in realtà lasciarono un vuoto nello spirito dei sudditi dell’impero, sfociato poi nella crisi spirituale dei due secoli successivi e all’affermazione di nuovi culti, provenienti dall’Oriente, intrisi di misticismo, più personali e intimi rispetto alla religione tradizionale romana, tendenzialmente essoterica, e si posero a tentare di sanare quella ferita che aveva segnato ormai tutti i sudditi dell’impero: si passò gradualmente da una religione ormai solo ossessionata dalla correttezza formale dei riti, in cui il minimo errore nell’esecuzione comprometteva la pax deorum (e quindi la pax romana) e comportava la completa reiterazione del rito (ciò che i Romani chiamavano instaurare), ad una concezione del sacro che metteva sempre più al centro il raggiungimento della felicità, evidentemente ora non più coincidente con le vittorie militari della polis; da una religione in cui non “si credeva”, ma in cui ci si trovava semplicemente a vivere, ad una vera e propria scelta di vita.

Inutile dire che tutto questo aprì la strada al Cristianesimo, il quale però non si limitò ad occupare il posto lasciato vacante dal morente paganesimo, ma diede nuova forza alla compagine statale imperiale, ricompattandola al suo interno, fornendo ai sudditi dell’impero - ormai nemmeno più divisi dalla distinzione tra cittadini e non cittadini – dei nuovi ideali per cui combattere. Come infatti scrisse un grande storico dell’età romana, Santo Mazzarino, “il dramma dell’uomo antico si placava di un ideale religioso nuovo: la fede”.
 

13 dicembre 2016

Santa Lucia, la tedofora di Dio nell'inverno della fede


di Alfredo Incollingo

Il Nord Europa protestante ha tramandato per generazioni un'insolita tradizione nel giorno di Santa Lucia: in ogni famiglia la figlia più grande, vestita di bianco e con il capo cinto da una corona di rami verdi intrecciati con sette candeline, porta del latte e dei dolci a tutti i familiari. Questo strano rito sembra il proseguo di antichi riti pagani che celebravano il solstizio d'inverno, il giorno più breve della stagione: la divinità come luce fa il suo ingresso dirompente nella notte naturale e in quella spirituale dell'uomo. Con la riforma gregoriana il solstizio slittò il 22 dicembre, ma la carica simbolica di Santa Lucia non venne sminuita. Solo oggi ci siamo dimenticati del ruolo che la martire siracusana ha nell'annuncio della nascita di Gesù: l'uomo moderno ha smarrito il suo orizzonte metafisico perdendo tutto il suo patrimonio tradizionale e significativo.

Per i puristi parlare di legami fra paganità e cristianesimo è azzardato e sconveniente, anche se questo atteggiamento fideista è estraneo al cattolicesimo. Come non ricordare il Medioevo, la scolastica e il suo interesse per la filosofia greca? I Padri della Chiesa non disprezzavano la sapienza pagana, riconoscendo un principio di verità nelle dottrine dei filosofi precristiani. Fu Lutero che infierì sul tomismo, snaturando l'intera teologia cattolica. Snatureremmo in parte la personalità della martire se non annoverassimo il passato, quello norreno: i simboli di luce della cultura nordica celebravano un fenomeno naturale, ma effimero, privo di un piano metafisico e eterno. Quando Cristo giunse nelle fredde (anche dal punto di vista morale) regioni del Nord Europa, donò calore e speranza a quelle genti, facendole sentire parte dei piani di Dio: Santa Lucia prese il posto degli dei e la luce degli idoli riprese vigore nella santità del nome di Gesù.

La martire annuncia la venuta del Signore con la sua personalità luminosa, incendiata dalle fiamme di una fede sostanziale. Nelle tenebre del nostro secolo ci ricorda la presenza viva del Signore con il Suo Natale, la Sua morte e la Sua Resurrezione, ma ci rammenta che nel cuore dell'inverno un Dio si Incarnò per farsi uomo e salvare i suoi figli, molto spesso ingrati. Santa Lucia è la tedofora di Cristo che comunica a tutti la sua nascita.

Lucia era di origini siracusane e la sua famiglia l'aveva promessa in sposa ad un ricco concittadino, garantendosi così un futuro sicuro. La madre si ammalò gravemente e la figlia si recò in pellegrinaggio alla tomba di Sant'Agata per chiederle la guarigione: la santa le apparve in sogno e le chiese di dedicare la sua vita ai poveri e agli ammalati in cambio della sua intercessione. La madre guarì e lei decise di rompere il fidanzamento e di donare i suoi avere ai più bisognosi. Queste scelte di vita erano proibite all'epoca: l'imperatore Diocleziano aveva scatenato una cruenta persecuzione contro la comunità cristiana dell'impero. Il pretendente sposo deluso dall'atteggiamento di Lucia e desideroso di vendicare il torto subito denunciò la donna, che nonostante fosse stata imprigionata, non rinnegò mai la sua fede. Né uomo né strumento di tortura riuscì a distoglierla da Dio: il suo amore per il Signore resistette al male che la circondava. Venne infine condannata a morte e uccisa con un pugnale infilzato in gola, senza però aver prima predetto la fine delle persecuzioni con la morte dell'imperatore.
 

14 aprile 2016

La “letizia dell'amore” cristiano e la tirannia dell'erotismo pagano



di Alfredo Incollingo

Non è un caso che Papa Francesco abbia scelto come titolo per la sua esortazione post-sinodale “Amoris laetitia”. L'amore è gioia di vivere e apertura verso la vita. Questa è una verità tutta cristiana. L'occidente  ha ereditato questa concezione erotica, intensa e sostanziale, ma lo stesso occidente l'ha tradita preferendo l'erotismo “tirannico” pagano.
Nel mondo greco Eros era una divinità dispettosa, mai paga. Le sue vittime erano sopraffatte da un desiderio insaziabile, distruttore nel momento della negazione del piacere. Medea tragicamente uccise i suoi figli quando Giasone le negò il suo amore. Clitennestra, sposa di Agamennone, di fronte alla lussuria e alle fornicazioni del marito, diede sfogo alla passione omicida, tramando con Egisto l'uccisione del re di Micene. Come non pensare poi a Elena il cui amore passionale fu la causa della guerra contro Troia. Sono donne volitive, pronte a tutto pur di soddisfare il loro amore turpe ed egoistico.
E' un amore tragico, amabile solo nel momento in cui esso è pienamente soddisfatto. Eros si diverte nel vedere tribolare i suoi sottoposti e la letteratura greca ha da sempre provato a spiegare i suoi intrighi.
Con l'avvento del cristianesimo Amore fu disarmato. Il mistico medioevo diede prova di grande interesse per l'erotismo, rivoluzionandolo. Adesso è la forza cosmica che unisce la creatura e al suo Creatore, è il legame che unisce il cristiano alla Chiesa, il Corpo mistico di Cristo. E' sotto questa nuova forma, spirituale e libera dalla tirannica libido, che la cristianità diede pienamente forma all'eros. “Due in una carne”, c'è scritto nel Vangelo di Matteo. Quando si ama, si entra in connubio nell'anima e nel corpo. Ci si dona a vicenda, non solo nei sentimenti, ma anche nella carne. Amare in definitiva vuol dire “carità”, donarsi pienamente all'altro. Il “ti amo” è adesso la formula un patto, quello di un amore fedele e eterno.  Non è un caso, affermava Benedetto XVI nella sua enciclica “Deus caritas est”, se i primi cristiani utilizzavano la parola “agape”, “carità” in greco, proprio per indicare la sostanziale differenza con l'erotismo greco. Non più un eros “distruttore” e “irrazionale”, ma “agape”, un amore purificato e proteso all'esser beato. Mentre i pagani trovavano nei riti orgiastici la via al divino, assecondando tuttavia il loro istinto e un erotismo disumano, i cristiani cercano nell'amare la divina beatitudine.
Il cattolicesimo ha quindi dato dignità all'amore e al sesso, facendo “a botte” con le sue tendenze “platoniche” quindi refrattarie della materia.
Su queste verità il Magistero ha santificato il matrimonio, nel quale il sesso trova il suo giusto compimento, aperto alla vita, votato alla procreazione. Ci si “dona” anche nel generare la vita.
L'amore è letizia quanto più è libero dalla dittatura della libido e lontano dalla mondanità. La smania sessuale moderna è una sindrome che imprigiona la società e che la rigetta nel suo passato “pagano”. Eros è di nuovo un'entità impulsiva e esigente. Di fronte a queste sfide, che la modernità ci pone, i cattolici non possono tirarsi indietro e affidarsi a clausole e deroghe. 
 

31 ottobre 2013

Halloween: notte di streghe o di santi?

di Lorenzo Roselli

Normalmente, quando a proferire la parola Halloween è un cattolico, risulta difficile non sentire esecrazioni e recriminazioni ad essa associati. In generale, molti cristiani vedono nella festa autunnale di Halloween nulla più che pericolose rimembranze di culti ancestrali, rielaborate in chiave cimiteriale. Altri le affibbiano direttamente attributi diabolici, ispirati magari da qualche remoto fatto di cronaca riguardante le Bestie di Satana.
 

21 giugno 2013

Venner un mese dopo: riflessioni su un suicidio da eroe tragico

di Andrea Virga

«Champs-Elysées, un grido smorzato, / in piena Parigi un giovane è bruciato. / Champs-Elysées, senti la Senna, / canta in silenzio ma non è pena […] Un nome, un cognome per l'Europa perché / ora vive un eroe anche in Champs-Elysées.» Così iniziava e finiva una vecchia canzone della Compagnia dell’Anello (album “Dedicato all’Europa”, 1984), dedicata ad Alain Escoffier, il giovane patriota francese che si diede fuoco davanti alla sede parigina dell’Aeroflot, compagnia di bandiera sovietica. Era il 10 febbraio 1977, trentesimo anniversario del Trattato di Parigi che aveva sancito la servitù dell’Europa divisa tra Mosca e Washington. Prima di morire aveva gridato: “Comunisti assassini”.

È la sua storia che balza subito alla mente nel caso di Dominique Venner, prima ancora che non i consueti paragoni a Jan Palach e Yukio Mishima, rimbalzati su tutti i giornali. Come Escoffier, anche Venner non aveva assistito all’invasione e all’occupazione militare della propria terra, ma si rivolgeva idealmente ad una Patria più grande: l’Europa intera. Non mancava, ad onor del vero, qualche accento islamofobo e anticomunista – comprensibile in chi abbia vissuto, come lui, la lotta dell’OAS a difesa dei Pieds-Noirs d’Algeria, e poi, dall’altra parte della barricata, i tumulti sovversivi del Maggio francese –, ma era nondimeno un patriota europeo, della nostra stessa Europa che affonda le sue radici nel mondo classico, tenuta a battesimo dalla Croce di Cristo e dalla spada degli Imperatori, e infine vittima di quelle forze faustiane della modernità, da lei stessa scatenate; la nostra Europa di oggi schiavizzata dalle basi militari a stelle e strisce, dai comitati d’affari oligarchici, dalle burocrazie cosmopolite e mondialiste. E a suo dire, per la Patria, «ci sarà certamente bisogno di gesti nuovi, spettacolari e simbolici per scuotere le sonnolenze, smuovere le coscienze anestetizzate e risvegliare la memoria delle nostre origini. Entriamo in un tempo in cui le parole devono essere autenticate dai gesti.»

A dire il vero, a togliersi la vita a Notre Dame – come ricorda Miguel Martinez – c’era già stata l’intellettuale e artista messicana Antonieta Rivas Mercado, l’11 febbraio 1931; tuttavia, il gesto dello scrittore francese ha sollevato comunque un forte scalpore, in Francia e altrove. I più, conservatori e progressisti, presi dalla loro lotta, hanno respinto Venner come “un omofobo”, “uno squilibrato”, “un fascista”, insomma qualcosa di alieno alla comune mentalità borghese. Il giorno dopo, una Femen qualsiasi ha squallidamente parodiato il suo gesto, la scritta “Il fascismo giaccia all’inferno” sui seni nudi. La stagionata attivista Frigide Barjot, portavoce della Manif pour Tous, l’ha bollato come il gesto isolato di un individuo d’estrema destra, che non aveva nulla a che fare con loro. La loro meschina incapacità di comprendere chi è pronto a sacrificare la vita per la causa ha dato ragione a Venner, che parlava di «una riconquista della memoria europea e francese, il cui bisogno non è ancora nettamente percepito». Si deve tenere presente che il matrimonio omosessuale non è che un tassello del mosaico anticristico, della perversione e dell’annientamento di ogni naturale legge, gerarchia e differenza. Eppure, «i manifestanti del 26 maggio non possono ignorare questa realtà».

Dominique Venner non era uno psicotico o un depresso nel senso corrente e mondano. Si era dedicato alla politica fino al 1967, e poi aveva continuato la sua attività di studioso e di storico, pubblicando decine di libri di valore. Si era sposato e aveva generato figli. All’età di settantotto anni era un uomo che aveva compiuto il proprio dovere, e riteneva di dover compiere un’ultima testimonianza del proprio ideale, con la propria morte. Lucido e coerente con la propria religiosità pagana, scelse la morte volontaria. A questo riguardo, citava l’Heidegger di Essere e Tempo: «Bisogna che ci ricordiamo anche […] che l’essenza dell’uomo è nella sua esistenza e non in un “altro mondo”. È qui e ora che si gioca il nostro destino fino all’ultimo secondo. E questo ultimo secondo ha importanza tanto quanto il resto della vita. È perché bisogna essere se stessi fino all’ultimo istante. È nel decidere da se stessi, volendo veramente il proprio destino, che si è vincitori del nulla. E non ci sono scappatoie a questa esigenza poiché non abbiamo che questa vita nella quale ci appartiene d’essere interamente noi stessi o non essere nulla.»

Una visione che fino ad un certo punto possiamo fare nostra. È davvero nella nostra vita terrena, fino all’ultimo respiro, che si decide la nostra salvezza o la nostra dannazione, e sta proprio a noi stessi, col nostro libero arbitrio, la scelta – ripetuta ogni istante – di accettare o rifiutare la Grazia divina. Una cosa però, in particolare, non è a noi concessa: sottrarci a questa scelta, decidendo di porre fine a questa vita terrena. Il gesto di Venner è perciò tragico come lo sono le vite degli eroi classici: l’eroismo solitario di chi combatte la buona battaglia senza speranza di vittoria, perché senza Cristo. Da Achille a Giuliano, hanno stoicamente affrontato il proprio destino, e sono caduti. Se siamo in buona fede, non possiamo non riconoscere la grandezza di questa tragedia, e provare un misto di ammirazione e compassione, anche se Venner non seppe mai comprendere, da parte sua, la grandezza ancora maggiore dell’Amore di Cristo. Eppure, nella sua scelta della Cattedrale di Notre Dame, come luogo sacro per il popolo francese, non c’è alcuna volontà di profanazione, ma semmai, inconsciamente, di affidarsi tra le braccia amorevoli della Madre di Dio, della Francia e di tutti noi.

In questi rari casi, secondo quanto affermato dal teologo Zverina a proposito di Jan Palach, non si tratterebbe di un rifiuto della vita, dono di Dio, dettato dalla disperazione, ma di un’offerta volontaria della propria vita. In effetti, deve far riflettere che subito dopo la morte di Alain Escoffier, Mons. François Ducaud-Bourget, capofila del cattolicesimo tradizionale in Francia, invitò dal pulpito ad appoggiare il Comitato intitolato alla di lui memoria. Prima di lui, c’era stato il suicidio del Presidente brasiliano integrista Getúlio Vargas (1954), minacciato dai golpisti della destra liberista e reazionaria. Dopo di lui, venne S.E. John Joseph, vescovo di Faisalabad in Pakistan, che si diede la morte nel 1998 per protestare contro le persecuzioni religiose. Tutti e tre ebbero funerali cattolici, e quest’ultimo è ora venerato come martire dal suo gregge. Chiaramente, il suicidio resta un peccato grave, ma «non si deve disperare della salvezza eterna delle persone che si sono date la morte. Dio, attraverso le vie che egli solo conosce, può loro preparare l'occasione di un salutare pentimento» (CCC § 2283). A Dio resta quindi l’estremo Giudizio, ma non si agiti moralisticamente il suicidio per squalificare la denuncia che Venner ha compiuto.