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06 febbraio 2019

Totalitarismo e Dichiarazione dei diritti dell'uomo

Dottorato in scienze politiche (EHESS), Guillaume de Thieulloy è l’editore di un gruppo di media francesi di stampo conservatore. È stato anche membro dello staff del vicepresidente del senato francese, Jean-Claude Gaudin. Questo articolo è stato originariamente presentato ad una conferenza del centro Notre Dame per l’etica e la cultura, il 3 novembre 2018.
Traduzione di Riccardo Zenobi. Link originale

È suggestivo per gli storici della Rivoluzione francese che, pochi mesi dopo la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (26 agosto 1789) iniziò il Terrore e, con esso, il primo esperimento di sterminio deciso da una forza politica contro la sua popolazione – specialmente in Vandea. Questa enorme differenza tra diritti umani e Terrore appare strana: non è semplice capire come, dopo il riconoscimento pubblico della dignità umana, la stessa forza politica può organizzare grandi stermini di esseri umani.
La mia tesi è che il Terrore o, parlando in generale, il totalitarismo non è contro la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Al contrario, è una possibile conseguenza della separazione dei diritti umani dalla natura umana e dal Creatore di questa natura – separazione che è ufficiale nella stessa dichiarazione del 1789.

Certamente, devo ammettere che questa tesi è in parte provocatoria, non solo da una prospettiva politica, ma anche da una prospettiva cristiana. Tutto l’insegnamento recente della Chiesa afferma o almeno implica, al contrario, che la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino è la versione secolare del Decalogo. Su questo punto il magistero sta seguendo il grande filosofo tomista francese Jacques Maritain che scrisse in I diritti dell’uomo e la legge naturale (pubblicato nel 1948, proprio quando l’ONU stava per pubblicare la sua dichiarazione universale dei diritti umani): "La legge naturale e la luce della coscienza morale dentro di noi non prescrivono soltanto cose da fare e da evitare; riconoscono anche diritti, in particolare, diritti connessi con la genuina natura dell’uomo”. Questa affermazione è, indubbiamente, in gran parte corretta. [1] Ma voglio insistere su questo punto: la visione moderna dei diritti umani – e a maggior ragione la visione postmoderna dei diritti umani – non è soltanto una trasposizione secolare parola per parola della legge naturale, ma ha una logica molto differente e, in certo modo, opposta.

La dichiarazione contro la natura umana
L’essere umano della dichiarazione non è un essere umano concreto: è un individuo separato da altri esseri umani. Possiamo ritenerlo una “monade”, come la definisce Leibniz. O, meglio, con le parole di Ernest Renan – un grande sostenitore dei principi del 1789 – come un “essere astratto, nato orfano, vissuto scapolo, e morto senza figli”.
Per essere più precisi, significa che la dichiarazione del 1789 si erge fortemente contro ogni radice dell’essere umano: nessuna famiglia, nessuna provincia o tradizione aggregante.
Molti dei costituenti dell’89 non credevano che la legge naturale, e la stessa natura umana, fossero conoscibili tramite la ragione umana. Questo fatto può forse sorprendere il lettore, in quanto dopotutto gli autori della Dichiarazione parlano molto spesso di natura. Ma mentre ne parlano, generalmente si riferiscono al mitico stato di natura, non alla reale natura umana. E anche coloro che credevano in una natura umana che potesse dettare diritti umani rifiutano la natura storica degli esseri umani

La dichiarazione e Utopia
I costituenti sognarono una società totalmente nuova e un essere umano totalmente nuovo, o tabula rasa.
Erano specialmente interessati nella promozione di un deciso egualitarismo: non condannavano solamente i privilegi ma ogni ineguaglianza. Alcuni moderati provarono a dichiarare nel primo articolo: “Gli uomini sono nati uguali nei diritti” – senza la parola “rimangono” – ma la maggioranza rifiutò e impose questa sentenza che è chiaramente falsa: “gli uomini nascono e rimangono liberi ed uguali nei diritti”.
La questione dell’uguaglianza in diritti alla nascita è principalmente una questione di comprensione dei termini: uno può dire che tutti gli uomini condividono la stessa natura umana e una uguaglianza fondamentale; lo stesso è stato detto da molti Re francesi e non era essenzialmente opposto alla nozione di privilegio. Oppure si può dire che essere nato in questa o quella famiglia significhi una ineguaglianza dalla nascita. Ma, ad ogni modo, è facile comprendere cosa intendiamo con eguaglianza di diritti alla nascita. La questione di una uguaglianza fondamentale dopo la nascita e durante la vita è molto più complicata. Si può anche dire che le comune natura e la comune dignità sono condivise durante la vita. Ma in questo caso, non possiamo comprendere la seconda sentenza dell’articolo: “le distinzioni sociali possono basarsi sulla comune utilità”. Ritengo che significhi che l’essere umano di questo articolo non è un essere umano reale ma piuttosto un obiettivo della nuova società: la società ora deve operare per costruire una “vera” uguaglianza in diritti. Ed è per questo che, dopo il 1789, l’egualitarismo e specialmente il socialismo hanno avuto una così grande ascesa nel dibattito politico francese.
Un ultimo indizio riguardo questo utopismo dei costituenti sta nel loro attaccamento al mito dello “stato di natura” e al connesso mito del “contratto sociale”. Come ho detto sopra, quando i costituenti parlano di natura umana, solitamente parlano di questo inesistente stato di natura, non della natura umana.
Parlando genericamente, rifiutano di ascoltare la voce della storia e l’esperienza degli antichi. E ciò li guida a dichiarazioni molto strane. Per esempio, la dichiarazione dell’agosto 1789 afferma nel suo articolo 16: “ogni società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha costituzione”. Il che significa chiaramente che la Francia nel 1789 non era “costituita” – anche se, all’epoca, ha vissuto come nazione per quasi 12 secoli!

La dichiarazione e lo statalismo
Un’altra opposizione tra la dichiarazione e la dignità umana, e specialmente la libertà umana, giace nello statalismo del testo. Ancora una volta, ciò tende a sorprendere. Siamo più familiari con l’individualismo dei principi del 1789. E, di certo, lo statalismo era, all’epoca, solo alla sua alba. Abbiamo visto di molto peggio nel ventesimo secolo.
Ma la dichiarazione del 1789 promuove anche un forte statalismo. Nel suo articolo 3, viene detto: “Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo, nessun individuo può esercitare autorità che non derivi espressamente da essa”. Il che significa che nessuna autorità può essere fondata eccetto l’autorità politica: per esempio, un manager o un padre sono supposti ricevere dalla nazione la loro autorità sulla loro impresa o famiglia. Questa è una conseguenza assurda del contratto sociale di Rousseau, che conosce solo individui e l’intero corpo politico, ma nulla in mezzo.
Perciò questo testo non è esattamente una dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, come il titolo afferma esplicitamente: questo essere umano è un “non ente”; è un’astrazione, come abbiamo visto prima.
Così tali diritti umani sono i diritti di un essere umano virtuale, in uno stato di natura che non esiste. E i diritti politici del “cittadino” menzionato sono diritti in una città che non era ancora costituita. Devo nuovamente puntualizzare che la Dichiarazione fu pensata come il primo passo per costituire la Francia, perché, per questi strani costituenti, la Francia che ha vissuto come nazione sin dalla fine del quinto secolo è stata supposta non costituita alla fine del diciottesimo!

La dichiarazione e l’onnipotenza della legge
Tutto il pensiero rivoluzionario punta alla legge e al potere legislativo: i filosofi politici francesi lo chiamano légicentrisme, una visione politica focalizzata sulla legge. Ma questa legge non è la tradizionale visione della legge, riassunta da Tommaso d’Aquino il quale spiega che “la legge è un ordine della ragione per il bene comune stabilito e promulgato dalla persona in carica nella comunità” (ST 2.2.90).
All’opposto, l’articolo 6 della dichiarazione dice, “la legge è l’espressione della volontà generale”. Dunque la legge non ha nulla a che fare con la verità, e tutto con la volontà – e, più precisamente, una volontà onnipotente. Dunque, se la “volontà generale” decide che gli abitanti della Vandea sono “animali”, non possono più rifarsi alla protezione dei diritti umani – da qui il Terrore è logicamente compatibile con la Dichiarazione.
In tale visione, la legge è onnipotente: può plasmare la società e lo stesso essere umano. E questa visione, ancora effettiva, spiega perché il parlamento vede sé stesso capace di aggiustare la verità storica o di cambiare la natura del matrimonio – addirittura di mutare un uomo in donna.

La Dichiarazione e Dio
Possiamo leggere la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino come data da Dio. Questa è chiaramente la lettura di Jacques Maritain. Come Dio ci ha dato il decalogo, che riassume i nostri doveri verso di Lui e verso il prossimo, Egli ci dà la Dichiarazione, che riassume i nostri diritti.
Ci sono alcuni argomenti a supporto di questa lettura. Il più forte è nel testo stesso della Dichiarazione. Appena prima degli stessi articoli, possiamo leggere questa sentenza nel preambolo: “L’assemblea nazionale riconosce e dichiara, alla presenza e sotto gli auspici dell’Essere Supremo, i seguenti diritti dell’uomo e del cittadino”.
Ma, se leggiamo attentamente, l’Essere Supremo non è l’autore: è solo un testimone prestigioso di questo momento solenne. Inoltre, uno dei più famosi costituenti dell’epoca, Virieu, disse: “Ciò che mi tocca di più, è l’invocazione all’Essere Supremo. Non si dice che riceviamo questi diritti dalla Natura; è un accordo negoziato dalla nazione sotto gli auspici della divinità”. I diritti nella Dichiarazione non sono i diritti naturali nel senso classico della parola: se lo fossero, dovrebbero essere radicati nella natura umana, ma la natura umana non significa nulla per i costituenti.
Il vero autore della dichiarazione è l’assemblea nazionale. E la sua azione è duplica. In primo luogo, riconosce diritti preesistenti. Ma, contrariamente al diritto naturale classico, questi diritti non sono dedotti da una legge superiore, alla quale l’Assemblea Nazionale deve obbedire: l’Essere Supremo non dice nulla ai costituenti. È un testimone muto. E in secondo luogo, l’Assemblea Nazionale dichiara i diritti, in modo da crearli dal nulla.
Quindi, qualsiasi cosa la menzione dell’Essere Supremo possa significare, è praticamente certo che i diritti della Dichiarazione non sono dati da una legge superiore. Recentemente, un senatore socialista, Jean-Pierre Michel, spiega chiaramente questa nozione: “Ciò che è giusto è ciò che dice la legge. Tutto qui. E la legge non fa riferimento ad un ordine naturale. Si riferisce ad un bilancio di forze di un dato momento. E questo è tutto”.

Diritti umani dopo il 1789
I moderni diritti umani arrivano dopo il 1789.
Il prossimo passo è la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948. Molte persone leggono questo nuovo testo come un ritorno all’essere umano reale – visto come un lavoratore, un padre o un marito, o (detta brevemente) come un essere umano concreto, radicato nelle sue comunità e corpi sociali o religiosi. Ma l’utopia resta: molti dei diritti sociali o economici menzionati nella Dichiarazione Universale non hanno nulla a che fare con i diritti umani. Certamente, è bene che tutti abbiano cibo e un tetto sotto cui vivere, ma questo non è un diritto umano nello stesso senso in cui lo è il diritto alla vita. Il diritto alla vita implica che nessuno ha il diritto di uccidere un innocente e che lo stato è obbligato a proteggere la vita dell’innocente. Ma lo stato non è obbligato ad alloggiare o nutrire chiunque – e nemmeno tutti i cittadini.
Ma, il passo ulteriore è forse più importante. Dopo il 1968, i diritti umani hanno mutato la loro natura: sono diventati diritti degli individui come parti di “minoranze” – e, molto spesso, contro la stessa natura umana.
Alcuni nuovi “diritti” sono diritti alla negazione di qualche bene naturale: per esempio, non un diritto alla vita, ma un diritto all’aborto e all’eutanasia, che negano la vita. E alcuni altro nuovi “diritti” sono diritti ad andare oltre la natura o contro la natura. Per esempio, il diritto per le coppie omosessuali di crescere bambini, anche se naturalmente tali copie non possono far nascere un bambino. O, forse ancora più sorprendentemente, se sono nato come ragazzo, ho il “diritto” di essere visto come una donna.
Questa nuova visione dei diritti umani ci guida lontani dai diritti umani al transumanismo e al diritto di non essere limitati da una natura umana “fascista” – come dicono filosofi decostruttivisti come Derrida e Foucault.
Non è il momento di esporre in dettaglio questa sovversione postmoderna dei diritti umani. Ma devo menzionare due recenti e stimolanti libri su questo tema. Il primo è del mio caro insegnante Pierre Manent, La loi naturelle et les droits de l’homme. Come potete vedere, questo titolo capovolge quello di Maritain: non so se il titolo vuole prendere Maritain come bersaglio, ma sicuramente le sue tesi sono criticate. Ad ogni modo, questo libro contiene alcune pagine convincenti sui diritti LGBT in quanto opposti alla reale nozione di natura umana. Il secondo libro è di una persona molto pratica della legge e della corte europea dei diritti umani, il mio amico dott. Grégor Puppinck, intitolato Les droits de l’homme dénaturé, che espone molto chiaramente quanto è lontana la nuova giurisprudenza internazionale sui diritti umani dalla classica legge naturale ed anche dalla nozione moderna dei diritti umani.

Conclusione
Come ho notato all’inizio, il filosofo cattolico francese Jacques Maritain espone che la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino è stata, in un certo modo, una trascrizione secolare della legge naturale riassunta nei dieci comandamenti. Sembra essere ovvio: se Dio mi chiede di non uccidere il mio prossimo, significa che questo prossimo ha il diritto di vivere. Privarlo della sua vita significherebbe privarlo del suo ius, del suo diritto; sarebbe ingiusto. Devo aggiungere che Maritain e l’insegnamento contemporaneo della Chiesa sono nel giusto nel ricordarci che i diritti umani sono stati largamente rivelati all’umanità tramite la rivelazione biblica.
Ma la trascrizione secolare cambia l’intero significato del testo. Nella dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, troviamo 3 caratteristiche importanti. In primo luogo, questi diritti non sono radicati nella natura umana creata da Dio: dunque possono mutare. Secondariamente, questi diritti non sono le conseguenze di doveri. Gli unici doveri che possiamo vedere nella dichiarazione sono doveri politici, non doveri morali. Dunque la dichiarazione comincia a lusingare il nostro istinto al piacere, non a stimolare il nostro desiderio per il bene. Così è molto lontana dalla migliore base per una società. E, terzo, questi diritti non sono dati da Dio, sono negoziati tra pari. Questo contratto negoziato è un terreno molto fragile per promuovere la dignità umana.
I totalitarismi del XX secolo asserivano di rispettare i diritti umani ancora meglio rispetto alle democrazie liberali, e affermavano di agire nel quadro di riferimento di un processo legale ufficialmente collegato alla dichiarazione del 1789. Ma in questi regimi, il potere politico aveva la possibilità di escludere legalmente ogni categoria di esseri umani dall’umanità. Il loro rispetto formale per la dichiarazione nascondeva un crudele combattimento contro la dignità umana.

Abbiamo adesso ciò che Papa Benedetto XVI chiamò la “dittatura del relativismo”, nella quale chiunque può affermare i diritti umani di amministrare la morte (con l’aborto o l’eutanasia) oppure può decidere che un essere umano non è più umano (per esempio, un feto “non voluto”) o, al contrario, che un animale o addirittura un robot condivide qualcosa della nostra natura umana. Così possiamo fare ricorso ai diritti umani per mutare o uccidere la natura umana.
Come dice il famoso aforisma postmoderno: “Non ci sono più giusto o sbagliato, solo diritti”. Ma questi “diritti” non hanno né base né stabilità. È dunque urgente proporre una nuova critica di questi diritti umani, sia moderni che postmoderni, e tornare alla visione aristotelica o tomistica della legge naturale come migliore salvaguardia per la dignità umana.


[1] Nota dell’editore: anche questa dichiarazione di Maritain necessiterebbe di essere ulteriormente precisata. I giuristi roani e i più grandi dottori scolastici usavano diritto (ius) nel senso di oggetto della virtù di giustizia. Ossia, più semplicemente, la cosa dovuta ad un altro. Per esempio, il pane che un panettiere deve a qualcuno che lo ha pagato per quel pane. Ma all’inizio della modernità diritto inizia ad essere usato nel senso di una forza morale, ossia ciò che qualcuno deve avere il permesso di fare senza interferenza. Come Pietro Ispano mostra, il senso moderno è un’estensione analogica (fatta propria successivamente da scolastici barocchi come Suarez), e originariamente significa che se una cosa è diritto di qualcuno, allora il potere o la licenza che si ha di fare certe cose o con tali cose è anch’essa dovuta al soggetto, i.e. è suo diritto. Per esempio, se un pezzo di pane è ius di qualcuno, allora mangiarlo è anche suo ius. Ossia, deve essergli permesso di mangiare il pane. Ma all’inizio della modernità un altro spostamento ebbe luogo. L’estensione analogica di ius, diritto visto come potere, inizia ad essere vista come il primo analogato, e il diritto oggettivo, l’oggetto dovuto ad un altro, come un’estensione analogica. I teorici dell’illuminismo sostengono che qualcosa è dovuto ad un altro, perché egli ha una forza morale inviolabile di domandarlo. Invece del fatto che il potere è un effetto del fatto che gli è dovuto qualcosa. Henri Grenier espone le conseguenze: “Se il diritto oggettivo è inteso come diritto nel senso più stretto, segue che il diritto soggettivo, i.e., il diritto come potere, è misurato da ciò che è giusto, in accordo con la conformazione alla legge. Inoltre, poiché la legge è un ordinamento al bene comune, segue che l’intero ordine giuridico è diretto al bene comune. Ma, se i diritti soggettivi sono intesi come diritti nel senso primario, stretto e nel significato formale del termine, segue che l’ordine giuridico consiste in una certa autonomia, indipendenza e libertà. In quanto i diritti soggettivi non sono misurati da ciò che è giusto, ma ciò che è giusto è misurato dalla facoltà inviolabile, che è una certa libertà. Dunque, secondo i moderni, l’ordine giuridico è diretto alla libertà invece che al bene comune. Questo dà luogo ad errori nei moderni, che parlano di libertà di parola, libertà di culto, libertà economica – liberalismo economico – senza alcuna considerazione della loro relazione al bene comune.” (Moral Philosophy § 960). Nelle teorie dell’inizio della modernità (manifestate, per esempio nella Dichiarazione d’indipendenza americana), il potere soggettivo è ancora visto come radicato in una natura umana creata. Ma come Guillaumee de Thieulloy mostra nel presente saggio, la Rivoluzione francese si muove ancora oltre verso il soggettivismo.

 

18 luglio 2018

Lo sterminio dei Romanov. Un secolo fa

di Giorgio Enrico Cavallo
Nella notte tra il 17 e il 18 luglio 1918, nella villa Ipat’ev di Ekaterinburg, ai piedi degli Urali, i bolscevichi sterminarono la famiglia dell’ultimo zar di Russia, Nicola II. La necessità di uccidere lo zar era dettata dal timore che i rivoluzionari avevano di perdere la guerra civile: il rischio che l’esercito bianco prevalesse era sempre dietro l’angolo, anche per il supporto che le potenze occidentali – senza grande entusiasmo, va detto – davano alla causa dei monarchici russi. Ebbene, Nicola II fu barbaramente ammazzato senza alcun preavviso, e con lui l’intera famiglia e i servitori. Una strage della quale fu vietato parlare, tanto che il luogo della sepoltura degli ultimi Romanov fu per decenni segreto.

Lenin e Stalin si sarebbero forse aspettati che, cento anni dopo, la loro folle rivoluzione sarebbe ancora all’apice della potenza e che l’Unione Sovietica fosse coronata da chissà quali glorie. Se gloria si può definire la distruzione di un mezzo continente, con l’implosione economica, sociale e demografica, allora possiamo dire che l’Unione Sovietica fu un vero capolavoro politico. Ma poiché non ci siamo ancora inchinati alla neolingua che stravolge il senso delle parole, diremo ciò che l’Unione Sovietica è stata: una prigione crudele, sotto l’insegna di una delirante teoria politica e di un ateismo militante violento e feroce. Roba che faceva rimpiangere gli zar. Ci scusino i compagni Lenin e Stalin, ma cento anni dopo la Russia ha cambiato percorso e molti russi stanno rimpiangendo l’epoca degli zar.

Come è noto a molti, Nicola II, Alessandra e i loro figli sono stati santificati dalla chiesa ortodossa nel 2000, alla presenza di Putin e di El’sin. Sorprenderà sapere che la gente depone ancora fiori sulla tomba della famiglia martire, sepolta nella cattedrale di San Pietro e Paolo a San Pietroburgo. Sorprenderà, ma non troppo: perché anche sotto la cappa asfissiante del comunismo, molti hanno trasmesso la verità e la fedeltà ai valori cristiani; c’era anche chi, pur disprezzando in pubblico gli zar ormai sterminati, in privato li rimpiangeva. Ed ecco: caduto il muro di Berlino, crollata l’Urss, la Russia putiniana ha riscoperto i sani valori cristiani e, naturalmente, ha potuto salvare dall’ignominia la famiglia di Nicola II. C’è pure chi, con grande libertà, afferma pubblicamente che un ritorno dei Romanov in Russia non sarebbe poi così male. Anzi: sarebbe un modo per cancellare l’onta del comunismo e per fare della Russia il traino di una rinascita cristiana dell’Europa.

Follie? Sogni geopolitici? Sarà, ma l’importanza della Russia sullo scacchiere internazionale è sempre più marcata; opera senza dubbio di Putin, ma per noi la sua capacità – da sola – non è l’unica spiegazione. Noi sappiamo, infatti, che il 13 luglio 1917 (un anno prima dell’esecuzione dei Romanov) la Vergine annunciò ai tre pastorelli di Fatima tre “misteri”, chiedendo la consacrazione della Russia al Suo Cuore immacolato. «Se accetteranno le Mie richieste, la Russia si convertirà e avranno pace; se no, spargerà i suoi errori per il mondo, promuovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa. I buoni saranno martirizzati, il Santo Padre avrà molto da soffrire, varie nazioni saranno distrutte. Finalmente, il Mio Cuore Immacolato trionferà. Il Santo Padre Mi consacrerà la Russia, che si convertirà, e sarà concesso al mondo un periodo di pace». Che ciò sia avvenuto davvero, è oggetto di dibattito. Ciò che è innegabile è che il crollo del comunismo e la rinascita della fede in Russia sono argomenti tangibili e concreti; ad un osservatore cattolico, viene anche un pizzico di invidia, perché l’ortodossia sembra conoscere una nuova primavera (mentre a casa nostra, la cattolicità pare ridotta ad un’associazione del buonumore e del volontariato). La centralità della Russia nelle parole di Maria ci deve però far pensare che questa nazione abbia ancora da svolgere un ruolo da protagonista nella storia della cristianità. E forse, che il sangue dell’ultimo monarca della Vecchia Europa possa portare un seme di speranza e di rinascita.


 

27 agosto 2017

Ritornare all'ortodossia occidentale/2. Benedetti Norcini

O Rifondare l'ortodossia latina


«I presagi son quei segnali di cose future che riconosciamo quando il futuro è ormai scivolato nel passato» (I nostri padri, p. 237, Tate Allen)
 
di Matteo Donadoni
Fragili foglioline tremolanti nella brezza di una sera. Questo sono diventati gli studenti universitari americani? Tanto deboli culturalmente da sentirsi minacciati dalle statue degli eroi del passato, da non accorgersi del veleno che li uccide è presente, l’ideologia demenziale del politically correct, definizione debole di un contenuto brutale: menzogna. Poverini, hanno buttato soldi in scuole inefficienti e il buonsenso per cause non solo sbagliate, ma inventate. Se non fosse un vegetale, un giovanotto di questo tipo, inferocito da una rabbia ideologica, sarebbe uno studentello col cervello di un uccello. Perciò sono foglioline che non sanno di essere cresciute sopra un albero. Hanno imparato a rigettare la propria storia, le proprie origini, la propria fede. Vogliono essere belli al sole come se non dovesse piovere mai, non sono né liberali né tolleranti, ma intransigenti viziati e manipolati, per questo sono spaventati da sentimenti come orgoglio e onore: li hanno segati insieme al ramo sul quale sono seduti al sole, li hanno vomitati dalla propria anima e perciò non li capiscono. Non possono. “Heritage not hate” è un adagio che ormai si vuole ignorare da entrambe le parti, suprematisti e foglioline. Eppure non è mai stata una questione razziale, come invece si vorrebbe far credere, basti pensare che la gran parte dei generali sudisti non aveva schiavi o li aveva liberati prima della guerra. Robert E. Lee, poi, era un uomo dall’animo nobile.

Chi non lo capisce non solo non ha capito la storia, ma nemmeno l’economia, né il principio di democrazia, non ha un futuro. Da qui il terremoto di deficienza che ha epicentro a Charlottesville, VA. Sì, Virginia, e per noi filoconfederati, preoccupati solamente di morire, di sposarci e dell’onore della Virginia, assistere a questo degrado perpetrato da quelli che dovrebbero essere gentiluomini del Sud è una vera tristezza. Ne dobbiamo oltretutto assorbire l’eco amplificata dall’ignoranza nostrana, come se non avessimo già catastrofi casalinghe, le cui macerie sono ancora vergognosamente per terra.

Ma il passato è storia, come mi ha detto padre Agostino Wilmeth, uno dei monaci benedettini della terremotata Norcia. Ha 24 anni, viene dal South Carolina, altro stato grigio, e ha una lunga barba di fuoco, fiammeggiante quasi quanto il suo sguardo. E’ un grande birraio. Da un’intervista allo stesso frà Agostino si può apprendere come dietro al business del luppolo ci sia una filosofia più profonda: «Prendiamo i frutti della terra, acqua, grano e lievito per creare qualcosa di buono. La birra non è necessaria per vivere, ma le cose importanti non sempre sono necessarie. Neanche noi lo siamo, con la nostra preghiera. Ma questo lavoro ci permette di avvicinarci a tutti perché, nonostante la nostra vita di isolamento e preghiera, sembriamo più “normali”, più vicini alla gente comune». L’arte della birra come forma di evangelizzazione: «molte persone entrano nel nostro negozio interessate alla birra e poi possono avvicinarsi anche alla religione». Sono ragazzi americani di tutt’altra pasta questi monaci, hanno tanta fede e consapevolezza, gioia e fortezza, sono ragazzi svegli. Non solo, la Regula di san Benedetto per loro è veramente un'esperienza viva cui rifarsi costantemente, sono restauratori. Restauratori di chiese fisiche e metafisiche, ora et labora a Norcia non è un vecchio simpatico detto, è il distillato della vita.

Quando salite la strada sterrata che conduce al monastero di san Benedetto al Monte e vi sfiora il dubbio di esservi persi, non temete, ci sono cartelli di legno, scritti a mano in carolina, e una campana: suonare forte e aspettare. Io, dopo aver scampanato come un bambino, sono stato accolto da un monaco dai tratti orientali, tutto impolverato, in saio blu da lavoro (sic!), che mi ha mostrato la cappella provvisoria (per la verità molto bella), dove ho potuto assistere alla loro Messa antica, meravigliosamente cantata e commovente. Ha celebrato proprio quel padre Basilio, altro statunitense ma di origine messicana, che ho avuto la grazia di conoscere: non esagero definendo padre Basilio il ritratto limpido della mitezza evangelica. Ha riservato alla mia famiglia un’accoglienza straordinaria, ha colpito per la sua bontà, per il fatto che fosse sinceramente felice di conoscerci. Da Norcia si torna migliori.
Dobbiamo essere grati a Dio e sostenere questi monaci che, cacciati dal loro monastero, chiamano grazia questa ingiustizia.

D’altra parte, ormai, appare chiaro a tutti che la basilica di Norcia, quanto le è accaduto, quanto ne rimane, non sia altro che la metafora della Chiesa cattolica. Quella facciata ne è la cifra. Il presagio che fu è oggi il segnale che ci svela il futuro. Il segno dei tempi. Il cartello in carolina che indica la strada da percorrere a noi pellegrini nella crisi, in cammino verso la piccola Chiesa profetizzata dal Ratzinger teologo nel 1969: «Dalla crisi odierna emergerà una Chiesa che avrà perso molto. Diventerà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi. Ripartirà da piccoli gruppi, da movimenti e da una minoranza che rimetterà la fede e la preghiera al centro dell’esperienza e sperimenterà di nuovo i sacramenti come servizio divino e non come un problema di struttura liturgica».

La Chiesa può ripartire da piccoli gruppi, di monaci e di laici, poche persone determinate a restaurare la Chiesa di Cristo, come ha per altro ben intuito Rod Dreher, editorialista di The American Conservative, il quale, dieci anni fa, cominciò a parlare di “Opzione Benedetto”. E l’anno scorso, incoraggiato da molti, ha deciso di scrivere un libro sull’argomento, così, a gennaio è uscito nelle librerie americane “ The Benedict Option – A Strategy for Christians in a Post-Christian Nation ”, libro in cui si esamina la situazione attuale cercando di individuare una strategia.

Basta una semplice costatazione, che poi è collegata direttamente alla mia sorpresa di fronte alla felicità di padre Basilio: «Ci siamo assimilati al mondo: la gente non vede differenze fra un cristiano e un non cristiano». Io stesso ero talmente abituato a conoscere sacerdoti distratti da pseudo attività oratoriali da stupirmi dell’accoglienza di un sacerdote semplicemente innamorato di Cristo, che vuole solo poter avere l’occasione di amare e servire il suo Dio, e trasmettere questo amore ad uno sconosciuto scompigliato e male in arnese come me. Lo stesso vale per noi laici: lo sguardo di uno sconosciuto può cogliere la nostra fede? Nel parlare quotidiano siamo il sale della terra o siamo il solito perbenismo sciapo? O peggio siamo l’unto della terra? Siamo tutti chiamati. Siamo chiamati individualmente ad un esame profondo, che ci costringa a prendere atto della verità: «O Cristo è il Signore della tua vita al cento per cento, o non è il Signore della tua vita». È finito il tempo della fede “democristiana”, perché a furia di ciarlatani è crollato tutto l’edificio ecclesiale, e tuttavia, per quanto non sia un problema fra differenti spiritualità, come credono certi ingenui, non basta rivendicare una Tradizione nostalgica o di stampo pseudosuprematista perché il Vetus Ordo Missae è più bello, occorre che la fede sia viva, perché la Tradizione non vive se è passato, ma vive se è futuro. Assistere ad una santa Messa a Norcia è un modo pratico di comprendere il concetto e vale più di tante parole. Norcia, infatti, per il suo valore simbolico, è decisamente il fulcro della restaurazione dell’ortodossia latina in Italia e potrebbe anche divenire uno dei centri spirituali del mondo. Con buona pace di Bangui.
 

05 agosto 2017

Ritornare all'ortodossia occidentale - Incipit

(O RIFONDARE L'ORTODOSSIA LATINA)

di Matteo Donadoni

«Dimmi dove un uomo prende il suo pane di granoturco e ti dirò quali sono le sue opinioni»
(Mark Twain)

Questo è il motto dello schiavo negro con la vocazione a divenir predicatore – che è sempre meglio che lavorare – amico del futuro soldato della gloriosa Confederazione Mark Twain. Qui si racchiude tutta la sapienza popolare contadina, in un ragazzotto di colore che, a quanto ne so, è l'unico filosofo nero conosciuto, e le poche parole rivelano molta maggior profondità di quanto non sembri, o almeno di quanta ne raggiunga il pettegolezzo scabroso nei bisbigli guardinghi delle cuoche creole. Il paradigma, l'arché antropologica, di questo giovane filosofo nero è che non solo l'uomo non è indipendente, ma soprattutto che non può permettersi di avere delle idee che potrebbero compromettere il modo con cui si guadagna il pane. 

Concetto molto borghese per essere pensiero di uno schiavo, a ben vedere. Tante volte, si sa, l'uomo libero è meno libero del servitore, tante altre lo schiavo non è libero nemmeno dentro la propria testa, così non trova di meglio che usare quella del padrone. Il servo, se vuole esser sicuro di prosperare, deve seguire la maggioranza. E per farlo dovrebbe limitarsi alle opinioni diciamo da pane di granoturco. Lo schiavo della pubblica opinione, che oggi si chiama politicamente corretto, deve soffocare la propria riflessione personale, che da qualche parte confido debba pure esistere, e votarsi alla più pura prostituzione intellettuale. Questo, per la verità, accade troppo spesso. Accade in ogni ambiente. Perché oggi, maggioranza e gregge in ogni prato, abbiamo confuso il sentimento con il pensiero, così, il ragionamento ha lasciato il campo al sentimentalismo e la fede nel Pastore al buonismo pastore.

Tuttavia, per quanto complessa possa essere la dinamica socioculturale di un Paese, si troverà sempre qualcuno che si rende conto degli errori che commette e cerca di porre rimedio. Per quanti flaconcini di Maalox possa mai ingurgitare Tornielli, noi non ci stancheremo mai di denunciare il fatto che molti cattolici hanno mandato la propria fede (oltre che il cervello) all'ammasso. Arrivare a conclusioni contrarie alla speculazione teologica millenaria della Chiesa cattolica, praticare pastorali non solo inedite come pastorali, ma vere e proprie inedite idiozie, non può essere frutto di un lucido ragionamento e di sincero discernimento, ma è elemento di discontinuità intellettuale, rivelatore di ben altri offici, intenti a scombinare le menti e gettar malizia in seno all'ingenuità del gregge.  D'altra parte sostenere che «Gesù fa un po' lo scemo» non è certo un verdetto lucidamente ponderato. Non possiamo certo continuare a sostenere che dietro l'ultima giravolta intorno alla Dottrina cattolica vi sia una candida sbadataggine o una leziosa pantomima clericale, quando invece spesso vi è semplicemente l'antica causa del mero interesse venale o personale di vari turiferari bergogliani, pronti a giustificare ogni misericordiosaggine venga ordinata o imposta dal padrone, pur di non compromettere la pagnotta di granoturco. Ricordo loro che, come tutti sanno a colazione, spesso si parte star e si finisce col parlare alle galline e, chi lo sa? Magari inzuppando pani di granoturco nel Maalox.

Sempre di Mark Twain è il detto memorabile: «Creare l'uomo fu un'idea singolare e originale, ma aggiungere la pecora fu una tautologia». Lo scrittore americano non è certo un Padre del deserto, ma i pastori di questo tautologico gregge, da parte loro, sono incuranti (quando non direttamente responsabili) della catastrofe teologica già avvenuta, preludio di quella morale che si sta verificando. Sono incuranti e colpevoli del disastro ogni volta che – esempio da pane di granturco –, una moglie, abbandonata famiglia e prole per un altro uomo, si sente pienamente giustificata dal proprio misericordioso parroco, la cui soluzione pastorale è un banale, ingannevole e inadeguato motto: “basta sensi di colpa!”. Una guida spirituale da schiavisti camuffati da liberatori, un percorso per schiavi indicato da una legge morale perpetuante la schiavitù del peccato. Il misericordismo infatti non è che una tintinnante e luccicosa catena servile. Al cui altro capo attende, saldamente imbullonato, il castigo.

Così, è giunto tempo che le pecorelle del Signore siano scaltre senza essere ciniche, perché i sogni di gioventù si infrangono presto, ma continuano a tagliare per molto tempo dopo esser divenuti cocci. Occorre prendere atto con coraggio della situazione attuale e, senza appaltare il logos a terzi, ragionare sul dramma della Chiesa odierna, per non cascare nella faciloneria delle teologie alla moda, che alcuni pretenderebbero essere la volontà di Dio e l'autentica teologia degli Apostoli, il Vangelo delle origini. Vero, dobbiamo riscoprire, se non rifondare, l'ortodossia cattolica ripartendo dalle origini, dagli scritti dei Padri del primo millennio, ma dobbiamo riscoprire la Parola di Dio con umiltà, nel silenzio degli eremi montani, dietro le porte chiuse delle nostre stanze, e non certo rincorrendo surreali mitopoiesi pauperistiche, che non sono vaneggiamenti di un predicatore nero, sono, in realtà, i fiochi suggerimenti del gobbo di satana.

 

18 luglio 2017

Controrivoluzione e crisi nella Chiesa (parte II)

di Marco Sambruna

(prima parte)

LA GRANDE SEDUZIONE

Il volto sorridente della Rivoluzione nella sua fase più evoluta, quella del relativismo laicista, per de Oliveira ha sedotto anche la Chiesa nel corso del Concilio Vaticano II.
La grande seduzione è consistita nel far credere al clero e ai fedeli cattolici che la religione e il sacro dovevano essere desacralizzati, ossia ridotti a una dimensione umana, e socializzati nella convinzione che la promozione dell’egualitarismo non solo giuridico, ma anche economico fosse compito primario della Chiesa. La realpolitik vaticana è il frutto di questa seduzione cui alcuni settori della Chiesa hanno ceduto inaugurando così la stagione del “dialogo ecumenico” con i nemici storici della cristianità e del cristianesimo rappresentati dal comunismo e più recentemente dal laicismo militante. Va da se che in questa prospettiva la Chiesa doveva rinunciare o ridimensionare quegli elementi che costituivano un ostacolo al dialogo con gli agenti rivoluzionari il cui fine supremo era ed è il depotenziamento della visione cristiana del mondo e dell’uomo tramite il dileguamento di quei caratteri distintivi che del cristianesimo costituiscono il nerbo.
La rimozione delle peculiarità tipiche del cristianesimo in quanto ostacoli in vista del suo depotenziamento, implicavano l’esigenza di diluirlo all’interno di un processo che eliminasse tutto ciò che impediva il sincretismo religioso e culturale: ciò significava destabilizzare il Papato in quanto inviso ai protestanti,  accantonare la trascendenza in quanto invisa ai  materialisti, diluire i costumi morali in quanto invisi ai relativisti, impoverire la forma liturgica in quanto invisa ai  progressisti, compromettere le devozioni tradizionali in quanto invise a chiunque non fosse cattolico.
In realtà l’ugualitarismo economico della terza fase rivoluzionaria, quella comunista, come ci avverte de Oliveira, era solo introduttivo all’abolizione operata dalla quarta rivoluzione laicista di ogni forma di autorità e di gerarchia morale e caratterizzato dall’idea relativista secondo cui qualsiasi scelta è equivalente e dunque permutabile e fungibile con un’altra. Da questa concezione nasce anche la distorsione del diritto che non afferma più quale compito primario dello stato quello di indicare un modello verso cui tendere, ma quello di abolire la linea di demarcazione che separa ciò che è auspicabile da ciò che è riprovevole. Tale posizione rappresenta il supremo sovvertimento della visione dell’uomo tradizionale modellata dalla religione: non è più lecito ciò che è morale, ma è morale ciò che è lecito ossia quasi qualsiasi tipo di esperienza.

LA CONTRORIVOLUZIONE

Che sviluppi lascia intravedere oggi il pensiero di Plinio Correa de Oliveira ?
Riguardo il destino prossimo futuro della religione, vale a dire la sua permanenza, occorre stabilire prima cosa si intenda esattamente per Chiesa cattolica. Esistono infatti almeno tre modi di intenderla:

-Chiesa come comunità dei santi in unione con la Chiesa visibile;
-Chiesa come ordinamento gerarchico composta dal clero e dai fedeli;
-Chiesa come popolo di Dio indipendentemente dalla permanenza di una gerarchia cattolica.

L’esistenza della Chiesa nella Verità sarà garantita almeno tramite la sua prima forma: la Chiesa come comunità dei santi e dei credenti è destinata infatti a essere indistruttibile.
Ma se la Controrivoluzione non sconfigge la Rivoluzione a breve o medio termine la Chiesa intesa nella seconda o terza accezione si può trasformare in un apparato di supporto all’ideologia dominante.
Il pensiero debole laicista indurrà il clero e i fedeli del futuro a credere che il laicismo è la forma più compiuta di cristianesimo. In questo senso il laicismo e la società completamente secolarizzata saranno contrabbandati come una sorta di cristianesimo finalmente compiuto in quanto emancipato dalle persistenze del cristianesimo tradizionale che ne ha rappresentato solo la fase primitiva.
L’epoca cristiana sarà così riconsiderata come pre cristiana nella sua configurazione di forma larvale o germinale di cristianesimo invece pienamente realizzato nella società laicista e atea.
Si va così verso una “Chiesa gandhiana” i cui connotati sembrano richiamare il falso profeta dell’Apocalisse.
In questo periodo di vacanza della chiesa tradizionalmente intesa, solo un’entità politica cristiana potrà raccogliere il testimone della Controrivoluzione. Tale entità, la cui prefigurazione letteraria ha un illustre predecessore nel Veltro dantesco, dovrà essere identitaria e reazionaria dal punto di vista culturale, ma niente affatto nazionalista dal punto di vista ideologico.

DUE NATURE

Rivoluzione e Controrivoluzione appartengono a due nature non solo diverse, ma perfino opposte.
La Rivoluzione infatti costruisce se stessa sfruttando i conati della storia, ossia le quattro rivoluzioni dialetticamente concatenate; ciò significa che la Rivoluzione si pone come un già dato metastorico  quanto al suo aspetto progettuale, ma che interseca un piano storico dal punto di vista realizzativo o della sua costruzione che può avvenire solo nel corso della cronologia temporale. La Rivoluzione è dunque qualcosa di analogo all’idea hegeliana, una sorta di spirito che per rivestirsi di carne ha bisogno di ricorrere a moventi e sussulti storici: da qui la sua natura dipendente dall’azione cieca determinata dalle quattro rivoluzioni le quali, se non fossero finalisticamente destinate alla Rivoluzione, dopo essere sorte ricadrebbero immediatamente nel caos informe da cui sono scaturite.

La Controrivoluzione invece finora ha agito nel mondo grazie all’azione di un unico agente, cioè la Chiesa.
La Chiesa come centro promotore di sensibilità religiosa ha plasmato l’uomo, specialmente quello occidentale. Ma dire che la Controrivoluzione ha manifestato se stessa tramite la Chiesa equivale ad affermare che queste due entità, Chiesa e Controrivoluzione, si identificano.
La Controrivoluzione senza Chiesa è come un’anima senza corpo: la sua azione sarebbe inefficace nel contrasto alla Rivoluzione, anzi non potendo manifestarsi in atto sarebbe solo una forma potenziale priva non solo di visibilità, ma anche di vitalità. Analogamente la Chiesa senza Controrivoluzione non potrebbe essere perché la sua stessa esistenza si qualifica e si giustifica solo tramite l’azione controrivoluzionaria. La Chiesa infatti trae la sua ragion d’essere originale e distintiva dal fatto di essere animata dall’azione controrivoluzionaria che si concreta visibilmente nella necessità di narrare una storia del mondo secondo la metafisica cristiana. Tale narrazione deve conservare come elemento fondamentale la trascendenza;  ridurre infatti l’azione della Chiesa alla sola produzione nel sociale significa provocarne un deficit di essenza metafisica o, in termini filosofici, ridurla a mero accidente contingente e transitorio destinato a esaurirsi come molti altri episodi della storia.  A causa della decostruzione del suo profilo metafisico la Chiesa si sta trasformando da strumento combattivo a strumento acquiescente rispetto alla Rivoluzione.

Ma soprattutto Rivoluzione e Controrivoluzione divergono nel loro rapporto con la storia.
La Rivoluzione si manifesta lungo la timeline temporale nei quattro momenti rivoluzionari che la sviluppano dialetticamente. La Rivoluzione dunque ha la sua ipostasi in una serie di eventi storici che la co-costruiscono: si tratta di un ipostasi mutevole perché soggetta ai movimenti della storia e infatti il processo rivoluzionario si è servito di episodi o fenomeni storici alquanto eterogenei fra loro come la Riforma, la rivoluzione francese, il comunismo, il laicismo relativista scaturito dal Sessantotto

La Controrivoluzione invece agisce nella storia tramite la sua ipostasi nella Chiesa, ossia un elemento per lungo tempo rimasto immutato, alieno da condizionamenti temporali. Essa da un punto di vista temporale non è né un episodio, né un fenomeno, entrambi di breve durata, bensì una dinamica che permane per secoli o millenni.
D’altra parte poiché la Chiesa custodisce il depositum fidei l’ipostasi controrivoluzionaria da un punto di vista religioso è fondata sulla Verità. Ma nel momento in cui la Chiesa si inserisce nel circuito delle mutevoli vicende temporali decostruendo la sua metafisica e quindi da metastorica si fa storica, la Verità stessa diventa oggetto di dibattito frammentandosi di conseguenza in idee, opinioni, correnti.
L’aspetto interessante, e per certi versi incoraggiante, riguarda il rapporto fra Chiesa e Controrivoluzione: infatti a causa di questo legame la derelizione della Chiesa al secolo avrebbe dovuto determinare un depotenziamento della Controrivoluzione. Infatti se la Chiesa è l’ipostasi della Controrivoluzione il declino della prima avrebbe dovuto provocare il tracollo anche della seconda.
Premesso che qui per “Chiesa” intendiamo la sua connotazione visibile ossia la gerarchia cattolica, ora però assistiamo a un fenomeno imprevisto: osserviamo cioè come l’azione controrivoluzionaria continua ad essere alimentata da un insperato vigore, manifesto ad esempio nei successi delle politiche identitarie in Europa, negli Stati Uniti e in Russia, nonostante l’indebolimento della Chiesa e quindi della religione, del sacro e della fede.
Occorre dunque interrogarsi se è ancora possibile sostenere, in base a questa evidenza, che la Chiesa è l’ipostasi della Controrivoluzione o non piuttosto considerare la Chiesa solo come uno strumento transitorio o temporaneamente accessorio all’azione controrivoluzionaria come sembra dimostrare l’attualità politica.
Come il comunismo non è la Rivoluzione, ma solo una fase di essa, anche la Chiesa pare non identificarsi con la Controrivoluzione, ma solo con una fase di essa: in altre parole non è ancora chiaro oggi se è ancora la Chiesa ad alimentare la Controrivoluzione o non piuttosto la Controrivoluzione tragga da altre fonti il suo alimento in quest’epoca di vacanza della Chiesa. Occorre interrogarsi dunque sulla vera natura della Controrivoluzione: infatti nella congiuntura attuale sembra che essa per agire non necessiti della Chiesa come strumento; pare anzi che la Controrivoluzione, temporaneamente, possa fare a meno della Chiesa animando un altro corpo nel condurre la sua azione controrivoluzionaria.
Se così fosse la decadenza della Chiesa non implica affatto la sconfitta della Controrivoluzione, ma solo il transito di quest’ultima verso una nuova ipostasi fondata su un nuovo ente che gli presti corpo e visibilità.
Dunque a partire da questo scenario si possono immaginare due ipotesi:

-una fase provvisoria in cui la Controrivoluzione prosegue la sua lotta tramite un’entità politica cristiana cha avrà il compito di fronteggiare la Rivoluzione in attesa che la Chiesa recuperi il suo ruolo di leadership controrivoluzionaria. In questo caso la Controrivoluzione è causa efficiente che può servirsi del corpo della Chiesa quale strumento privilegiato, ma non esclusivo.

-una fase evolutiva in cui la Controrivoluzione, esaurito il compito storico della Chiesa, affida la difesa della verità a un’entità politica cristiana definitivamente autonoma rispetto a una sopravvivente gerarchia cattolica. In questo caso il cattolicesimo si connota quale cattolicismo, ossia uno dei tanti “ismi” della storia di cui tanto la Rivoluzione che la Controrivoluzione si sono serviti.

Alla luce del “non praevalebunt” di Cristo, i credenti devono propendere per la prima ipotesi: la Controrivoluzione ha una sua vitalità intrinseca che gli permette di animare il corpo del potere politico vicariando ad esso il ruolo di leadership controrivoluzionaria temporaneamente, in attesa che la Chiesa, uscita dall’eclisse, recuperi il suo ruolo di guida.
Se questa ipotesi è valida nella congiuntura odierna pare che la Controrivoluzione abbia affidato provvisoriamente ai movimenti politici identitari, la cui incarnazione storica più solida appare la Russia, il compito di ereditare quella leadership che già fu della Chiesa animando così una nuova ipostasi o corpo nell’ ambito dell’azione controrivoluzionaria.

 

16 luglio 2017

Controrivoluzione e crisi nella Chiesa (parte I)

di Marco Sambruna

Una lettura profetica e politica del pensiero di Plinio Correa de Oliveira in “Rivoluzione e controrivoluzione”.
Eclissi della Chiesa e ascesa del ruolo storico della Russia: nuove strategie controrivoluzionarie.

“Rivoluzione e controrivoluzione” è un agile saggio scritto col piglio del pamphlet dal pensatore brasiliano Plinio Correa de Oliveira. L’opera, pubblicata nel 1959, ha conosciuto una vastissima fortuna editoriale ed è imperniata sulla cosiddetta teoria delle quattro rivoluzioni avvenute durante la storia dell’umanità:

-prima rivoluzione religiosa: la riforma protestante facilitata dal naturalismo umanistico e rinascimentale;
-seconda rivoluzione politica: la rivoluzione francese;
-terza rivoluzione sociale ed economica: la rivoluzione comunista;
-quarta rivoluzione culturale: il ’68 e la rivoluzione sessuale.

Da sottolineare il fatto che per de Oliveira la Rivoluzione più che una categoria storica è una chiave interpretativa storiografica, cioè è un atto che si ripete più volte nella storia conservando determinate caratteristiche comuni e immutabili pur presentandosi con modalità diverse.
La Rivoluzione per de Oliveira non è né un evento  avente carattere episodico quale può essere, ad esempio, l’elezione di un Papa, né un fenomeno avente estensione transgenerazionale quale può essere, ad esempio, l’epoca medievale, ma è una dinamica dal carattere temporale ampiamente esteso quale, ad esempio, può essere la vicenda del cristianesimo che perdura da ben 2000 anni.

La Rivoluzione dunque è una dinamica storica che evolve dialetticamente attraverso quattro rivoluzioni o tappe  ciascuna delle quali presenta strategie diverse in permanenza però dell’ immutabile fine rivoluzionario: la fondazione di una nuova religione laicista e atea dopo la distruzione della religione e della fede cristiana. La Rivoluzione è difficilmente riconoscibile come dinamica storica unitaria perché agisce come un fiume carsico alternando epoche di latenza ad altre di emersione: essa dunque non è semplicemente un’ idea o un aspetto di una realtà più strutturata che la eccede come potrebbe essere il marxismo verso le teorie economiche o l’esistenzialismo verso la psicologia, ma una metafisica potentemente articolata la cui inerzia è in progressiva accelerazione.

Le quattro rivoluzioni altro non sono se non momenti dialettici o segmenti dell’ unica Rivoluzione, dei demiurghi o divinità minori al servizio della metafisica rivoluzionaria che li impiega come agenti.
La Controrivoluzione in Correa de Oliveira è invece l’azione volta a ostacolare il progredire e l’affermarsi della Rivoluzione, cioè un processo teso a impedire la formazione di una nuova visione del mondo e dell’uomo fondata sulla signoria dell’uomo in luogo della signoria di Dio sulle realtà naturali e spirituali.
Come vedremo se è relativamente semplice definire la fisionomia della Rivoluzione, appare molto più difficile cogliere la reale natura della Controrivoluzione.
Tuttavia per quanto riguarda l’epoca contemporanea il transito decisivo è rappresentato dal passaggio dal terzo momento rivoluzionario, quello comunista, al quarto momento rivoluzionario dalle chiare connotazioni liberaliste, liberiste, libertarie e relativiste riassumibili nella categoria onnicomprensiva di “laicismo”.
Quest’ultimo presenta dei caratteri così totalizzanti, oltre che totalitari, da potersi configurare come una vera o propria metafisica o “nuova religione” particolarmente efficace in ordine al progredire del percorso rivoluzionario ed anzi rappresenta probabilmente il compimento stesso della Rivoluzione.

LA SVOLTA
Il tratto peculiare del quarto momento rivoluzionario facente parte dell’unica Rivoluzione - la quale ultima pertiene l’inverarsi del laicismo relativista - consiste nel non aver bisogno di ricorrere alla coercizione per convincere le masse, trasformate in folla di consumatori, rispetto alla necessità indilazionabile dell’ugualitarismo e della liberazione non solo sessuale, ma anche sensuale.
In questo prospettiva il laicismo radicale è l’evoluzione del comunismo: ma mentre il secondo obbligava con leggi poliziesche all’osservanza brutale di un modello imposto, il laicismo convince ad aderire alla propria visione del mondo ricorrendo a strategie molto più sottili orientate a sollecitare le voglie istintuali e ad abolire il grande censore sociale costituito dal super io transpersonale, cioè la traduzione in termini psicologici delle leggi divine. Ciò ha potuto e può avvenire grazie soprattutto all’uso pervasivo dei mass media ossia la più formidabile arma di persuasione di massa mai realizzata. Per questo il laicismo, a differenza del comunismo, non ha bisogno di un apparato legislativo complesso e di uno stato di polizia onnipresente che faccia rispettare delle norme giuridiche.

La Rivoluzione si è servita del comunismo per detronizzare la millenaria metafisica cristiana con l’obiettivo di consentire al successivo momento rivoluzionario, il laicismo relativista, di erigere su quelle fondamenta la promozione, l’intronizzazione e infine l’incoronazione della dittatura delle voglie.
Credere quindi che il relativismo laicista rappresenti un’alternativa preferibile al comunismo oppure sia un antidoto nei confronti dello stesso e che in virtù di ciò rappresenti una minaccia di minor entità  verso la tradizionale cognizione religiosa dell’uomo e del mondo è un grave errore.
La modalità laicista non è altro che uno sviluppo ulteriore verso la maturazione finale della Rivoluzione. Il demiurgo scaturito dalla quarta rivoluzione laicista è più pericoloso del comunismo anche se apparentemente più dialogante e meno coercitivo; è più pericoloso perché persuade anziché coartare, lusinga l’ego anziché ridimensionarlo, seduce le voglie anziché imbrigliarle,  riesce con la dolcezza di un superficiale e sentimentale umanitarismo ad ottenere spontaneamente quel consenso che il comunismo poteva esigere solo col ricorso alla violenza.
Mentre il comunismo imprigionava il corpo, il laicismo colonizza direttamente la mente.



IL BUONISMO COME AGENTE RIVOLUZIONARIO

Il passaggio del testimone della Rivoluzione dalla fase comunista a quella laicista è avvenuta per il tramite di un periodo intermedio costituito da alcune strategie dialoganti ed ecumeniche verso le forze avverse alla visione religiosa dell’uomo che sono state etichettate con denominazioni generalmente amichevoli quali il “compromesso storico”, “il disgelo”, “la distensione” e analoghi.
L’attuale congiuntura rivoluzionaria caratterizzata dalle “rivoluzioni colorate” e delle “società arcobaleno” rientra in questa fase “amichevole” il cui scopo finale è quello di compiere la Rivoluzione in modo quasi inavvertito e di soppiatto, senza troppi clamori.

Occorre ricordare che la teoria delle quattro rivoluzioni di de Oliveira ha come fine quello di indicare l’esistenza di una sola e unica Rivoluzione che si sviluppa in fasi successive: prima la Riforma, poi la Rivoluzione Francese, la Rivoluzione comunista e infine la Rivoluzione sessuale.
In questa prospettiva dunque  non ha senso parlare di sconfitta del comunismo perché il comunismo non è stato sconfitto, ma ha solo subito un processo di metamorfosi mutando pelle come certi rettili. Anzi il passaggio dalla fase comunista a quella della rivoluzione sensuale di matrice laicista indica il procedere certo della Rivoluzione verso il suo obiettivo finale che abbiamo indicato nella fondazione di una “nuova religione” senza Dio.

Alcuni settori della Chiesa stessa che nel 1989 hanno salutato con favore il crollo del muro di Berlino e la fine del comunismo non hanno compreso l’essenza profonda della Rivoluzione; quest’ultima infatti è stata scientificamente pianificata con fredda determinazione secondo linee evolutive che contemplavano l’assoluta provvisorietà del comunismo in quanto destinato a sfociare nell’attuale laicismo relativista a partire dalla vicenda sessantottesca..


LA QUARTA RIVOLUZIONE

Credere che il laicismo relativista, cioè il frutto più maturo della quarta rivoluzione, sia una strategia alternativa o addirittura un  antidoto al comunismo, cioè la terza rivoluzione, si è rivelato un errore storico dalle conseguenze imprevedibili.
Trascurare il fatto che la Rivoluzione è una sola, per quanto articolata nelle quattro fasi qui più volte ricordate, ha generato un clima di ottimismo inopportuno che ha rischiato di disarmare il processo controrivoluzionario. In quest’ottica la Rivoluzione non è uno strumento del comunismo, ma al contrario è il comunismo a essere uno strumento della Rivoluzione, ossia un suo momento che sarà, ed anzi è già stato, dialetticamente superato.
Il comunismo peraltro ha svolto un compito fondamentale nell’ambito dell’economia rivoluzionaria: ha lanciato all’umanità una proposta scandalosa, inaudita e mai ipotizzata prima cioè l’inesistenza di Dio.

E’ ovvia la funziona di tale proposta: cominciare a fissare una “testa di ponte” psicologica, una sorta di “avamposto esistenziale” attorno a cui coagulare le frange più radicali del pensiero anticristiano. Stabilita questa “enclave” del pensiero anticristico all’interno della tradizionale rappresentazione  del mondo da sempre plasmata dall’idea dell’esistenza di Dio, è stato poi possibile ampliare l’ateismo non solo filosofico, ma anche e soprattutto pratico.
La filosofia marxista ha attecchito presso l’avanguardia intellettuale e a partire da questo “avamposto culturale” si è potuta propagare alla folla dei consumatori occidentali in una sua versione “sorridente” (il comunismo dal “volto umano”) così come da sempre è stato previsto dal pensiero rivoluzionario.
Il laicismo relativista non rappresenta dunque un cambio metodologico, ma una fase successiva e più efficace della stessa strategia: se il comunismo aveva come compito quello di lusingare l’occidente con una proposta scandalosa, il laicismo relativista ha come compito quello di accogliere tale proposta, valorizzarla e divulgarla in tutti i settori della vita: nella letteratura, nella storiografia, nella filosofia, nell’arte e infine anche nella Chiesa.

(continua)

 

06 maggio 2017

Thomas Molnar e le strategie rivoluzionarie

di Alfredo Incollingo

Esiste un codice dei rivoluzionari che è similare nei secoli: stesse parole d'ordine, stessi strumenti di propaganda e, soprattutto, gli stessi sponsor. La rivoluzione non è solo un fatto violento, ma è anche una formidabile azione di guerriglia culturale, portata avanti a suon di opuscoli e giornali. L'Antico Regime della Francia monarchica subì, senza riuscire a rispondere, le invettive degli illuministi che giorno dopo giorno, sobillando il popolo, screditarono il Re e la Chiesa.  Allo stesso modo oggi l'industria culturale, monopolizzata dai progressisti, pur evitando accesi proclami di rivolta sociale, infiltra nella società teorie e idee radicali e “perbeniste”.

Il filosofo cattolico Thomas Molnar, di origini ungheresi ma con cittadinanza americana, pubblicò nel 1969, durante gli anni fatidici della contestazione, un testo nettamente reazionario, ma lucido e chiaro nell'argomentazione. “La controrivoluzione: una critica ragionata alla rivoluzione francese” è stato ristampato ultimamente dalla “Oaks editrice”, ma, nonostante i decenni passati, è ancora straordinariamente attuale.

L'analisi di Molnar non si limita alla Francia rivoluzionaria ma va oltre ritrovando le connessioni tra i giacobini del 1789 e i radical chic del 1968 (e degli anni successivi). La chiave di volta dell'arco rivoluzionario è l'intellettuale, appartenente di solito al ceto medio, buono, ricco e rassicurante. Il suo essere socialmente mediano è per il popolo, per l'aristocratico o per la borghesia un motivo di serenità: il piccolo borghese dimostra che è possibile salvaguardare i propri beni e professare tesi sovversive, senza che i propri privilegi ne risentano.

Ecco quindi un Sartre o un Voltaire benestanti e allo stesso tempo socialmente impegnati. L'intellettuale è l'agente della rivoluzione che ha sparso i suoi germi per la società. Ha sentito il malcontento popolare e lo cavalca infatuando l'opinione pubblica con il suo bell'aspetto e le sue idee radicali. Durante l'Antico Regime gli aristocratici di corte fecero a gara a condividere tali ideologie e anche gli uomini di Chiesa fecero altrettanto. La loro antica legittimità era ormai decaduta e si ricercava nell'approvazione generale la base del proprio potere. I controrivoluzionari compreso tutto ciò, ma sbagliarono nel non usare gli stessi strumenti dei rivoluzionari per fermarli. Gli intellettuali, che fossero giacobini o radical chic sessantottardi, con spregiudicatezza sfruttarono la stampa e il mondo culturale per diffondere il proprio approccio sovversivo.

Il saggio di Molnar è quindi fondamentale per muoverci nella quotidianità. Sembrerà strano, ma ogni giorno siamo soggetti a messaggi radicali nella forma di film, musica e libri, perché ieri come oggi i rivoluzionari agiscono alla stessa maniera, mentre il controrivoluzionario, timido, non agisce come dovrebbe per arginare la sovversione.

 

04 aprile 2017

Don Minutella: il "tradizionalista" rivoluzionario


di Amicizia san Benedetto Brixia

“La controrivoluzione non è una rivoluzione al contrario, ma il contrario della rivoluzione” così sigla J. de Maistre e non per nulla la Redazione ha scelto questa frase per la quarta di copertina del nostro primo libro, “Pensieri controrivoluzionari”. Non c’è dunque futuro per chi ritenga di combattere il declino rivoluzionario, ricorrendo agli stessi mezzi dei rivoltosi. Quali sarebbero tali strumenti? Tra tutti, se vogliamo attingere alla summa della controrivoluzione (Rivoluzione e contro-rivoluzione, P. Correa de Oliveira), dobbiamo individuare il nodo rivoluzionario in due fattori: orgoglio e sensualità. Non è detto debbano darsi immediatamente entrambi, lo stesso Plinio sottolinea il caso di “alcune sètte protestanti” in cui si constata “un’austerità che tocca i limiti dell’esagerazione”, la loro situazione mostra che sebbene in certi casi la rivoluzione “abbia mietuto ogni successo in materia di orgoglio, non ha ottenuto in materia di sensualità successi simili” (Rivoluzione e contro-rivoluzione, §1,VI,6.5.c.). Ciò che più importa è che qualsiasi apertura di fatto alla logica rivoluzionaria, per quanto intenzionalmente non voluta o anzi dichiaratamente sconfessata, è un concorso all’avanzare del degrado culturale. Questo permette inoltre di individuare, in precise condizioni, ciò che lo stesso Plinio definisce “falso tradizionalismo”, tipico di quel “tradizionalismo falso e gretto che conserva certi, riti, stili o costumi soltanto per amore alle forme antiche e senza alcun apprezzamento per la dottrina che li ha generati” (cit., §2,III,1.c.). Non vale nemmeno appellarsi a rivelazioni private o simili, in quanto, fintanto che non siano riconosciute valide dall’autorità competente, esse sono prive di valore reale, e la resistenza all’autorità in nome di visioni personali nuovamente esprime un’indole piuttosto rivoluzionaria che cattolica, operando la sostituzione del principio soggettivo a quello oggettivo, secondo un uso tipicamente protestante: “il principio cattolico della fede è l’obbedienza” (Amerio, Stat veritas, chiosa XVI).
Tutto questo l’ho ricordato in riferimento al caso di don Minutella, le cui intuizioni possono anche essere parzialmente condivisibili, ma il cui tono deborda oltre il buon senso e il dovuto rispetto alle autorità. I modi ultra-diretti, i gesti accesi, le liste di proscrizione anti-moderniste, tutto concorre a svilire le ragioni dei suoi comizi, col rischio che l’esempio esagitato di questo sacerdote getti fango e crei disagi a tanti altri ottimi presbiteri e fedeli, autentici apostoli e quindi autentici contro-rivoluzionari, che con la pazienza, la cortesia, la carità cristiana e il giusto dialogo stanno custodendo in questi anni significativi spazi di tutela della Tradizione e di risposta alla Rivoluzione. Faccia attenzione, don Minutella, il Diavolo sa molto bene come trarre dalla sua anche i più insospettabili tra i ‘conservatori’, specialmente quando si perdano di vista non gli slogan, ma i contenuti essenziali del loro apostolato, che noi abbiamo  cercato di ricordare or ora facendo leva - e non a caso - sui cardini culturali e di scuola della questione. Qualora non bastassero, don Minutella si rilegga con pazienza e umiltà la vita di tanti grandi santi, cominciando dai mistici reclusi, padre Pio e suor Lucia, e risalendo fino a san Giovanni, che non osò precedere san Pietro nel sepolcro.

 

30 marzo 2017

Dacci oggi la nostra eresia quotidiana/02: Luteranesimo un tanto al chilo


del Cardinale Dal Sacco

Anno Domini 2017: 500 anni ci separano dalla riforma di Lutero, 300 dalla fondazione della prima loggia massonica speculativa e 100 sia dalla rivoluzione russa che dalla rotta di Caporetto. Non c’è che dire: siamo in buona compagnia per poter rafforzare la nostra fede e dedicarci allo studio della storia. E’ innegabile, tuttavia, che oggigiorno la cultura dominante ci porta a non ricordare questi eventi che, benché uno più drammatico dell’altro, fanno parte della nostra storia e della nostra identità di cristiani, italiani, europei. Similmente, non è ben chiaro se-come-perché commemorare e/o celebrare e/o ricordare (e volutamente uso questi termini che, avviso fin da subito, non ritengo essere sinonimi) questi anniversari da un punto di vista cattolico. Occorre dunque cercare di fare chiarezza in un’epoca di dubbi e di falsità dilaganti: sarebbe bellissimo analizzare ogni singolo anniversario di questo nostro martoriato 2017 ma preferiamo dedicarci, almeno in questa rubrica, al cinquecentesimo della riforma protestante.

In un prossimo articolo ci ripromettiamo di parlare dei semi protestanti disseminati oggigiorno dappertutto anche in molti componenti della Chiesa Cattolica (la quale, Corpo Mistico di Cristo, è sempre santa per opera dello Spirito Santo): piuttosto, ora, riteniamo doveroso fare alcune precisazioni lessicali che renderanno maggiormente capibile la nostra ermeneutica delle tendenze protestanti all'interno della Chiesa e, allo stesso modo, è nostro dovere capire cosa sta succedendo attorno a noi in occasione di questo centenario.

Da un punto di vista storico e storiografico, il termine di Riforma Protestante è ormai diventato di uso comune e generalizzato: alcuni storici hanno provato ad usare il termine di Rivoluzione Protestante ma non sono generalmente seguiti dalla massa degli studiosi. Essendo questo un articolo di Storia della Chiesa, che analizza ogni cosa alla luce del Catechismo della Chiesa Cattolica, preferisco usare il termine classico di riforma ma rigorosamente in corsivo e minuscolo riprendendo in un certo senso il termine con cui la Santa Sede ha per secoli definito i figli ed i nipoti di Lutero («i cosiddetti riformati»).

Non penso sia necessario spiegare il perché tutti i fedeli cattolici non possano celebrare questo anniversario: il concetto rimanda infatti alla festa ed alla solennizzazione di eventi che sono sia unitivi che comuni (qualità decisamente assenti negli eventi della riforma). Il concetto di commemorazione, invece, potrebbe essere utilizzato a patto tuttavia di non dargli il carattere sacro e liturgico che la Chiesa attribuisce ad alcune celebrazioni come la Commemorazione di tutti i fedeli defunti o la Commemorazione di un Santo durante un Tempo Forte. Bisognerebbe invece, a mio modesto parere, utilizzare il verbo ricordare (purché scevro dal carattere sacrale e liturgico, utilizzato in particolare nella Santa Messa, di rendere presente) inteso da un punto di vista storico: è innegabile che la riforma sia avvenuta, è altrettanto innegabile il fatto che – ci piaccia o non ci piaccia – perduri ancora oggi e che, pertanto, è nostro dovere analizzarla in ogni sua componente compresa la prospettiva futura di convivenza (perché l’epoca degli Stati confessionali è ormai tramontata da tempo) che la Chiesa ha sempre denominato tolleranza . Utilizzando la categoria storica del ricordo (il fare dunque memoria) si potrà parlare in piena coscienza, con meno acredine possibile, delle gravi colpe degli uomini della Chiesa del XVI secolo, di dottrine peregrine che all'epoca si insegnavano in ogni dove, dei morti dell’una e dell’altra parte, degli errori dottrinali di Lutero, ma anche dell’opera e dell’insegnamento dei Santi della contro-riforma, etc.

Per far questo però è necessario precisare due cose: 1) è impossibile cancellare 500 anni di storia (basti pensare che è difficile parlare in maniera serena di eventi ben più recenti e cronologicamente più modesti come il ventennio fascista) e 2) si è trattata di un’eresia all'interno della Chiesa Cattolica che si è propagata in tutto il mondo dando vita a numerosissime denominazioni cristiane che, secondo il loro modo di vedere, si riconoscono come l’unica vera Chiesa di Cristo.

Se non si parte da questi dati di fatto stiamo solamente rimestando l’acqua nel mortaio. Alla luce di quanto detto, è chiaro come il sole come si deve vivere questo triste anniversario: con mestizia ed il ritorno alla vera fede. E dobbiamo farlo con il cuore che gronda sangue perché non solo la Chiesa è ancora oggi lacerata nella sua unità ma anche perché ci sono milioni di anime che non possono attingere ai fiumi d’acqua viva che da essa sgorgano per mezzo dei Sacramenti: riflettiamo mai abbastanza a come siamo “fortunati” noi cattolici? Noi abbiamo la possibilità di stare bocca a bocca (etimologia di adorare) a Cristo nella Santa Eucarestia, i protestanti no; noi possiamo dire correttamente di aver avuto i peccati perdonati nella Confessione, i protestanti si devono appellare ad un atto di fede talmente puro per essere giustificati che è difficile solo immaginarlo; noi cattolici possiamo ricorrere al Magistero quando non comprendiamo appieno né la dottrina né la Sacra Scrittura, i protestanti invece sono lasciati come pecore senza pastore in balia dell’una o dell’altra corrente dominante; noi cattolici abbiamo la grazia di poter onorare la Vergine Maria, avendo in lei una sicura Avvocata presso suo Figlio, mentre i protestanti non riconoscono nessun intermediario tra Dio e l’uomo che non sanno (letteralmente) a che santo votarsi. Pensiamo mai a queste grazie come anche alle altre centinaia di cui è oggetto e deposito la Chiesa Cattolica? Contemporaneamente – repetita iuvant – soffriamo per tutte le anime delle chiese protestanti che non hanno nulla di tutto questo? Similmente, pensiamo mai al fatto che Lutero e tutti gli altri riformatori partivano da una critica feroce alla Chiesa che, all’epoca, appariva loro come una turba di uomini e donne alla ricerca non tanto della gloria di Dio bensì di quella del Mondo? E ci fermiamo mai a pensare adeguatamente al fatto che se queste persone hanno potuto confondere e travisare la sana dottrina l’hanno potuto fare perché non l’avevano degnamente studiata, compresa, amata e vissuta? Come non temere che l’abbandono degli studi di tutte le scienze sacre potrebbe generare sempre nuovi Lutero e Calvino? Come non avere paura della scarsa fedeltà dei religiosi pensando a tutti i conventi tedeschi che si svuotarono in brevissimo tempo a seguito delle prediche dei vari predicatori di turno?

Ma se è chiaro in che modo è possibile parlare del centenario della riforma, è altrettanto ovvio cosa sia da evitare. E qui, dispiace dirlo, siamo dinanzi veramente all'assurdo in quanto – è innegabile – ci sono fior fiore di prelati e di cosiddetti laici impegnati che tutto fanno tranne che ricordare: anzi, la riforma è esaltata, celebrata, lodata, festeggiata fin nei più piccoli consessi ecclesiali di tutte le Diocesi cattoliche. Si moltiplicano come funghi i gruppi ecumenici per preghiere in comune e per poter partecipare ad incontri organizzati quasi sempre dalle chiese protestanti con l’invito rivolto al parroco di turno, sempre presente a porgere il saluto dei cristiani altri (ebbene si: ci chiamano così) blaterando di cose che magari loro neanche conoscono. Ma attenzione: non dobbiamo solamente stigmatizzare questi comportamenti ma anche riflettere sul fatto che le chiese protestanti stanno lavorando alacremente per questo centenario togliendoci ogni possibilità di parola. Ebbene sì, signori: noi cattolici non ci siamo interessati della questione, o se si è fatto abbiamo davanti ai nostri occhi gli esempi di cui sopra, cosicché le chiese protestanti di varia denominazione stanno letteralmente impadronendosi del centenario, mostrandosi quindi non come una eresia che a sua volta ha prodotto la nascita di gruppi e gruppetti, bensì come uno dei tanti modi in cui il cristianesimo è presente sulla terra benché siamo tutti uniti in Cristo: e se ci sono vari modi, sono tutti validi, ed allora è inutile cercare l’unità privilegiando pratiche comuni da attuare giorno per giorno nelle singole comunità. Non stiamo discutendo di cose di poco conto, bensì di applicazione delle dottrine (ortoprassi) in quanto è risaputo infatti che i protestanti parlano di unità delle Chiese (che, pertanto, potrebbero anche convivere una accanto all'altra come in una federazione) e non dei cristiani: la Chiesa Cattolica afferma invece che la Chiesa è (e sempre sarà, logicamente) una e che, pertanto, semplificando il concetto, ogni singolo protestante (ma anche ogni singolo cristiano non cattolico) deve tornare in seno all'unica e vera Chiesa che è quella cattolica fondata direttamente da Cristo sulla roccia di Pietro. Non c’è altra via: le federazioni non possono esistere nella Chiesa Cattolica in quanto Cristo non ha stabilito più primati.

Dispiace dirlo, ma abbiamo commesso un enorme errore a lasciare in mano il centenario della riforma solo ai protestanti perché così si rinnova ancora una volta la dicotomia (a loro tanto cara) tra riforma e controriforma, in cui ovviamente la Chiesa Cattolica è vista come freno alle loro istanze riformistiche: ma – dicono loro – la riforma segue la decadenza, rappresentata dalla Chiesa Cattolica che sarà sempre ancorata a modelli da superare (se sono decadenti perché mantenerli?), e via di questo passo in una logica sempre più dialettica di progresso e regresso. La Chiesa Cattolica, manco a dirlo, afferma altro: la vera riforma è il ritorno alle origini e non uno stravolgimento della dottrina, della liturgia, della Sacra Scrittura come hanno voluto invece Lutero ed i suoi epigoni.

Ma c’è anche altro, in quanto ad ogni convegno che queste chiese organizzano, siatene certi, la Chiesa Cattolica è semplicemente ribattezzata come Chiesa Romana: non che non sia vero – per carità: Dio benedica la Cattedra di Pietro in ogni momento! – ma è emblematico che queste chiese, che non sono universali in quanto fin dalla loro denominazione (valdesi = di Valdo; luterani = di Lutero; calvinisti = di Calvino; etc), utilizzino un aggettivo “localistico” e “topografico” per poter affermare di avere esse uno spirito cattolico. Anche qui, non si sta subendo passivamente l’infamia che generazioni di cattolici inglesi e irlandesi hanno subito sulla loro pelle sentendosi appellare come papisti? E queste cose ce le dicono direttamente in faccia, non le mandano mica a dire: fatevi una navigata nel sito web della chiesa luterana italiana e vedrete, in relazione al celeberrimo incontro di Lund, che terminologia utilizzano per descrivere il Papa.

Sperando di celebrare degnamente ed allo stesso modo il centenario del Concilio di Trento, nel frattempo il quesito rimane: che cosa fare? E, soprattutto, cosa fare per non seminare scandalo tra i semplici che vedono che ci sono tante chiese diverse che vengono ricevute, accolte e finanche elogiate persino dai vertici della Chiesa Cattolica (compresa una certa persona di bianco vestita)? Innanzitutto pregare. E poi studiare: storia, filosofia, teologia, qualsiasi cosa possa aiutarci ad amare sempre di più la nostra Santa Fede Cattolica.

Riprendiamo in mano la storia, vera Magistra Vitae, da sempre elogiata e coltivata dalla Chiesa per il suo valore intrinseco, e non abbiamo paura di dire al mondo intero cosa è stata o cosa ha prodotto la riforma: divisione, iconoclastia, roghi, eresie e guerre di religione. Non nascondiamoci dietro un dito, tuttavia, e affermiamo altresì senza paura che la Chiesa dell’epoca mostrava tutto tranne la santità che le è propria come Corpo Mistico di Cristo. Ma soprattutto torniamo ad applicare San Paolo che invitava i cristiani del suo tempo, e dunque anche noi, a vagliare tutto e trattenere ciò che è buono: non solo la Chiesa può ma, anzi, deve dire la sua sulla riforma senza fare il pappagallo dei nipotini di Lutero.

https://labaionetta.blogspot.it/2017/03/eresia-quotidiana-luteranesimo.html

 

27 marzo 2017

V Giornata della Buona Stampa Cattolica: la rivoluzione dell'uomo


di Amicizia San Benedetto Brixia

Se la giornata del Primo Maggio, con annessi concerti e parate, è indubitabilmente una delle più affilate espressioni della liturgia laicista e anticlericale del XX secolo, non può che essere applaudita l’iniziativa controrivoluzionaria che gli amici del Sodalizio Pio XII e del Coordinamento Nazionale Summorum Pontificum organizzano per quella data. "‘17: la rivoluzione dell’uomo" è il titolo dell’evento che si terrà nel piacentino, ad Agazzano, e la scaletta in programma si prevede succulenta e di grande valore. La scelta degli organizzatori è stata quella di sottolineare i tre fatidici anniversari della Rivoluzione: il diciassette luterano, quello massonico e infine quello russo. La triade non rispetterà forse la proiezione rivoluzionaria recensita da Correa de Oliveira, ma ugualmente scandisce con precisione la devastazione culturale e spirituale dell’Europa cristiana prima e del resto dell’orbe poi. Di peso anche i nomi dei relatori: don Marino Neri, penna nota soprattutto ai lettori di Radici Cristiane nonché sacerdote da subito impegnato con le associazioni nazionali dedite al ripristino non solo formale, bensì autenticamente spirituale e pastorale del rito tridentino; padre Siano, un sopravvissuto dei FFI, esponente di punta degli anni gloriosi della sua congregazione, esperto di massoneria (e qualcuno maligna che tale sua conoscenza sia alle origini della persecuzione dell’ordine - unitamente alla critica anti-conciliarista sempre sostenuta da padre Manelli); Ettore Gotti Tedeschi, che invece tratterà la rivoluzione rossa, tanto economica quanto antropologica nel suo insieme, tema che offrirà agio all’ex-banchiere dello IOR di spendersi nei suoi cavalli di battaglia, come peraltro sta già facendo specialmente negli ultimi mesi, tra conferenze, articoli e dichiarazioni. Si prospetta insomma una gustosa giornata in perfetta salsa De Maistre, cui alcuni di Campari sicuramente aderiranno. Il tutto accompagnato da utili banchetti della buona stampa tradizionale e incorniciato da una solenne Santa Messa in rito antico.

 

17 febbraio 2017

L'ultimo uomo: la rivoluzione francese ed il secolo dei lumi


di Federico Cavalli

Con questo articolo continuiamo il progetto fatto iniziare con questo pezzo; raccontare ed approfondire le tematiche trattate il 20 gennaio scorso dai professori Enzo Pennetta e Gianluca Marletta, durante l’incontro “l’ultimo uomo” organizzato dal centro studi Minas Tirith

Con la rivoluzione francese si decide dunque di fare a meno di Dio, di creare una società completamente libera da ogni tipo di vincolo religioso, così da poter ottenere un controllo assoluto del potere statale senza essere sottoposti ad una morale umana generata da quel modello antropologico venuto alla luce con la figura di Gesù Cristo; per la prima volta uno stato decide di fare a meno di Dio. La nuova divinità imperante è la dea “ragione”, si instaura dunque un modello sociale del tutto nuovo, frutto di quel movimento culturale chiamato “Illuminismo”. L’esperimento di uno stato senza alcun vincolo morale ed etico, se non quelli imposti della ragione, porta ad un fallimento totale dando inizio ad una delle più violente persecuzioni anticristiane della storia.

La politica antireligiosa suscitò un grande scontento fra la popolazione tanto da sfociare, in alcuni casi, in vere e proprie rivolte, la più famosa delle quali ebbe luogo in Vandea. La controrivoluzione fu fatta principalmente da realisti e cattolici che ritorsero contro la repubblica il diritto all’insurrezione per ottenere la libertà. La rivolta venne soffocata nel sangue, si calcola che su una popolazione di 800000 vandeani ne vennero uccisi più di 117000. Spesso si è soliti, davanti ad atrocità del genere, domandarsi dov’era Dio in tutto ciò; mi domando invece dov’erano l’uomo e la sua ragione in quei momenti. Coloro che operavano per conto della dea Ragione furono i principali artefici delle numerosissime condanne a morte, emanate durante il così detto “regime del terrore”; regime che finì il 9 termidoro dell’anno II (27 luglio 1794) con la caduta e l’esecuzione dei tre più influenti membri del Comitato di salute pubblica: Maximilien de Robespierre, considerato la principale personalità politica del Terrore giacobino, Louis Saint-Just e Georges Couthon.

L’esperimento fallì perché l’essere umano, privato del riferimento divino, crea una società senza freni morali e ciò ha quindi portato alle atrocità rivoluzionarie. Questo particolare risultato viene elaborato da Auguste Comte, filosofo e sociologo francese considerato il padre del Positivismo. Egli ha suddiviso in “fasi le epoche storiche: quella teologica, quella metafisica e quella positiva.
Se la prima rappresenta “l’infanzia del mondo” (la spiegazione dei fenomeni naturali è attribuita ad entità soprannaturali) e la seconda l’adolescenza ( la realtà si spiega attraverso i concetti astratti della filosofia) l’ultima fase è il momento in cui tutte le discipline (etica, politica, filosofia) vengono assoggettate totalmente ad una spiegazione di tipo scientifico. La scienza è quindi strumentalizzata, deviata, modificata per farla divenire il sostituto di qualcosa di cui non può essere, ovvero la religione; la scienza non può sostituirla poiché essa non dirà mai se c’è un fine per le cose.
La contrapposizione fra fede e scienza va quindi rigettata giacché una si occupa del fine delle cose, l’altra della descrizione di meccanismi. Con la rivoluzione francese si passa dal periodo teologico a quello metafisico, l’Illuminismo e la sua Weltanschauung fondano un’altra ideologia, si spodesta il dogmatismo religioso per fare spazio alla necessità di superare le interpretazioni a carattere religioso e animistico trovando, di fatto, un’alternativa al mito della Creazione.

Durante il Secolo dei Lumi la teologia lascia il posto all’indagine del mondo fisico, si vuole e si ha bisogno di una nuova Genesi laica e naturalistica; necessità che incomincerà ad essere soddisfatta grazie agli studi del naturalista Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, che formulò una propria teoria ispiratagli dall’osservazione della rigenerazione degli arti dei gamberi, da cui suppone che l’origine spontanea della vita avviene per via della naturale tendenza delle molecole ad aggregarsi fra di loro secondo delle determinate forme. Teoria smentita dagli esperimenti di Lazzaro Spallanzani, definito da Voltaire stesso “il più grande naturalista d’Europa”.
Il pensiero pre-evoluzionista della teoria di Buffon, secondo cui ogni specie vivente si distingue per piccole sfumature genetiche che nel corso del tempo subiscono lievi cambiamenti, continuò a sopravvivere e ad influenzare le teorie successive . Negli stessi anni in Inghilterra Erasmus Darwin, nonno di Charles ipotizza che gli esseri viventi derivino da un unico antenato comune. Si stavano costruendo tutte le fondamenta necessarie per una nuova società, processo che continuerà ad essere approfondito nei prossimi articoli


 

11 febbraio 2017

"L'azione", di Jean Ousset. Un manuale per i controrivoluzionari di oggi

di Federico Catani
 
Chiunque abbia a cuore la restaurazione della Civiltà cristiana e si adoperi per ristabilire l’ordine cattolico nell’attuale società deve anzitutto formarsi. La preparazione culturale è fondamentale per rispondere adeguatamente alle sfide che pone il mondo moderno: senza studio il rischio – divenuto tante, troppe volte realtà – è di venire inesorabilmente schiacciati dalle menzogne imposte e diffuse dalla Rivoluzione. Senza formazione o con una formazione superficiale, inoltre, si diventa insipidi, come lo sono oggi tanti presunti “cattolici di parrocchia”, che di Cattolicesimo non hanno più nulla, avendolo sostituito con un vago filantropismo posto al servizio delle mode del momento.

Tuttavia, se la formazione è importante, è anche vero che agli ambienti controrivoluzionari è mancata e manca spesso la capacità tecnico-pratica di attuare quanto appreso intellettualmente. In effetti, nonostante sia più grande di quanto uno possa immaginare guardando la tv o leggendo i giornali, la resistenza alla Rivoluzione si trova comunque di fronte a grandi limiti strategici, dovuti a vari motivi, come ad esempio eccessive e inutili rivalità personali o un eccessivo intellettualismo.

Per queste ragioni va salutata con gioia la pubblicazione, per la prima volta in Italia, de “L’azione - Manuale per una riconquista cattolica politica e sociale” (Editoriale Il Giglio, Napoli 2016). Il libro, dell’intellettuale tradizionalista francese Jean Ousset (1914-1994), e tradotto da Guido Vignelli, più che un trattato teorico è un manuale d’azione, che ogni gruppo controrivoluzionario dovrebbe non solo leggere, ma studiare. Ousset, lo ricordiamo, nel 1954 fondò la Cité Catholique, organizzazione di coordinamento delle varie realtà tradizionaliste francesi, nota per i suoi convegni nazionali e internazionali e che ebbe grande seguito anche in altri Paesi d’Europa e dell’America Latina.

Come ricorda Vignelli nell’introduzione, durante gli anni del pontificato di Giovanni XXIII, anni di cambiamenti nel mondo e nella Chiesa, tre libri in particolare si proposero di impostare un programma di riconquista cristiana della società: “Pour qu’ll règne” di Jean Ousset, “Revolução e Contra- Revolução” del prof. Pinio Corrêa de Oliveira (1959) e “Cristianesimo e ordine civile” di don Gianni Baget Bozzo (1961). L’opera di Ousset però non è mai stata tradotta in Italia.

“Pour qu’ll règne” è un lavoro monumentale, volto a sistematizzare la teoria e l’azione per un ritorno alla Regalità sociale di Cristo, unico antidoto contro la Rivoluzione dilagante. Quella pubblicata dall’Editoriale Il Giglio è solo la parte finale del libro di Ousset, che dal 1968 divenne un testo autonomo: “L’Action”, per l’appunto.

Per Ousset il dramma del cattolicesimo del XX secolo è stato l’aver separato il pensiero dall’azione e la dottrina dal metodo. Troppe volte anche oggi si fa un gran parlare ma poi molti preferiscono non sporcarsi le mani, pensando che prima o poi la Provvidenza sistemerà tutto. Ora, se è vero che senza l’intervento divino l’uomo non può sconfiggere la Rivoluzione, è altrettanto indispensabile darsi da fare: “I soldati combatteranno in nome di Dio e Dio donerà loro la vittoria”, diceva Santa Giovanna d’Arco, citata opportunamente da Ousset, il quale ricorda pure come l’ortodossia cattolica abbia sempre insegnato che «bisogna pregare come se la nostra azione fosse inutile, ma agire come se la nostra preghiera fosse altrettanto inutile». Ci vuole dunque un sano equilibro che eviti sia il fideismo che si rifugia unicamente nella preghiera, sia l’attivismo senza alcuno sguardo soprannaturale. Ousset parla ai laici di azione, ma non smette di ricordare l’importanza decisiva dei ritiri, della Santa Messa e degli esercizi spirituali.

Come sintetizza efficacemente Vignelli, l’intellettuale francese aveva ben presente la necessità di «formare nuove élites e classi dirigenti, influenzare le istituzioni, controllare il potere, gareggiare con i mass-media». Questa è la missione specifica dei laici cattolici, che devono essere sempre più consapevoli del loro ruolo e della necessità di una legittima autonomia dalle gerarchie ecclesiastiche, oggi sempre più schierate a favore della modernità (e se questo era vero negli anni Sessanta-Settanta, attualmente lo è all’ennesima potenza).

Per Ousset «si trattava innanzitutto di formare militanti cristiani convinti, coerenti e credibili, uniti da legami di amicizia, da un’identica dottrina e da un comune metodo di azione, allenati al senso critico e al rigore morale, abituati a osservare, analizzare, progettare, ma anche a decidere e ad agire. Essi dovevano diventare una élite seria, diffusa e influente, capace di trattare con le persone e con gli ambienti sociali più diversi, capace di agire nella vita civile usando i più efficaci strumenti d’informazione, propaganda e persuasione, caratterizzati da un contatto personale, azione in gruppi ristretti, massima libertà di iniziativa».
Per raggiungere l’obiettivo Ousset raccomandava di dar vita ad un’associazione di associazioni, di «formare una rete di cellule, circoli e gruppi, capace di penetrare negli ambienti più influenti della società civile per informarli, risanarli e coordinarli in una globale azione contro-rivoluzionaria».

In pratica, «bisognava influenzare dall’interno gli ambienti sociali e i “corpi intermedi” superstiti, per propagarvi le verità e confutarvi gli errori, per rafforzarvi le virtù e indebolirne i vizi, per favorirvi le tendenze sane e combattervi quelle malate, per rafforzarvi le dirigenze in crisi d’identità e di responsabilità».

Come scrisse Lenin, “se a San Pietroburgo, nel 1917, ci fossero state solo poche migliaia di uomini ben certi di quello che volevano, non avremmo mai potuto prendere il potere in Russia”. Sacrosanta verità, perché la storia la fanno le élites. E per vincere c’è bisogno di unità di intenti e di comunione fraterna. Per questo Ousset, tra le tante indicazioni, mette in guardia da invidie e gelosie, dalla tiepidezza e dal mero volontariato. A sinistra c’è sempre chi si dedica a tempo pieno alla lotta. Perché non dovrebbe essere così anche in campo cattolico controrivoluzionario?

Purtroppo questi consigli non sono stati molto seguiti e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Nonostante incoraggianti segnali di speranza, la Rivoluzione avanza. 

Da quanto è possibile notare, però, forse è arrivato il momento propizio per un vero cambio di direzione. Di fronte alla crisi dilagante nella società e a quella - eclatante - nella Chiesa, molti giovani stanno aprendo gli occhi e decidono di opporsi al sistema dominante. Ed è su loro che bisogna puntare, perché solo loro potranno essere le élites del prossimo futuro. Giovani ai quali pertanto sembra particolarmente rivolto questo libro, uscito oltre cinquanta anni fa, che infatti vivamente raccomandiamo di leggere e studiare, perché validissimo anche per i nostri tempi travagliati.