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22 luglio 2017

San Francesco antimoderno

di Alfredo Incollingo
La Chiesa Cattolica post-conciliare e, molto prima, i più astiosi critici del cattolicesimo hanno riscritto la biografia di San Francesco d’Assisi. Lo scopo è evidente: era necessario (e lo è ancora) presentare un uomo di Dio ribelle all’autorità, ai dogmi e per giunta animalista, ecologista e pacifista. Ridisegnando il volto di uno dei santi più popolari della Chiesa Cattolica, sarebbe stato più facile aprire il cattolicesimo alla modernità.

Un libro rivelatore
Più che di “rivelazione”, si dovrebbe parlare di “ricostruzione” della biografia di San Francesco d’Assisi: gli episodi e i miracoli più noti della sua vita sono stati ogni volta interpretati diversamente per assecondare le ideologie in voga. Guido Vignelli in “San Francesco antimoderno” (Fede & Cultura, 2014) aiuta il lettore laico o cattolico a conoscere il vero San Francesco.

Pacifista, ecumenista, ecologista e libertario?
I cattolici, non meno del mondo laico, hanno iniziato a guardare ad un San Francesco ecologista, libertario, pacifista ed ecumenista. Avrebbe predicato la pace, biasimando le Crociate, e allo stesso modo avrebbe criticato la Chiesa “istituzionale” per tornare al cristianesimo primitivo. Guido Vignelli affronta nel suo scorrevole saggio questi punti essenziali della storiografia francescana. Il problema, secondo l’autore, riguarda soprattutto l’erroneo approccio cattolico a San Francesco: il moderno divorzio tra fede e scienza ha finito per investire anche la cultura cattolica. Di conseguenza la ricerca storiografica francescana si è adeguata al “secolo”. La Chiesa ha finito per dare un volto falso del santo italiano. Si recò in Egitto per predicare al Sultano e rispettò sempre la gerarchia ecclesiastica. Allo stesso modo il suo “Cantico delle creature” non è un inno naturalista, ma è una richiesta di lode a Dio rivolta a tutte le Sue creature. San Francesco storico è all’antitesi del suo omologo ideologizzato, un vero santo, cattolico e antimoderno.

pubblicato anche su Barbadillo.it
 
 

11 febbraio 2017

"L'azione", di Jean Ousset. Un manuale per i controrivoluzionari di oggi

di Federico Catani
 
Chiunque abbia a cuore la restaurazione della Civiltà cristiana e si adoperi per ristabilire l’ordine cattolico nell’attuale società deve anzitutto formarsi. La preparazione culturale è fondamentale per rispondere adeguatamente alle sfide che pone il mondo moderno: senza studio il rischio – divenuto tante, troppe volte realtà – è di venire inesorabilmente schiacciati dalle menzogne imposte e diffuse dalla Rivoluzione. Senza formazione o con una formazione superficiale, inoltre, si diventa insipidi, come lo sono oggi tanti presunti “cattolici di parrocchia”, che di Cattolicesimo non hanno più nulla, avendolo sostituito con un vago filantropismo posto al servizio delle mode del momento.

Tuttavia, se la formazione è importante, è anche vero che agli ambienti controrivoluzionari è mancata e manca spesso la capacità tecnico-pratica di attuare quanto appreso intellettualmente. In effetti, nonostante sia più grande di quanto uno possa immaginare guardando la tv o leggendo i giornali, la resistenza alla Rivoluzione si trova comunque di fronte a grandi limiti strategici, dovuti a vari motivi, come ad esempio eccessive e inutili rivalità personali o un eccessivo intellettualismo.

Per queste ragioni va salutata con gioia la pubblicazione, per la prima volta in Italia, de “L’azione - Manuale per una riconquista cattolica politica e sociale” (Editoriale Il Giglio, Napoli 2016). Il libro, dell’intellettuale tradizionalista francese Jean Ousset (1914-1994), e tradotto da Guido Vignelli, più che un trattato teorico è un manuale d’azione, che ogni gruppo controrivoluzionario dovrebbe non solo leggere, ma studiare. Ousset, lo ricordiamo, nel 1954 fondò la Cité Catholique, organizzazione di coordinamento delle varie realtà tradizionaliste francesi, nota per i suoi convegni nazionali e internazionali e che ebbe grande seguito anche in altri Paesi d’Europa e dell’America Latina.

Come ricorda Vignelli nell’introduzione, durante gli anni del pontificato di Giovanni XXIII, anni di cambiamenti nel mondo e nella Chiesa, tre libri in particolare si proposero di impostare un programma di riconquista cristiana della società: “Pour qu’ll règne” di Jean Ousset, “Revolução e Contra- Revolução” del prof. Pinio Corrêa de Oliveira (1959) e “Cristianesimo e ordine civile” di don Gianni Baget Bozzo (1961). L’opera di Ousset però non è mai stata tradotta in Italia.

“Pour qu’ll règne” è un lavoro monumentale, volto a sistematizzare la teoria e l’azione per un ritorno alla Regalità sociale di Cristo, unico antidoto contro la Rivoluzione dilagante. Quella pubblicata dall’Editoriale Il Giglio è solo la parte finale del libro di Ousset, che dal 1968 divenne un testo autonomo: “L’Action”, per l’appunto.

Per Ousset il dramma del cattolicesimo del XX secolo è stato l’aver separato il pensiero dall’azione e la dottrina dal metodo. Troppe volte anche oggi si fa un gran parlare ma poi molti preferiscono non sporcarsi le mani, pensando che prima o poi la Provvidenza sistemerà tutto. Ora, se è vero che senza l’intervento divino l’uomo non può sconfiggere la Rivoluzione, è altrettanto indispensabile darsi da fare: “I soldati combatteranno in nome di Dio e Dio donerà loro la vittoria”, diceva Santa Giovanna d’Arco, citata opportunamente da Ousset, il quale ricorda pure come l’ortodossia cattolica abbia sempre insegnato che «bisogna pregare come se la nostra azione fosse inutile, ma agire come se la nostra preghiera fosse altrettanto inutile». Ci vuole dunque un sano equilibro che eviti sia il fideismo che si rifugia unicamente nella preghiera, sia l’attivismo senza alcuno sguardo soprannaturale. Ousset parla ai laici di azione, ma non smette di ricordare l’importanza decisiva dei ritiri, della Santa Messa e degli esercizi spirituali.

Come sintetizza efficacemente Vignelli, l’intellettuale francese aveva ben presente la necessità di «formare nuove élites e classi dirigenti, influenzare le istituzioni, controllare il potere, gareggiare con i mass-media». Questa è la missione specifica dei laici cattolici, che devono essere sempre più consapevoli del loro ruolo e della necessità di una legittima autonomia dalle gerarchie ecclesiastiche, oggi sempre più schierate a favore della modernità (e se questo era vero negli anni Sessanta-Settanta, attualmente lo è all’ennesima potenza).

Per Ousset «si trattava innanzitutto di formare militanti cristiani convinti, coerenti e credibili, uniti da legami di amicizia, da un’identica dottrina e da un comune metodo di azione, allenati al senso critico e al rigore morale, abituati a osservare, analizzare, progettare, ma anche a decidere e ad agire. Essi dovevano diventare una élite seria, diffusa e influente, capace di trattare con le persone e con gli ambienti sociali più diversi, capace di agire nella vita civile usando i più efficaci strumenti d’informazione, propaganda e persuasione, caratterizzati da un contatto personale, azione in gruppi ristretti, massima libertà di iniziativa».
Per raggiungere l’obiettivo Ousset raccomandava di dar vita ad un’associazione di associazioni, di «formare una rete di cellule, circoli e gruppi, capace di penetrare negli ambienti più influenti della società civile per informarli, risanarli e coordinarli in una globale azione contro-rivoluzionaria».

In pratica, «bisognava influenzare dall’interno gli ambienti sociali e i “corpi intermedi” superstiti, per propagarvi le verità e confutarvi gli errori, per rafforzarvi le virtù e indebolirne i vizi, per favorirvi le tendenze sane e combattervi quelle malate, per rafforzarvi le dirigenze in crisi d’identità e di responsabilità».

Come scrisse Lenin, “se a San Pietroburgo, nel 1917, ci fossero state solo poche migliaia di uomini ben certi di quello che volevano, non avremmo mai potuto prendere il potere in Russia”. Sacrosanta verità, perché la storia la fanno le élites. E per vincere c’è bisogno di unità di intenti e di comunione fraterna. Per questo Ousset, tra le tante indicazioni, mette in guardia da invidie e gelosie, dalla tiepidezza e dal mero volontariato. A sinistra c’è sempre chi si dedica a tempo pieno alla lotta. Perché non dovrebbe essere così anche in campo cattolico controrivoluzionario?

Purtroppo questi consigli non sono stati molto seguiti e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Nonostante incoraggianti segnali di speranza, la Rivoluzione avanza. 

Da quanto è possibile notare, però, forse è arrivato il momento propizio per un vero cambio di direzione. Di fronte alla crisi dilagante nella società e a quella - eclatante - nella Chiesa, molti giovani stanno aprendo gli occhi e decidono di opporsi al sistema dominante. Ed è su loro che bisogna puntare, perché solo loro potranno essere le élites del prossimo futuro. Giovani ai quali pertanto sembra particolarmente rivolto questo libro, uscito oltre cinquanta anni fa, che infatti vivamente raccomandiamo di leggere e studiare, perché validissimo anche per i nostri tempi travagliati.
 

13 luglio 2016

Quelle parole talismaniche nei sinodi sulla famiglia

di Federico Catani

Nella Chiesa si è imposta una neolingua di stampo orwelliano. Il processo va avanti da tempo, ma negli ultimi anni ha avuto un’accelerazione impressionante. I due Sinodi sulla famiglia (del 2014 e 2015) lo hanno in qualche modo solidificato. Nel romanzo 1984, George Orwell spiega che la neolingua era la lingua ufficiale imposta dal Grande Fratello per sostituire la vecchia visione del mondo, le vecchie abitudini mentali e, soprattutto, per rendere impossibile ogni altra forma di pensiero che non fosse quella imposta dal Grande Fratello stesso e dal suo Partito unico, il Socing.
Ebbene, mutatis mutandis, sembra essere proprio quello che sta accadendo nella Chiesa. L’Associazione “Tradizione, Famiglia e Proprietà” (TFP) ha dato alle stampe un agile volumetto, Una rivoluzione pastorale. Sei parole talismaniche nel dibattito sinodale sulla famiglia”, scritto dallo studioso Guido Vignelli e con la prefazione di mons. Athanasius Schneider, vescovo ausiliare di Astana (Kazakhstan). Il testo aiuta il lettore a orientarsi nel nuovo linguaggio utilizzato dai documenti ecclesiali usciti dai due Sinodi. Pur essendo stato ultimato prima della pubblicazione di Amoris laetitia, l’esortazione apostolica di Papa Francesco rientra a pieno titolo nella disamina fatta da Vignelli.
In sintesi, come nota l’autore, “questo linguaggio veicola una nuova pastorale che favorisce un cambiamento di mentalità e di sensibilità tale da insinuare una nuova teologia”. Non è una novità. Già san Pio X, nel 1907, affermava che “i modernisti involgono i loro errori in certe parole ambigue e in certe formule nebulose, allo scopo di prendere gli incauti nei loro lacci, ma tenendosi sempre aperta una via di scampo per non subire un’aperta condanna”. La tecnica – che Vignelli riassume in appendice – è quella del “trasbordo ideologico inavvertito”, concetto coniato dal pensatore brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira, fondatore della TFP. In pratica, il ricorso a parole cosiddette ‘talismaniche’ serve per trasbordare i fedeli da una posizione vera ad una falsa. Ed il passaggio è, per l’appunto, inavvertito, indolore. La tattica è di evitare l’affermazione di errori espliciti, ricorrendo piuttosto a “parole ambigue e scivolose che, pur avendo una origine cristiana, sono state sequestrate e strumentalizzate da una cultura anticristiana per diffonderle negli ambienti cattolici al fine d’inquinarli e disporli al cedimento e alla resa al nemico”. Insomma, si definiscono tali parole ‘talismaniche’ perché, “pur sembrando banali e innocue, nel linguaggio in cui vengono usate esse possono esercitare una pericolosa influenza che tende a manipolare la mentalità di chi le usa mediante una tecnica implicita di persuasione psicologica”.
Tra quelle più citate nel dibattito sinodale  e maggiormente in voga ai giorni nostri, Guido Vignelli ne ha individuate sei.
Inizia con il termine ‘pastorale’. Quante volte abbiamo sentito ripetere che la dottrina non cambia ma va invece adeguata la pastorale? Ebbene, la pastorale dovrebbe essere la modalità con cui i pastori della Chiesa guidano le anime verso la salvezza eterna. Se ne deduce che la prassi pastorale non può mai essere disgiunta dalla verità dottrinale: sono due facce della stessa medaglia. Da anni, però – e i Sinodi ne sono stati la prova -, si ricorre al termine pastorale per far sì che cambi la dottrina. Con la scusa dei tempi che cambiano e delle nuove esigenze e situazioni dei fedeli, si finisce per mettere in soffitta la legge di Dio e la Sacra Scrittura. E infatti si parla di “conversione pastorale” della Chiesa, in modo che “dogmatica, morale, diritto e liturgia si adeguino alle esigenze dell’uomo moderno”, e non il contrario, come invece dovrebbe essere.
C’è poi la parola ‘misericordia’. La Chiesa ne ha sempre parlato e l’ha sempre vissuta. In due millenni i preti hanno sempre confessato e assolto miliardi di fedeli. Eppure sembra sia una scoperta di qualche anno fa… Il problema è che oggi per misericordia si intende perdono a buon mercato: tutti si salvano e tutti sono perdonati, senza bisogno di alcun pentimento. Ma questo è un vero e proprio stravolgimento della verità. Anzi, una bestemmia che porta le anime alla dannazione.
Veniamo poi al termine ‘ascolto’. Si dice che la Chiesa deve porsi in ascolto, più che insegnare, arrivando persino a mettere in dubbio “certezze ritenute indiscutibili e sicurezze ritenute irrinunciabili”. Ne deriva che, “per la pastorale dell’ascolto, l’importante non è più che l’uomo sia in sintonia con la volontà divina, bensì solo l’essere sinceri, in pace con sé stessi e con gli altri; l’esserlo con Dio ne sarebbe un’automatica conseguenza”. In tal modo – lo abbiamo visto con i questionari somministrati in maniera assai discutibile prima dei Sinodi – la Chiesa si appiattisce sulla sociologia, pensando che la sua missione sia solo “fornire un vago servizio all’umanità”.
E cosa dire del ‘discernimento’? Tale parola indica lo strumento per analizzare le situazioni problematiche. Perciò, diventa vietato esprimere giudizi e chi non si adegua a questa nuova strategia pastorale viene severamente redarguito ed emarginato. Discernimento significa quindi ascoltare il diverso e valorizzare la sua diversità, perché bisogna tener conto della complessità delle situazioni. Ecco allora che “la complessità diventa un pretesto per eludere il problema ed evitarne la cura risolutiva ma spiacevole”. Nella pastorale di oggi evidentemente non c’è più spazio per il sacrificio e la croce. Si giunge così al concetto di famiglie e persone ‘ferite’: in tal modo “la situazione viene scusata o addirittura giustificata come se fosse insuperabile, mentre chi si ostina a rimproverarla viene accusato di mancare di misericordia”. Ciò che conta sono le “relazioni affettive di qualità”, ovvero quelle in cui ci si impegna a vivere “una unione autentica e stabile che comporti il reciproco aiuto materiale e morale”. Non c’è da stupirsi pertanto se non si usano più i termini ‘immorale’ o ‘irregolare’ per i conviventi more uxorio o per le coppie omosessuali: di fatto si passa dalla tolleranza del male alla sua piena accettazione. Il tutto in nome della dolcezza, del dialogo, della misericordia e dell’accompagnamento.
Già, ‘accompagnamento’ è un’altra parola talismanica. Non si tratta più di accompagnare il peccatore alla conversione, perché “ogni via, per quanto pericolosa, purché sia scelta liberamente dall’uomo, conduce comunque alla meta della salvezza”. Questo discorso vale pure per la società. Abbandonato l’obiettivo di costruire la civiltà cristiana, la Chiesa “deve accompagnare i processi culturali, seguirne l’evoluzione storica, incoraggiarne l’ammodernamento in senso pluralistico, senza pretendere d’imporle un modello storicamente sorpassato”. In buona sostanza, deve favorire un mondo non tanto scristianizzato, quanto piuttosto – e lo vediamo ogni giorno – anti-cristiano. Deve sposare dunque una strategia suicidaria.
Infine, l’ultimo termine preso in esame da Vignelli è ‘integrazione’. Molti sostengono che la comunione con la Chiesa e con Dio può essere solo parziale. Pertanto, occorre accogliere le diversità, abbattere mura, gettare ponti, superare le discriminazioni attraverso l’inclusione. Pretendendo però di integrare nella Chiesa quanti per ragioni oggettive non possono essere assimilabili, si favorisce la disintegrazione. Ovvero la dissoluzione: altra scelta suicida.
Ebbene, chi ama non vuole la morte dell’amato e non lo porterà certo ad uccidersi. Lo stesso vale per la Chiesa. Se i pastori preposti a guidarla e custodirla adottano rivoluzioni pastorali e dottrinali - ben celate dietro parole ambigue - volte a danneggiare il Corpo Mistico di Cristo, le possibilità sono due: o sono degli ingenui, e allora per ovvie ragioni dovrebbero essere privati di ogni incarico, oppure sono in mala fede e al servizio di qualcun altro (“non si possono servire due padroni”, dice Gesù nel Vangelo). Grazie a Dio, sappiamo però con certezza che “portae inferi non prevalebunt”!

* Chi fosse interessato ad avere una copia del libro può scrivere a info@atfp.it o telefonare al numero 068-417603