“Tanto mi parver sùbiti e accorti
e l’uno e l’altro coro a dicer «Amme!»,
che ben mostrar disio d’i corpi morti:
forse non pur per lor, ma per le mamme,
per li padri e per li altri che fuor cari
anzi che fosser sempiterne fiamme.”
di Francesco Mastromatteo
Siamo nel XIV canto del Paradiso, nel cielo del Sole Beatrice chiede agli spiriti sapienti di risolvere un dubbio di Dante riguardo alla luminosità dei beati dopo la risurrezione della carne; Dante sente una voce provenire dalla luce più intensa della prima corona: è Salomone, che spiega come quando essi si saranno riappropriati del loro corpo risorto, la loro anima vedrà accrescere la propria gioia, per cui aumenterà anche la luce che promana da loro e che è un dono della Grazia illuminante, perché aumentando la visione di Dio aumenterà anche il loro ardore di carità. Non solo essi conserveranno la luce che li circonda, ma i loro occhi corporei saranno resi capaci di sopportare un simile splendore. Tutti gli spiriti pronunciano sollecitamente un 'Amen', manifestando il desiderio di riavere i loro corpi mortali, “non pur per lor”, ma per le persone che amarono in vita.
Qualche anno fa persi un caro amico in un incidente di moto, non il primo. Un’esperienza che tutti prima o poi, quale che fosse l’età o la causa, abbiamo fatto: la scomparsa di una persona cara. Davanti a un evento del genere, laici, ma anche credenti tendono a rifugiarsi sempre più in poetiche quanto, va detto, vacue metafore, in cui il “cielo”, “lassù” e altri riferimenti eterei e impalpabili lasciano spesso incolmabile il vuoto della perdita. Mi colpì perciò, nella predica funebre del sacerdote, amico comune, che ricordò la frase già detta una volta a un padre che aveva perso suo figlio: “Ma tu pensi che lo rivedrai, un giorno?”. Una domanda abissale, disturbante, di quelle che ti attraversano come una spada, che ti costringono a mettere da parte tutte le melensaggini sul fatto che i defunti continuano a vivere “nel ricordo di chi resta”, nella migliore delle ipotesi in un non meglio precisato “posto migliore di questo”, dando per scontato che loro, i morti, anche in una visione di fede, non abbiano più l’umanissima voglia di tornare a rivedere, toccare i propri cari.
Tutti i trattati teologici e dottrinali non valgono, per capire l’essenza del cristianesimo, quanto questi pochi versi danteschi, che sembrano quasi rappresentare visivamente l’ansia, la voglia ardente delle anime di ricongiungersi con i famigliari lasciati sulla Terra. Sono nella felicità eterna, ma questo non cancella la loro umanità, i loro affetti, la loro persona con annessi ricordi e sentimenti, quasi che - commenta così il passo alla fine del discorso di Salomone, il critico Tommaso Di Salvo - “tutta l’immensa saggezza che era in lui e che era nei grandi dottori della Chiesa si condensasse nell’augurio, nell’attesa e nella costruzione di un paradiso familiare, ricostituzione dell’amabilità, della dolcezza e dei rapporti di famiglia”. “Gratiam non tollit, sed perficit naturam”, diceva l’Aquinate: ma spesso dimentichiamo noi per primi questo assunto cattolicissimo, per cui nulla della nostra natura umana, di ogni singola persona umana, viene cancellato da Dio, ma solo perfezionato. E il corpo, quel corpo disprezzato dai manichei, ma anche dai materialisti che credono di valorizzarlo esaltandolo a discapito dell’anima, ha il suo valore, perché un giorno risorgerà.
E’ vero, già dottrine filosofiche pagane, come il platonismo, avevano parlato dell’immortalità dell’anima. Ma il cristianesimo, e qui sta la sua vera originalità, va oltre: anche il corpo tornerà a essere glorioso e immortale, come lo era nel giardino dell’Eden. E’ questa la “follia” di una fede che scandalizzava anche i dotti filosofi di Atene, quando risero di San Paolo che parlava di resurrezione. Erano stati ad ascoltarlo finché si riferiva ad un Dio ignoto, ma un Dio morto che poi risorge, che esce dalla tomba, no, quello era inaccettabile anche al più incline di loro alla metafisica. Il paradiso cristiano però non è il vago e nichilista Nirvana, né un semplice deposito celeste di spiriti. E’ la felicità senza fine dello stare assieme a Dio e ai propri cari, quali li abbiamo conosciuti qui in terra, con i loro volti, i loro corpi, i loro abbracci.
Nemmeno tutti i cristiani accettano l’idea del Purgatorio, del suffragio, dell’intercessione dei santi: i protestanti sono scandalizzati dall’idea che i cristiani viventi, qui sulla Terra, possano avere un legame che va oltre la morte, alleviando le sofferenze temporanee delle anime purganti, chiedendo a loro volta l’intercessione di chi è in Cielo. La Chiesa cattolica da questo di punto non accetta limiti, e va oltre: ci dice che suffragi e grazie che si offrono e si chiedono personalmente, singolarmente, secondo un vincolo di amore che va oltre la barriera del sepolcro, tra credenti vivi e morti, ovvero “coloro che si sono addormentati nella speranza della resurrezione” e da cui non ci separiamo mai del tutto; e questo legame, un giorno, tornerà a essere fisico, carnale, concreto (e il mio docente di latino e greco del liceo diceva che quello cristiano non è una necropoli, una città di morti che non torneranno più, da tenere rigorosamente fuori le città come facevano i pagani; è appunto un cimitero, un dormitorio etimologicamente parlando, di persone destinate a risvegliarsi).
Come diceva Vittorio Messori, “sono cattolico, voglio tutto”. Vogliamo la gioia eterna, non solo dell’anima ma anche del corpo, dei corpi di ogni singola persona umana e della loro speranza di riabbracciare, fisicamente, realmente, le persone care. Come i beati del canto dantesco che, pur al cospetto di Dio, fremono dal “disio” di riavere un giorno “le mamme”, “li padri” e “li altri che fuor cari”.
Bellissimo articolo
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