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30 settembre 2017

L’obitorismo. Nascita di un nuovo genere letterario (II parte)


di Marco Sambruna

(prima parte)

Il “RELIGIONISMO”

Una rappresentazione fedele dei tratti specifici dei popoli italiani d’altra parte non può prescindere dalla religione. Non è un caso che, nella rappresentazione dell’Italia che fu nei romanzi sopra richiamati, l’elemento religioso non sia mai assente. Infatti anche se sottoposto a dure e storicamente discutibili critiche ciò che conferisce interesse a quei romanzi è anche la polemica contro la religione, che in quanto irreligiosa è anch’essa derivata dalla religione.

Ma per poter cogliere questo aspetto della fisionomia italiana ora non c’è altra via che scrutare le profondità del passato per l’ottima ragione che tentare di rappresentare quella realtà, o meglio quella ricchezza del carattere italiano, a partire dall’attualità è impossibile.

Impossibile perché la religione cattolica, quale fattore decisivo che ha plasmato il carattere tipico italiano nella sua complessità, scomparendo sancisce anche la scomparsa della possibilità di rappresentare letterariamente l’attualità di un popolo che di fatto non esiste più se non in qualche recesso alpino o appenninico.

Impossibile perché senza l’aspetto religioso ormai tramontato dall’Italia standardizzata secondo criteri laicisti ci troviamo di fronte una tela bianca di cui non possiamo dire nulla se non prendere atto del suo insignificante e un po’ inquietante biancore.

Impossibile infine perché l’autore che osasse rappresentare questa tela bianca tentando di descrivere l’Italia attuale rischierebbe di scrivere un libro meramente didascalico, una sorta di referto autoptico che col suo freddo linguaggio a mezzo tra il scientifico e il giuridico non può stimolare l’acquisto da parte dei lettori.

L”OBITORISMO”, UN NUOVO GENERE LETTERARIO

“Lo zoo è la rappresentazione della città, lo zoo safari del suburbio residenziale fuori città. Visti dal sedile anteriore destro del monovolume, gli animali sfilavano in tutto il loro insuccesso, non sapevo se essere felice nel vederli vivi o compiangere la fierezza addomesticata, il portamento ammaestrato, la mia situazione fallimentare”
(Giorgio Falco, L’ubicazione del bene)

E invece, inaspettatamente, un autore che ha osato sfidare le leggi del mercato, e pure con discreto successo, l’ho trovato.

Giorgio Falco é autore milanese che come molti autori lombardi rifugge dai barocchismi e dai riccioli spagnoleggianti:  con “L’ubicazione del bene”, un libro che forse non casualmente non ha vinto nessun premio letterario se non minore, ha osato descrivere l’Italia attuale, il che significa compilare una lunga didascalia a commento di quella tela bianca di Lucio Fontana o di quel cadavere disteso sopra una tavola anatomica sopra evocati.
Egli cioè descrive l’uomo nuovo formato, anzi prodotto, dalla standardizzazione laicista e l’habitat che gli è tipico giacché ogni specie umana ha bisogno per sopravvivere di un ambiente a lui conforme.  D’altra parte l’ambiente circostante è anche la proiezione di chi quello spazio lo abita: così come nel passato anche recente è ancora possibile osservare un panorama ricco di sfumature civili e si simboli religiosi perché ricco e sfumato era il carattere italiano che su di esso proiettava le sue caratteristiche, allo stesso modo oggi possiamo osservare un panorama privo di originalità e quindi standardizzato perché il carattere italiano è stato plasmato dal conformismo e dal qualunquismo borghese prima e dalla standardizzazione globalizzante del laicismo ideologico poi.

Possiamo dunque senz’altro affermare che Giorgio Falco si inserisce a buon diritto nella storia della letteratura italiana contemporanea. Infatti dopo il positivismo, il verismo, il decadentismo, il neorealismo egli ha inventato un nuovo generare letterario che qui possiamo definire col termine di “obitorismo”.
Falco sembra specializzato nella conoscenza delle pallide esistenze metafisicamente narcotizzate che si consumano nei suburbi di Milano. Il  microcosmo o habitat obitoriale in cui l’autore racchiude l’uomo nuovo laicista se non vero e reale è certamente verosimile e realistico. Si chiama appunto Cortesforza ed è uno di quei paesi sorti dal nulla e nel nulla fatti di villette a schiere nuove, di capannoni industriali nuovi, di campi sportivi nuovi che giacciono come corpi anestetizzati su una tavola anatomica dai venti ai quaranta chilometri fuori Milano.

“L’ubicazione del bene” è la dissezione impietosa di fotogrammi essenziali di vite fallite eseguite con  la scientifica esattezza descrittiva di un Raymond Carver o con lo sharp focus allucinato di un Edward Hopper: un microcosmo popolato di medio borghesi che in qualche modo sono riusciti per ora a non farsi travolgere dalla crisi se per crisi intendiamo quella economica. Perché invece dal punto di vista esistenziale gli abitanti di Cortesforza sono ampiamente incompiuti. Che cosa significhi essere compiuti non lo sanno bene nemmeno loro gli abitanti di Cortesforza,  ma Giorgio Falco è uno scrittore di talento e ci fa intuire ciò che traspare chiaramente al di la e prima delle parole.

Egli ci parla in definitiva dell’obitorio esistenziale italiano che trova il suo campione rappresentativo nelle vite spente di un paese a venticinque chilometri da Milano perso in mezzo al piattume angosciante della pianura padana e rinchiuso nei quadrilateri delle tangenziali e delle autostrade. Con le vie e le vite paesane che finiscono in modo misterioso a ridosso di un campo di grano o di un campo incolto affacciati sul nulla.
Vite spente perché prive di spinte verticali, ma distese nei piatti orizzontalismi tipici nelle aree a sud di Milano come correlativo oggettivo di un nichilismo deprivato perfino di quella volontà di potenza che Nietzsche immaginava. Di potente infatti gli abitanti di Cortesforza non hanno nulla. Al contrario la loro anonimia devitalizzata risulta soprattutto dalla loro impotenza da deficit acuto di vitalità.
Rintanati in questa dimensione da provincia depressa i protagonisti del racconto hanno in comune una certa predisposizione all’infelicità, una specie di propensione naturale e invincibile alla noia e alla disperazione.

Una disperazione banale e noiosa perché giorno dopo giorno come in una serie sterminata di fotocopie ciascuna delle quali sempre più sbiadita e sempre più lontana dall’originale, gli abitanti del paesotto sperimentano le medesime futili cose: la sveglia all’alba per andare al lavoro a Milano, una giornata tediosa fra mille impegni la maggior parte dei quali completamente incapaci di gratificare anche il più umile degli ego, il ritorno a casa rigorosamente incolonnati sulla tangenziale evitando con cura il cadavere di qualche nutria schiacciata dalle ruote gemellate di un camion.
Poi l’arrivo a casa, un fugace bacio alla moglie, qualche laconico scambio di parole riguardo la giornata di lavoro, la televisione, il divano, il letto. A conferire l’illusione della libertà arriva la domenica che in un territorio piatto e desolatamente privo di attrazioni, come quello esistenziale dell’Italia odierna, finisce invariabilmente per rendere ancora più acuta la sensazione di vuoto pneumatico che grava come una cappa leggera su un accavallarsi di desideri caotici così frustrati da essere stati dimenticati.

Ma sotto l’apparenza di queste sbiadite figure dalle vite così banali cova una specie di sentimento di rivalsa, il livore, l’ansia compulsiva di fare qualcosa che conferisca nuova linfa vitale: ma poiché nulla di veramente nuovo caratterizza l’epoca attuale non resta che ricorrere a vecchi e superati modelli quale il mito senza tempo del mettersi in proprio aprendo una fabbrichetta o un’aziendina tipicamente milanese per dimostrare ai suoceri che si hanno le palle per diventare imprenditori di se stessi nonostante si possegga già un buon lavoro; la voglia compulsiva di mettere in cantiere un figlio come strategia di integrazione da parte di giovani mogli che vogliono sentirsi madri fra madri per avere un ruolo altrimenti inesistente; il desiderio di possedere un cane come misero succedaneo in grado di scimmiottare la mancanza di prole; l’incapacità di staccare la spina dallo stimolo della competizione che trova sfogo nell’organizzazione di combattimenti fra pesci rossi come alternativa chic al più popolare e rozzo combattimento fra cani; le gite domenicali organizzate allo zoo safari dove la parodia della libertà di cui godono gli animali è analoga a quella che tiene inchiodati gli uomini in una dimensione, come disse Fabio Volo in un film, “rattenuta” cioè una via di mezzo fra rattrappita e trattenuta; il desiderio di un giardino o un terrazzo piantumato da parte di chi a Cortesforza c’è finito solo perché era troppo povero per pagarsi un appartamento a Milano.

In questa dimensione asfittica e sottovuoto, sporcata appena da una luce opaca come in un quadro di Yves Tanguy, si svolge la lenta processione dei personaggi destinati a perdersi nell’oblio delle sterminate campagna padane, personaggi che tuttavia prima di scomparire definitivamente dalla scena, come scriveva Ferdinand Celine, si vogliono nuocere ancora un po’, giusto per non perdere l’allenamento alla competizione, ma soprattutto per conservare l’illusione di essere animati ancora da qualche debole e residuale scossa di vitalità.

Sfruttando l’illusione di abitare in vacanza secondo gli slogan visibili sui cartelloni pubblicitari degli stradoni padani che reclamizzano un nuovo cantiere fra Milano e Pavia, immobiliaristi falliti imbrogliano giovani coppie ancora inesperte delle vita, vendendo vecchie dimore da ristrutturare piene di invisibili tarme che corrodono la struttura portante della casa dei sogni appena comprata, così come appare scricchiolante e pericolosamente soggetta al “nuovo che avanza” la loro esistenza.
Assistiamo così alla vendita di un cane avariato ossia malato e pieno di pulci e zecche da parte di un negoziante ad una giovane moglie incapace di diventare madre sfruttando il suo desiderio di avere qualcuno di cui occuparsi.
Incappiamo in astute regie finalizzate a inchiappettare una coppia di sposini da parte di un fotografo che sembra un idraulico,  il quale scatta solo un terzo delle fotografie pattuite al matrimonio, poi chiude bottega per probabile fallimento senza portare a termine il lavoro nonostante avesse giurato e spergiurato di essere un professionista serio.
La ribellione impossibile all’infernetto quotidiano di Cortesforza qualche volta sfocia nella follia di una donna sola che vive nella villetta bifamiliare o nel figlio di anziani genitori che finisce ricoverato in una clinica psichiatrica.
“L’ubicazione del bene” che da il titolo al romanzo ha delle coordinate ben precise: sono quelle che corrispondono alla latitudine e alla longitudine di Cortesforza su un piano geografico immaginario e quelle del sogno di un naufragio per chi ormai,  stanco e svaccato,  non vede l’ora di spiaggiare su un’isola deserta magari ricorrendo a una qualche forma di suicidio esistenziale. Anche assistito.

(fine)

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06 settembre 2017

La Chiesa o divide o diventa apparato di potere (II parte)


(la prima parte qui)

di Marco Sambruna

DALL’INAUTENTICITA’ ALL’AUTENTICITA’

Questo esito impietoso, ma salutare che finalmente dice all’uomo la verità sull’uomo, sulla sua costitutiva, antropologica, connaturata incapacità di essere un cristiano coerente tuttavia si rivela estremamente benefico perché costringe il cattolico ad evadere da un assetto inautentico per riconfigurarlo in un assetto autentico.

L’uomo occidentale che in gran parte, lo ripetiamo, si identificava col cristiano del primo tipo, da almeno due secoli a questa parte infatti si percepiva come religioso sia perché immerso in un contesto visibile punteggiato da simboli cristiani, sia perché soprattutto, non era chiamato a pronunciarsi personalmente e individualmente su questioni che demarcavano il confine fra ciò che corrisponde a un ethos cristiano e un ethos neopagano.
La stessa presenza cioè nelle città occidentali di chiese, monasteri, scuole e ospedali confessionali, simboli sacri poteva contribuiva erroneamente a credere che il tessuto sociale fosse permeato non solo di cristianesimo come dato storico, ma perfino di cristianità come esperienza vissuta.
Immerso in questa dimensione costituita in gran parte di apparenze era più o meno inconsapevolmente trascurato l’unico dato in grado di rappresentare la situazione per quello che era realmente vale a dire l’ampia diffusione anche fra credenti di un ethos laicista.
Il cristiano viveva quindi questa contraddizione forse inconsapevolmente in una scissione di matrice schizoide derivata dalla contradditoria separazione fra percezione di sé come cristiano coerente e dall’ethos neopagano vissuto come esperienza quotidiana.
Nell’attuale epoca di secolarizzazione conclamata invece il cristiano del primo tipo cessa di credersi tale percependosi finalmente in modo autentico cioè un neopagano che vive immerso in un contesto sociale neopagano e che adotta un ethos neopagano.
Questo risultato allinea ciò che l’uomo realmente è con l’ambiente sociale in cui vive e con lo stile di vita che ha scelto.

Epoca pre secolarizzazione:
ambiente visibile: cristiano
auto percezione: cristiana
Ethos effettivo: laicista

Esito: scissione fra pensiero e azione, inautenticità

Epoca secolarizzata:
ambiente visibile: laicista
auto percezione: laicista
Ethos effettivo: laicista

Esito: coerenza fra pensiero e azione, autenticità.

Il nuovo assetto quindi pone fine alla scissione destabilizzante precedente e rende il credente pienamente integrato: ciò significa che pensiero, verbalizzazione dello stesso, azione sociale, gesti quotidiani sono conseguenti gli uni agli altri in modo logico fondando i presupposti di un’autentica auto conoscenza.
Questa dinamica che risana la condizione patologica precedente, si inscrive nel solco della verità come autenticità dove per autenticità si intende la conformità alla propria natura.
Il fatto che questa nuova condizione stabilita nell’autenticità costringa il credente a una visione sgradevole di se stesso perché lo rende consapevole di essere molto meno virtuoso di quanto immaginava non inficia l’effetto positivo della nuova configurazione, ma anzi ne costituisce il presupposto indispensabile.
In realtà l’autenticità non corrisponde alla verità, essendo la prima un dato antropologico, la seconda un dato metafisico. Nel nuovo assetto il cattolico del primo tipo si percepisce autenticamente come neopagano, ma proprio per questo sa di essere lontano dalla verità rivelata dalla religione cui credeva di aderire.
Resta una sorta di nostalgia che scaturisce dallo iato che separa ciò che si è da ciò che si vorrebbe essere: paradossalmente proprio dimorando nell’autenticità ossia nella fedeltà alla propria natura umana decaduta ci si discosta dalla verità ossia il modello ideale del Vangelo.
Ciò che è antropologicamente autentico risulta metafisicamente insufficiente, ciò che stabilisce nella propria autentica dimensione umana evidenzia il grado di separazione dalla verità.
Soprattutto i cristiani del primo tipo che vivono un ethos neopagano non partono più ora da una condizione di falsa coscienza, ma di autenticità: pro-vocati a scegliere secondo un aut – aut chiaro su questioni in cui la posizione della chiesa è molto netta, così netta da tracciare un discrimine fra ciò che è cristiano e ciò che non lo è, finalmente sanno ciò che sono e sono sempre stati pervenendo così alla verità circa la propria autentica natura.
Autenticità come condizione preliminare per decidere lucidamente cosa fare di sé stessi e condizioni basica la quale sola può garantire l’esercizio della libertà tramite delle libere scelte.

(continua)

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12 gennaio 2017

La fine (e l'eclissi) del Tempo di Natale


di Roberto De Albentiis

Celebrate la Circoncisione di Gesù e la Maternità di Maria, l’Epifania e il Battesimo di Gesù e la Sacra Famiglia, inseriti ormai nel Tempo dopo l’Epifania, ci avviamo ormai all’esaurimento delle festività natalizie e alla ripresa della normalità tanto nella vita ecclesiale quanto civile, in attesa dei periodi pre-quaresimale - la Settuagesima, ove e quando ancora celebrata - e quaresimale, che ci porteranno alla grande festa di Pasqua (la Solennità delle Solennità, perché, sì, è la Pasqua la festa più importante e centrale della vita cristiana); perché parlare ancora del Natale, per quanto ormai liturgicamente agli sgoccioli?
Facendo una mia ricerca personale, per diletto, sul Natale nella Germania nazista (nell’Unione Sovietica sapevo non essere celebrato, anche se sono rinvenibili alcune cartoline natalizie, qualcuna del tempo della guerra addirittura con Stalin, con neve, stelle e alberi luminosi, ma senza nessun accenno al trascendente), mi sono imbattuto in quanto segue: “Le origini ebraiche di Gesù e la commemorazione della sua nascita come Messia ebraico era disturbante per le credenze razziste del Nazismo.

Tra il 1933 e il 1945, gli ufficiali governativi provarono a rimuovere questi aspetti del Natale dalle celebrazioni civili e si concentrarono sugli aspetti pre-cristiani della festa. Inni e decorazioni furono secolarizzati”; ancora, gli inni vennero poi sostituiti dai canti del partito NSDAP, il nome della festa venne cambiato in Julfest, propagandandone le origini germaniche pagane, la stella degli alberi natalizi venne sostituita con una svastica o una runa, Santa Claus (che nei Paesi nordici, anche se protestanti, è San Nicola di Bari) venne sostituito con Odino, le parole di inni belli e popolari come Stille Nacht vennero arbitrariamente cambiati, fino ad arrivare a presentare il Natale come festa del Fuhrer, salvatore della Germania.

Perché vi sto dicendo questo? Fate uno sforzo immaginativo: non stiamo ormai vivendo anche noi, da decenni, via via in maniera sempre più forte, una vera spoliazione e un vero stupro del Natale? Non stiamo assistendo a cambi arbitrari dei canti natalizi (che non possono più contenere alcun richiamo a Dio, a Gesù – di Cui pure si starebbe celebrando la festa – , alla Madonna, agli Angeli), al cambio del nome, del significato (la celebrazione di una generica “solidarietà” o cose simili) e degli auguri della stessa festa (diventata in alcuni Paesi “Vacanze di fine inverno” o “Festa delle Luci”)? Non stiamo assistendo alla ricerca di celebrazioni farlocche di Natali “inclusivi” e altre menate? Non stiamo assistendo a tutto ciò ad opera di ufficiali governativi, uomini di cultura, perfino, incredibile a dirsi, uomini di Chiesa? E dire che nella Germania nazista di cui stiamo parlando il clero, tanto cattolico quanto protestante, e i fedeli hanno lottato, pagando a volte anche duramente, per il mantenimento della natura cristiana del Natale!

Che differenza c’è, mi si dica, con quanto accaduto nella Germania nazista? Sto paragonando il totalitarismo laico e liberale odierno a quello nazista? Mi verrebbe da rispondere di sì, perché alla fine gli effetti, anche se in maniera più patinata e quindi più ipocrita, sono gli stessi (basti pensare allo sdoganamento di  aborto ed eutanasia), o perfino che quello liberale è peggio, perché quello nazista manteneva e sfruttava, quantomeno, qualcosa di buono pre-esistente (il patriottismo, la religiosità, l’importanza della famiglia e della gioventù) che quello liberale oggi annienta senza pietà. Lascio al lettore qualsiasi libera considerazione, tanto su queste cose quanto sul tema del Natale.
Nel periodo della Germania nazista la popolazione, tanto in Patria quanto al fronte (sono bellissime le immagini fotografiche dei soldati che, pur in guerra, addobbano l’albero di Natale e preparano il presepe, e non ci si scordi che proprio nel Natale del 1942 un soldato tedesco dipinse la bellissima Madonna di Stalingrado), manteneva comunque il carattere cristiano della festa, perché sapeva che solo quello era il suo senso originario, e per questo i tentativi nazisti furono velleitari; ma oggi? Oggi c’è una grande ignoranza religiosa diffusa, causata non solo dalla cattiva istruzione scolastica o dal consumismo, che certo hanno le loro grandi colpe, ma soprattutto dall’eclissarsi del sacro ad opera della stessa Chiesa, che sempre più ragiona come il mondo, arrivando però a scordarsi di Chi, quel mondo, è l’unico a salvarlo, il Bambino Gesù. Bambino che, però, è anche Re, e così appare, a Maria e Giuseppe, ai Pastori e ai Magi, nella mangiatoia, che ha la valenza di un trono regale!

Vogliamo salvare il Natale cristiano? Per citare uno slogan cristiano statunitense, “Put Christ in your Christmas!”, manteniamo il carattere cristiano della festa di Natale: prepariamoci con l’osservanza dell’Avvento e la celebrazione della Novena, andiamo in chiesa il 25 e il 31 dicembre e il 1° e 6 gennaio, facciamo auguri e auguriamo pace e solidarietà e serenità nel Nome di Colui che è Re e datore di tutte queste cose, Gesù Cristo! E ricordiamoci che è Gesù Cristo la vera Luce del mondo, e che soprattutto il Bambino che festeggiamo è il nostro Re, Re personale, familiare e sociale! Re davanti al Quale ogni religione e filosofia, ogni sistema economico, politico e culturale, ogni esistenza deve inchinarsi e accoglierLo!

 

02 dicembre 2015

Che cos’è la laicità?


di Giuliano Guzzo

Per indagare il tema della laicità è d’obbligo una rigorosa distinzione di concetti che spesso il pressapochismo giornalistico tende ad interscambiare. La laicità è un impasto semantico complesso, sfuggente e polisenso, al punto che non di rado gli stessi studiosi la assimilano alle nozioni di pluralismo, relativismo, sincretismo, pur non essendo, la laicità, sinonimo di nessuno di questi termini. Per cominciare, sul piano dello Stato possiamo, in estrema sintesi, riconoscere la laicità come quella prestazione istituzionale mediante la quale esso pratica e preserva la propria autonomia decisionale. Lo Stato laico quindi è innanzitutto quello autonomo e indipendente.
Se pretendiamo però di accostare alla laicità dello Stato, aspetto prettamente metodologico procedurale, un valore di contenuto, le carte in gioco cambiano e il tutto si complica notevolmente. Se infatti affermassimo lo Stato laico quale fabbrica autoreferenziale di Verità, rischieremmo di rifarci all’interpretazione di Hegel secondo il quale lo Stato deriva dallo Stato medesimo che ha in sé stesso la sua ragion d’essere. Tale lettura, però, rigetta il modello democratico rivelandosi quindi problematica e inapplicabile all’odierno panorama politico. In questo senso, un più interessante contributo ci giunge invece da Ernst Wolfang Böckenförde, il quale afferma che lo Stato liberale e secolarizzato si nutre di premesse normative che però esso, da solo, non può garantire.
Un’osservazione, questa, che trova ampio riscontro nel ripensamento critico che da qualche anno il mondo occidentale va’ alimentando verso sé stesso; un ripensamento che concerne i rapporti tra Stato liberale, democrazia e religione. Come testimoniano anche le recenti rivalutazioni della sfera religiosa ad opera di Jürgen Habermas, oggi le religioni non vengono più considerate “oppio dei popoli”, bensì preziosi “serbatoi” di senso che tanto incoerenti non sono con una sempre più necessaria terapia di rinnovamento etico. Episodi come l’11 Settembre e la guerra in Irak, e realtà come il multiculturalismo e le nuove frontiere della scienza, hanno infatti spinto soprattutto l’Europa, che dell’Occidente è il giardino culturale, a riflettere sulla propria identità prendendo atto dei limiti politicamente maturati.
La suddetta riconsiderazione della religione ha scatenato il confuso parlare di laicità in riferimento al quale abbiamo iniziato il nostro discorso. Il pensiero laicista, che della laicità rivendica accanitamente un profilo contenutistico, reputa non necessario e deleterio questo importante ritorno spirituale, che sociologi come Josè Casanova chiamano di “de-privatizzazione” della religione. Secondo il fronte del laicismo, quindi, lo Stato è in grado di gestire senza sussidio alcuno anche i più ostici dilemmi etici. In realtà questa visione laicista, più che di amore per la laicità, è impregnata di intolleranza. Anche l’etsi Deus non daretur che Gian Enrico Rusconi, citando Huigh De Groot, ha suggerito come filtro laico dell’etica, cela serie insidie.
Estromettere Dio dalla cosa pubblica per custodire immacolata l’autonomia dello Stato è, libri di storia alla mano, una nota premessa dittatoriale. Dostoevskij con la teoria di Ivan Karamazov ci ricorda che “se Dio non c’è tutto è permesso”. Ma se tutto è permesso si nullifica la forza della legge, mentre viene promulgata la legge del più forte il che, in buona sostanza, significa appunto dittatura. Per scongiurare questo rischio è necessario che il carattere egualitario del valore della laicità venga ribadito senza la minima titubanza. La laicità, culturalmente intesa, è piattaforma di confronto libero e condiviso: aperto a tutti. Il malsano equivoco secondo il quale i depositari esclusivi della laicità sarebbero i cittadini non credenti deve perciò essere definitivamente esorcizzato, affinché la si smetta di ritenere il laico credente un “vigilato speciale” deficiente di spirito critico.
Al contrario merita di essere riconosciuto l’importante ruolo di roccaforte etica che la Chiesa assolve ormai da anni, precisamente da quando, con la fine delle ideologie, sì è imposto quel pensiero debole che per principio inorridisce davanti all’emissione di ogni giudizio che non sia palesemente ambiguo o provvisorio. Stiamo ovviamente parlando del relativismo culturale, corrente di pensiero fedele collega di quella laicista nell’accanimento anticristiano. Tuttavia, a differenza dei laicisti, che, seppur ideologicamente, rivendicano una loro verità, i relativisti si spingono oltre, fino a professare un contestualismo a dir poco esasperato. Ogni etica, secondo costoro, è cioè uguale alle altre e da ciò né deriva la verità che non esiste nessuna verità, se non in termini relativizzati. Le contraddizioni di questa corrente di pensiero sono però molteplici.
Innanzitutto parlare di assenza di verità come unica verità significa, di fatto, sacrificare il relativismo stesso per una dottrina dogmatica. In secondo luogo, affermare che tutte le religioni e le etiche da esse partorite sono eguali è palesemente falso. Se tutte le religioni fossero davvero uguali, il dialogo ecumenico non sarebbe possibile né sensato giacché vi sarebbe uno scambio di contenuti identici. Risalta dunque come, se da una parte il laicismo soffre di miopia ideologica, il relativismo è una vera e propria contraddizione in termini. Persino il filosofo francese Jacques Derrida, dopo essersi impegnato in appassionate elucubrazioni atte a palesare la non universalità di concetti portanti dell’Occidente, messo alle strette, lascia indirettamente capire come anche il suo relativismo decostruttivista è, alla fine dei conti, una scelta di valore e perciò contestabile con le medesime argomentazioni da lui brevettate.
Ne consegue, per dirla con Marcello Pera, che la de-costruzione dei valori universali altro non è che “un divertente, tortuoso, gioco dell’oca filosofico” fine a sé stesso. Viceversa la laicità, come testimonia il vivissimo dibattito di questi mesi, dimostra di godere non di buona ma di ottima salute. Il pericolo non è mai nelle polemiche, nemmeno nelle più arroventate. Ma quando inizia a circolare il proposito di imbavagliare la Chiesa o i cattolici, vale a dire importanti interlocutori del dibattito, il dubbio che la laicità sia nel mirino di qualche ideologia intollerante dovrebbe venirci. Credere nella laicità non significa stabilire quali siano i laici provetti e quali i difettosi da censurare, bensì garantire a ciascuno il diritto di opinione. Anche quando queste opinioni risultano scomode, perché dicono – o ambiscono a dire – la verità.


PS. Scrissi questo articolo sei, sette anni fa ma ho inteso ripubblicarlo perché credo che i contenuti, alla luce del dibattito di questi giorni, siano più che mai attuali.

 

20 novembre 2015

A sfornare miliziani dell’ISIS sono i Paesi più secolarizzati.


di Giuliano Guzzo

Lunedì su questo blog veniva suggerita l’ipotesi che vi fosse un legame, a livello europeo, fra la perdita dei valori religiosi e il fenomeno dei «giovani che si gettano fra le braccia prima dell’Islam e poi della sua degenerazione terroristica qualcosa». Veniva anche riportata, al riguardo, l’opinione del sociologo iraniano Farhad Khosrokhavar, direttore di ricerca dell’École des hautes études en sciences sociales di Parigi e studioso dell’immigrazione islamica in Europa, secondo cui la crisi che porta i giovani alla rottura con le società occidentali non deriva tanto dal rifiuto dei valori che queste offrono a loro, ma piuttosto nel vuoto di regole morali che li accoglie. In sostanza non sarebbe da escludere una correlazione tra il fenomeno della secolarizzazione e la crescente simpatia, in alcuni giovani, verso il terrorismo di matrice islamista; simpatia che le stragi perfino accentuerebbero: «Secondo alcune valutazioni – ricorda il sociologo delle religioni Massimo Introvigne, riferendosi agli ultimi mesi – i combattenti partiti dalla Francia per arruolarsi nell’ISIS sono più di ottocento» (LaNuovaBQ.it, 18.11.2015).
Molto interessanti sono le stime, riprese anche da Internazionale, dell’International centre for the study of radicalisation and political violence, un’organizzazione indipendente, su coloro che hanno lasciato l’Europa per divenire miliziani dell’ISIS: sarebbero circa quattromila. L’aspetto più significativo emerge però quando si va a vedere quali sono gli Stati d’Europa dai quali l’ISIS ha ottenuto, in termini di partenze, maggiori adesioni: considerando come parametro il milione di abitanti, in testa vi sono Belgio (40), Danimarca (27), Svezia (19), Francia (18), Austria (17), Paesi Bassi (14,5), Finlandia (14,5). Un primo dubbio, a questo punto, potrebbe essere il seguente: non sarà che si tratta anche dei Paesi che ospitano le comunità mussulmane più numerose? La risposta è negativa: la Francia, da sola, ospita quattro volte gli islamici presenti in Belgio, Danimarca e Svezia insieme che però – come si è visto – la precedono nel numero di aspiranti terroristi. La stessa Italia ospita più del doppio dei mussulmani presenti in Danimarca e Svezia ma è un Paese dal quale sembra partire un numero basso di volontari per il Califfato: 1,5 soggetti ogni milione di persone.
Per quanto l’integrazione col mondo mussulmano sia certamente questione seria, non è quindi vera l’equazione per cui a più mussulmani presenti in un Paese corrispondano, in modo automatico e diretto, più fondamentalisti: trattasi di una constatazione non banale, che conferma l’esistenza, in Europa, di una maggioranza di fedeli islamici che si possono definire moderati. Ma allora, più che il numero dei mussulmani, che cosa accomuna Paesi come Belgio, Danimarca, Svezia e Francia, Austria e Paesi Bassi? Una risposta utile emerge da un lavoro di qualche anno fa a cura dei ricercatori del NORC Institute dell’Università di Chicago i quali hanno voluto tracciare un quadro religioso a livello mondiale prendendo in considerazione molti Stati. Ebbene, leggendo questo studio e soffermandosi in particolare sulla classifica della percentuale di persone che dichiarano di non credere in Dio e di non averci mai creduto, ai primi posti spuntano – sorpresa – Paesi quali la Francia (19.3), la Svezia (18.4), la Danimarca (16.7) e i Paesi Bassi (15.3) (cfr. Beliefs about God across Time and Countries, 2012).
Pure qui la “cattolica” e “medievale” Italia – che è fra i Paesi, come si è visto, che “esportano” meno simpatizzanti dell’ISIS – è in fondo alla classifica con relativamente pochi atei essendo anche un Paese dove la preghiera personale, al di fuori dei riti e delle funzioni religiose, è molto diffusa (37,3%) a differenza di quanto accade in Belgio (12,7%) o Francia (9,9%) (cfr. L’Italia nell’Europa: i valori tra persistenze e trasformazioni, FrancoAngeli, Milano 2012). Anche la percentuale di persone che credono nel peccato è molto più alta in Italia (67%) rispetto a Svezia (39%), Francia (37%) o Danimarca (18%) (cfr. Sacred and Secular, Cambridge University Press, 2004).

Quale insomma che sia il criterio sul quale si preferisce basarsi – la percentuale di atei, la preghiera al di là delle funzioni o altro – per farsi un’idea sul livello di secolarizzazione, il risultato non cambia: i Paesi maggiormente laicizzati, per così dire, rimangono gli stessi che maggiormente “esportano” miliziani dell’ISIS.
Non sarà quindi che i fondamentalisti islamici hanno nel laicismo europeo il loro primo nemico? E non saranno i cosiddetti “valori laici” – di fatto, libertà di scelta a parte, un totale vuoto di regole morali – quelli che come una fatale scintilla maggiormente più stimolano, saldandosi col fanatismo islamico, il fuoco del terrorismo e dell’inumanità? Oltre ai dati poc’anzi ricordati, con la netta associazione fra Paesi più secolarizzati e Paesi “esportatori” di guerriglieri fondamentalisti, lo suggeriscono pure le parole di Domenico Quirico, giornalista inviato de La Stampa che conosce bene l’argomento essendo stato sequestrato, mentre era in Siria, la bellezza di centocinquantadue giorni: «È vero: se ti sequestrano in un Paese musulmano, l’unica cosa da non fare è dire di essere una persona indifferente al problema religioso. Ti ammazzano immediatamente. Per loro è meglio un praticante di qualsiasi fede, anche sbagliata, che uno che dice: “Per me la religione è l’oppio dei popoli, è una fregatura”. Quello è inconcepibile per loro» (LaSicilia.it, 11.11.2014).

Sia chiaro che non s’intende fare del buonismo suggerendo che la presenza islamica in Europa non presenti criticità che sono ben note, ormai, ai politici oltre che ai sociologi e che derivano essenzialmente dal fenomeno dell’islamismo politico; allo stesso modo non si insinua che i fondamentalisti islamici siano, sotto sotto, alleati dei cristiani i quali sono puntualmente perseguitati nei Paesi a larga maggioranza mussulmana. Tuttavia, per quanto le stime ricordate abbiano inevitabilmente un’accuratezza relativa e da considerare sempre con una certa cautela, il primo antidoto ai reclutamenti dell’ISIS, almeno in Europa, sembra proprio essere la tradizione religiosa, in particolare quella cristiana. Lo dimostra quanto sin qui ricordato e il fatto che i Paesi europei tradizionalmente ritenuti più cattolici siano anche quelli dai quali il Califfato maggiormente fatica a reclutare miliziani: l’Irlanda (7), la Spagna (2) e, appunto, la nostra Italia (1,5). Tutto questo, beninteso, non significa che si possa tirare un sospiro di sollievo o che non occorra impegnarsi in un più profondo lavoro culturale generale di integrazione delle comunità mussulmane presenti in Europa, né che siano inutili i monitoraggi ad opera dei servizi segreti e delle forze dell’ordine. Allo stesso modo non si vuole qui ingenuamente sostenere che l’Italia sia un Paese al sicuro e totalmente estraneo al rischio di attentati terroristici: purtroppo è il contrario, come mostra anche «Bandiere nere su Roma», un inquietante libro pubblicato proprio dall’ISIS nel febbraio di quest’anno nel quale viene tracciato perfino – conformemente a quanto lascia intendere il titolo – un piano di invasione della nostra Penisola. Quando però si sente dire che il modo migliore per evitare che un giovane europeo possa rimanere affascinato dalla proposte del fondamentalismo islamista sarebbe quello di educarlo come si deve all’insegna dei bei valori della morale laïque è bene tenere presente che le cose non stanno solamente in modo diverso: stanno proprio all’opposto.
 

04 settembre 2015

Il corretto uso della fede. O chi ha paura dell’ecumenismo?


di Enrico Maria Romano 

Con il titolo di Chi ha paura dell’ecumenismo il Vescovo di Pinerolo ha recentemente pubblicato un breve articolo sul quotidiano della Santa Sede (cf. OR, 28 agosto 2015, p. 7) per parlare del rapporto tra cattolici e valdesi, e difendere nel contempo il “cammino irreversibile” dell’ecumenismo sia in generale, sia in particolare con la chiesa valdese. Chiesa valdese a cui papa Francesco il 22 giugno scorso ha chiesto perdono parlando dal Tempio Valdese di Torino.
Nella stessa pagina dell’Osservatore il teologo Bruno Forte si mostrava molto aperto verso i valdesi parlando di “impegno comune per l’evangelizzazione”. La domanda è: quale evangelizzazione? Ricordo infatti ai lettori che i valdesi di oggi, contraddicendo perfino il loro eretico fondatore Pietro Valdo, sono favorevoli al divorzio, all’aborto, alla contraccezione, all’omosessualità, alle nozze gay, alla “laicità dello Stato”, etc. E sono altresì contrari, in questo coerentemente con la loro storia, al Primato del Papa, al Magistero della Chiesa, alla santa Tradizione, al culto dei santi, alle indulgenze e ai 7 sacramenti intesi come canali di grazia. Negano recisamente la presenza reale e sostanziale di Gesù nelle specie eucaristiche e considerano la messa come un’invenzione “romana”. Ripeto: quale evangelizzazione?
Ma non è di questo che vogliamo parlare. O meglio prendiamo spunto dal titolo dell’articolo citato per mostrare che l’ecumenismo, come è inteso e praticato comunemente oggi, deve per forza far paura ai buoni cattolici, e a tutti coloro che amano il Vangelo, che credono all’unicità della Chiesa e che sanno che esiste una sola “vera religione” che coincide con quella professata dalla Chiesa fondata su Pietro e i successori, come insegna ripetutamente il Concilio (cf. Dignitatis humanae, 1).
L’ecumenismo fa paura se si prende per buono ciò che viene detto e fatto in suo nome, e spesse volte proprio dai suoi rappresentanti ufficiali. Così il card. Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, ha fatto un intervento al recente Meeting di Rimini, a dir poco ambiguo e distonico in rapporto al Magistero cattolico. Il nostro più vivo desiderio, che ci pare però un’utopia più che un anelito, sarebbe quello di essere corretti o dal summenzionato illustre Prelato o da chi ne fa le veci. Il dialogo in Ecclesia, anche attraverso la stampa e sul web, dovrebbe servire a capirsi meglio e a dare spiegazioni a chi, umilmente, non riesce a conciliare ciò che dice un’autorità della Chiesa e il medesimo Magistero della Chiesa.
L’intervento del Tauran al Meeting è stato pubblicato sull’Osservatore del 26 agosto 2015 (p. 7) con il titolo di Il corretto uso della fede. Ma secondo noi di corretto c’è poco, al di là delle intenzioni e ciò vorremmo dimostrarlo in modo accessibile.
Secondo sua eminenza a fronte dello scientismo e della morale senza Dio oggi si assisterebbe ad “un ritorno al sacro, o piuttosto a una certa religiosità”. Religiosità ambigua sottolinea il cardinale, fondata sull’assioma del believing without belonging e “senza preoccuparsi dei dogmi”. E fin qui siamo d’accordo, anche se parlare di ritorno del sacro per la diffusione dei culti orientali o della New Age ci pare improprio. Comunque sia secondo Tauran “questa nuova religiosità, spesso panteista e sincretista, traduce il bisogno di trascendenza”. Può darsi… E quindi?
Dopo questo quadro iniziale a luci e ombre (dove in realtà prevalgono le ombre del sincretismo e del panteismo), il Tauran passa a difendere non il cattolicesimo di cui è un alto dignitario, ma le religioni umane (senza specificare quali).
“Sappiamo, scrive, in effetti che le religioni possono compiere il meglio e il peggio, porsi al servizio di un progetto di santità o di alienazione, predicare la pace o la guerra”. Qui c’è già qualcosa da distinguere e da precisare. Le religioni, al plurale, possono porsi al servizio di un progetto di santità? Ma cosa può significare questo?
Certo “la Chiesa considera tutto ciò che di buono e di vero si trova nelle religioni come una preparazione al Vangelo” (CCC, 843). Ma se le altre religioni costituissero, in quanto tali, un cammino di santità, a cosa servirebbe la Chiesa cattolica fondata sopra il sangue di Cristo? Certo, che ogni verità viene, in qualche modo, dallo Spirito Santo era già noto a san Tommaso il quale non ricusò di usare le verità intuite dai pagani Aristotele, Platone, Cicerone e dagli stessi autori medioevali arabi ed ebrei.
Ma come insegna il secolare Magistero della Chiesa, nelle altre religioni però non manca mai l’errore, il dubbio, il peccato, il limite e l’inganno. Se questo non è più vero bisogna riscrivere vari brani del Concilio (cf. LG 16), del Catechismo e cancellare di netto la Dichiarazione Dominus Jesus pubblicata il 6 agosto del 2000 sotto l’autorità congiunta di GPII e del card. Ratzinger. Questa Dichiarazione era stata scritta proprio per confutare una serie di errori teologici che minavano la certezza della fede e la necessità della missione.
“Il perenne annuncio missionario della Chiesa viene oggi messo in pericolo da teorie di tipo relativistico, che intendono giustificare il pluralismo religioso, non solo de facto ma anche de iure (o di principio)” (n. 4).
Potrà mai darsi che un cardinale, che è per di più la massima autorità cattolica in materia di ecumenismo contravvenga a quanto già sancito, definitivamente, dalla Sede Apostolica? Lo valuti serenamente il lettore da quanto riportato.
Secondo Tauran “non esistono oggi conflitti religiosi”, ovvero non sarebbero le religioni ad essere in guerra ma i loro seguaci. Le religioni però senza i seguaci neppure esisterebbero… E poi, se anche i seguaci di tutte le religioni fossero imbelli, pacifisti e relativisti, come si desidera da più parti, resterebbe di fondo lo scontro tra visioni del mondo e dell’uomo incompatibili e auto-escludentisi. Come conciliare per esempio la morale cattolica con quella sopra vista dei valdesi? Come evitare lo scontro e la contrapposizione tra chi ritiene l’aborto un delitto e chi lo ritiene un diritto, come molte religioni del mondo?
Addirittura per evitare lo scontro religioso (mentre oggi la violenza terroristica si pratica su larga scala solo in nome di una religione…) il porporato invoca lo Stato laico il quale “non riconosce alcuna confessione per conoscerle tutte”…  O forse per cancellarle tutte in nome del progresso, della scienza e del nichilismo valoriale?
Quindi l’affondo che sa di eresia: “Tutte le religioni [si badi bene: tutte!] difendono la vita e la dignità della persona umana, sono consapevoli della dignità della famiglia, sanno riunire le persone più diverse, promuovono la fraternità e l’aiuto reciproco”…
Ma se così fosse tutte le religioni non cristiane sarebbero immuni da quegli errori che invece la Dominus Jesus, con il Magistero perenne della Chiesa, riconosce in esse.
Ma se si pensa quello che si scrive perché fare tante storie quando poi si nota che oggi si vive nel supermarket delle religioni in cui ognuno prende ciò che gli garba di più? Proprio in forza di ciò che insegna il Tauran milioni di cattolici nel mondo sono diventati negli ultimi decenni buddisti, mussulmani, evangelici, testimoni di Geova, avventisti, etc.
La Dominus Jesus, citando il Concilio, diceva ben altro. “Innanzitutto, deve essere fermamente creduto che la «Chiesa pellegrinante è necessaria alla salvezza. Infatti solo Cristo è il mediatore e la via della salvezza; ed egli si rende presente a noi nel suo Corpo che è la Chiesa. Ora Cristo, sottolineando a parole esplicite la necessità della fede e del battesimo (cf. Mc 16,16; Gv 3,5), ha insieme confermato la necessità della Chiesa, nella quale gli uomini entrano per il battesimo come per una porta». Questa dottrina non va contrapposta alla volontà salvifica universale di Dio (cf. 1 Tm 2,4); perciò «è necessario tener congiunte queste due verità , cioè la reale possibilità della salvezza in Cristo per tutti gli uomini e la necessità della Chiesa in ordine a tale salvezza»” (20).
Se è vero che i seguaci delle altre religioni possono ricevere la grazia divina, è pure certo che oggettivamente si trovano in una situazione gravemente deficitaria se paragonata a quella di coloro che, nella Chiesa, hanno la pienezza dei mezzi salvifici” (22).
Questi due punti sono negati, in modo forse implicito ma non troppo, dall’idea che emerge dalla relazione del cardinale secondo cui tutte le religioni sono cammini di salvezza e portatrici di pace e benessere.
Gli errori, le eresie, le assurdità, le menzogne presenti nelle principali religioni del mondo (dalla poligamia islamica alla negazione della divinità di Cristo e al politesimo, dall’ateismo pratico del buddismo all’amoralità presente più o meno in tutte le spiritualità d’Oriente, fino al sacerdozio femminile e al sola scriptura degli eredi della Riforma) oltre a costituire un ostacolo alla salvezza per i loro membri sono altresì dei grandissimi attentati alla pace, alla serenità, alla famiglia e alla stessa civiltà umana come tale.
Concludeva la Dominus Jesus scrivendo: “La presente Dichiarazione, nel riproporre e chiarire alcune verità di fede, ha inteso seguire l'esempio dell'Apostolo Paolo ai fedeli di Corinto: «Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto» (1 Cor 15,3). Di fronte ad alcune proposte problematiche o anche erronee, la riflessione teologica è chiamata a riconfermare la fede della Chiesa e a dare ragione della sua speranza in modo convincente ed efficace. I Padri del Concilio Vaticano II, trattando il tema della vera religione, affermarono: «Noi crediamo che questa unica vera religione sussiste nella Chiesa cattolica e apostolica, alla quale il Signore Gesù ha affidato il compito di diffonderla tra tutti gli uomini, dicendo agli apostoli: “Andate dunque, ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28,19-20). E tutti quanti gli uomini sono tenuti a cercare la verità , specialmente in ciò che riguarda Dio e la sua Chiesa e, una volta conosciuta, ad abbracciarla e custodirla” (23).

La fede cattolica, ben illustrata dalla Dominus Jesus, e la stessa ragione umana ci dicono di opporci ad un relativismo di tipo religioso che appare sempre più come l’altra faccia dell’ateismo e del laicismo.