di Giuliano Guzzo
Per indagare il tema della laicità è d’obbligo una rigorosa
distinzione di concetti che spesso il pressapochismo giornalistico tende
ad interscambiare. La laicità è un impasto semantico complesso,
sfuggente e polisenso, al punto che non di rado gli stessi studiosi
la assimilano alle nozioni di pluralismo, relativismo, sincretismo, pur
non essendo, la laicità, sinonimo di nessuno di questi termini. Per
cominciare, sul piano dello Stato possiamo, in estrema sintesi,
riconoscere la laicità come quella prestazione istituzionale mediante la
quale esso pratica e preserva la propria autonomia decisionale. Lo
Stato laico quindi è innanzitutto quello autonomo e indipendente.
Se pretendiamo però di accostare alla laicità dello Stato, aspetto
prettamente metodologico procedurale, un valore di contenuto, le carte
in gioco cambiano e il tutto si complica notevolmente. Se infatti
affermassimo lo Stato laico quale fabbrica autoreferenziale di Verità,
rischieremmo di rifarci all’interpretazione di Hegel secondo il quale lo
Stato deriva dallo Stato medesimo che ha in sé stesso la sua ragion
d’essere. Tale lettura, però, rigetta il modello democratico rivelandosi
quindi problematica e inapplicabile all’odierno panorama politico. In
questo senso, un più interessante contributo ci giunge invece da Ernst
Wolfang Böckenförde, il quale afferma che lo Stato liberale e
secolarizzato si nutre di premesse normative che però esso, da solo, non
può garantire.
Un’osservazione, questa, che trova ampio riscontro nel ripensamento
critico che da qualche anno il mondo occidentale va’ alimentando verso
sé stesso; un ripensamento che concerne i rapporti tra Stato liberale,
democrazia e religione. Come testimoniano anche le recenti rivalutazioni
della sfera religiosa ad opera di Jürgen Habermas, oggi le religioni
non vengono più considerate “oppio dei popoli”, bensì preziosi
“serbatoi” di senso che tanto incoerenti non sono con una sempre più
necessaria terapia di rinnovamento etico. Episodi come l’11 Settembre e
la guerra in Irak, e realtà come il multiculturalismo e le nuove
frontiere della scienza, hanno infatti spinto soprattutto l’Europa, che
dell’Occidente è il giardino culturale, a riflettere sulla propria
identità prendendo atto dei limiti politicamente maturati.
La suddetta riconsiderazione della religione ha scatenato il confuso
parlare di laicità in riferimento al quale abbiamo iniziato il nostro
discorso. Il pensiero laicista, che della laicità rivendica
accanitamente un profilo contenutistico, reputa non necessario e
deleterio questo importante ritorno spirituale, che sociologi come Josè
Casanova chiamano di “de-privatizzazione” della religione. Secondo il
fronte del laicismo, quindi, lo Stato è in grado di gestire senza
sussidio alcuno anche i più ostici dilemmi etici. In realtà questa
visione laicista, più che di amore per la laicità, è impregnata di
intolleranza. Anche l’etsi Deus non daretur che Gian Enrico Rusconi,
citando Huigh De Groot, ha suggerito come filtro laico dell’etica, cela
serie insidie.
Estromettere Dio dalla cosa pubblica per custodire immacolata
l’autonomia dello Stato è, libri di storia alla mano, una nota premessa
dittatoriale. Dostoevskij con la teoria di Ivan Karamazov ci ricorda che
“se Dio non c’è tutto è permesso”. Ma se tutto è permesso si nullifica
la forza della legge, mentre viene promulgata la legge del più forte il
che, in buona sostanza, significa appunto dittatura. Per scongiurare
questo rischio è necessario che il carattere egualitario del valore
della laicità venga ribadito senza la minima titubanza. La laicità,
culturalmente intesa, è piattaforma di confronto libero e condiviso:
aperto a tutti. Il malsano equivoco secondo il quale i depositari
esclusivi della laicità sarebbero i cittadini non credenti deve perciò
essere definitivamente esorcizzato, affinché la si smetta di ritenere il
laico credente un “vigilato speciale” deficiente di spirito critico.
Al contrario merita di essere riconosciuto l’importante ruolo di
roccaforte etica che la Chiesa assolve ormai da anni, precisamente da
quando, con la fine delle ideologie, sì è imposto quel pensiero debole
che per principio inorridisce davanti all’emissione di ogni giudizio che
non sia palesemente ambiguo o provvisorio. Stiamo ovviamente parlando
del relativismo culturale, corrente di pensiero fedele collega di quella
laicista nell’accanimento anticristiano. Tuttavia, a differenza dei
laicisti, che, seppur ideologicamente, rivendicano una loro verità, i
relativisti si spingono oltre, fino a professare un contestualismo a dir
poco esasperato. Ogni etica, secondo costoro, è cioè uguale alle altre e
da ciò né deriva la verità che non esiste nessuna verità, se non in
termini relativizzati. Le contraddizioni di questa corrente di pensiero
sono però molteplici.
Innanzitutto parlare di assenza di verità come unica verità
significa, di fatto, sacrificare il relativismo stesso per una dottrina
dogmatica. In secondo luogo, affermare che tutte le religioni e le
etiche da esse partorite sono eguali è palesemente falso. Se tutte le
religioni fossero davvero uguali, il dialogo ecumenico non sarebbe
possibile né sensato giacché vi sarebbe uno scambio di contenuti
identici. Risalta dunque come, se da una parte il laicismo soffre di
miopia ideologica, il relativismo è una vera e propria contraddizione in
termini. Persino il filosofo francese Jacques Derrida, dopo essersi
impegnato in appassionate elucubrazioni atte a palesare la non
universalità di concetti portanti dell’Occidente, messo alle
strette, lascia indirettamente capire come anche il suo relativismo
decostruttivista è, alla fine dei conti, una scelta di valore e perciò
contestabile con le medesime argomentazioni da lui brevettate.
Ne consegue, per dirla con Marcello Pera, che la de-costruzione dei
valori universali altro non è che “un divertente, tortuoso, gioco
dell’oca filosofico” fine a sé stesso. Viceversa la laicità, come
testimonia il vivissimo dibattito di questi mesi, dimostra di godere non
di buona ma di ottima salute. Il pericolo non è mai nelle polemiche,
nemmeno nelle più arroventate. Ma quando inizia a circolare il proposito
di imbavagliare la Chiesa o i cattolici, vale a dire importanti
interlocutori del dibattito, il dubbio che la laicità sia nel mirino di
qualche ideologia intollerante dovrebbe venirci. Credere nella laicità
non significa stabilire quali siano i laici provetti e quali i difettosi
da censurare, bensì garantire a ciascuno il diritto di opinione. Anche
quando queste opinioni risultano scomode, perché dicono – o ambiscono a
dire – la verità.
PS. Scrissi questo articolo sei, sette anni fa ma ho inteso
ripubblicarlo perché credo che i contenuti, alla luce del dibattito di
questi giorni, siano più che mai attuali.
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