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03 ottobre 2017

Ritornare all'ortodossia occidentale - Il nuovo eroe, il suo scudo, la sua battaglia


(INDAGINE FRA SOCRATE ED EVAGRIO PONTICO)

«Il prigioniero dei barbari è legato con catene e 
la tristezza lega colui che è prigioniero delle passioni».
(Evagrio Pontico)

di Matteo Donadoni

Ho avuto l’occasione di ascoltare la predica di una brava persona, che però purtroppo è anche un sacerdote modernista. Nell’omelia in questione il sacerdote parlava del sacramento della Cresima o Confermazione ridacchiando, bontà sua, sul fatto che “una volta si diceva ai cresimandi che sarebbero diventati soldati di Cristo, oggi non più”. Ora, a parte che non è vero, se fosse vero, come potremmo combattere se non fossimo soldati? Come potremmo combattere contro il male, contro il “Demonio alfiere della putredine”, contro i vizi e le tentazioni di questo mondo? Ci sta dicendo che saremmo dei ridicoli pupi in cappa rosa? Il resto dell’omelia, per la verità, non era malvagio, ma perché rovinare tutto con un’affermazione gratuita compiacente il mondo,  davanti alla maestà di Dio che l’ha creato il mondo? Dio è immenso, non ci sono in Lui mezze verità. Si comincia con le omissioni delle verità, poi coll’annacquarle, e subito ci si ritrova a squadernare sette eresie. Non è questo il caso specifico, ma non sono il solo a cui pare che oggi ogni lingua blasfema sia sciolta da ogni ritegno, e gli orecchi dei cristiani siano costretti obtorto collo a sentire il Male bene, più che la Buona Novella. Non c’è da stupirsi che molti di noi comincino ad evitare certe chiese, ritenendole nulla di più che ritrovi di vanesi se non scuole di empietà, e fuggano sui monti, nei deserti e nei deserti urbani, sollevando le mani al loro Signore in cielo, fra sospiri e lacrime amare. Più che soldati ormai siamo diventati, cavalieri erranti, hidalgo senza sovrano, ronin cattolici.
Io, in attesa che qualcuno spieghi finalmente la correlazione evidente fra ateismo incipiente e inurbamento, vorrei far notare che chi abita gli spazi aperti non può non essere sicuro dell’onnipotenza divina ad ogni fenomeno meteorologico. È l’orizzonte, che confina con Dio, a parlargliene dorato ogni alba ed ogni tramonto, passione del giorno. Chi dalla finestra vede una parete di calcestruzzo armato cresce teologicamente handicappato, forse è per questo che le città sono state le prime a cadere nel relativismo. È proprio vero che si impara di più dai video di “Primitive Technology” che in un intero corso di ingegneria edile. La metropoli moderna, corpo avvolto nella grassa guaina dei vizi, arranca e i suoi figli gemono, privi di auto dominio, spesso privati dei sacramenti e della dottrina autentica, che sono le vere armi contro il vizio, malattia dell’anima, che porta al peccato, morte dell’anima.
Non possiamo risultare vittoriosi nell’agone cristiano, se ci inducono ad essere imbelli, lavandoci il cervello con la lisciva del pacifismo ideologico. Purtroppo però sembra che si debba ricominciare da capo, recuperare la fierezza di civiltà occidentale e l’orgoglio di essere figli di Dio e non povere animule sbatacchiate da ogni soffio di vento maligno.
Il punto di partenza potrebbe essere la ricerca dell’autodominio, che è necessario per costruire la virtù. Gli antichi filosofi lo chiamavano “egktràteia”. L’egkràteia, la padronanza di sé,  è un concetto basilare della filosofia greca, che ha diverse attinenze con l’ascetica cristiana, essa è una dote essenziale in Platone ad esempio Fedro 256B: «Dunque, se vincono le parti più elevate dell’anima e conducono ad una vita ordinata e alla filosofia, costoro trascorrono la vita di quaggiù in modo felice e in armonia, perché hanno il dominio di sé e sono moderati, avendo sottomesso ciò da cui deriva nell’anima il male e liberato ciò da cui deriva la virtù. E giunti al termine della vita, ridivenuti alati e leggeri, hanno vinto una delle tre gare che sono veramente olimpiche, che costituisce un bene rispetto al quale né l’umana temperanza né la divina mania ne possono offrire uno maggiore».
Ne parla ovviamente anche Aristotele (ex gr. Ethica Magna II 6, 1203b) nonché gli Stoici. Così lo spiega lo Jaeger:
«Il concetto di “auto dominio” è divenuto per opera di Socrate un motivo centrale del nostro mondo etico. Esso postula che l’agire morale sia concepito come nascente nell’intimo dell’individuo, e non solo come la sottomissione esteriore alla legge, secondo il concetto allora dominante di giustizia. [...] La parola deriva dall’aggettivo ἐγκρατής, che indica colui che ha potere o diritto di disporre su qualche cosa. [...] La “enkràteia” non è una particolare virtù, ma come bene dice Senofonte, “il fondamento di tutte le virtù”, poiché essa significa ragione emancipata dalla tirannide della natura della natura animale dell’uomo, e la legittima signoria dello spirito sugli istinti». Il controllo delle passioni in termini cristiani si chiama umiltà: l’umiltà è il fondamento di tutte le virtù.
Coerentemente col ragionamento, possiamo dire che la pratica delle virtù etiche sia frutto dell’enkrateia e, allo stesso tempo necessaria ad essa, in modo continuato: non si è virtuosi senza auto dominio, non c’è auto dominio senza virtù. L’auto dominio, in sostanza, significa rendere l’anima signora del corpo e degli istinti legati ad esso. Nel pensiero cattolico e cioè aristotelico-tomista la passione è un moto, un movimento, perché l’anima, quando le si presenta davanti un bene o un male, in qualche modo reagisce (sentire est quoddam pati, diceva ancora Aristotele: cioè la sensazione produce un movimento, che l’anima “subisce”). E questo moto deve essere controllato, altrimenti è lo stesso moto di passione ad avere il sopravvento su di noi.
Infatti: «Nel principio socratico dell’auto dominio dell’uomo, è implicito un nuovo concetto della libertà. [...] Soltanto con Socrate la libertà si eleva a problema etico, che poi si sviluppa, con varia intensità, nelle diverse scuole socratiche. Non si giunge neanche ora, beninteso, a una critica radicale della divisione sociale degli abitanti di una polis in liberi e schiavi. Benché fondamentalmente non scossa, questa visione, però, perde il suo più profondo significato, in quanto il contrasto fra libero e schiavo è trasportato da Socrate su un piano diverso, il piano della interiorità morale. Conforme allo svolgimento, che abbiamo tracciato, dell’auto dominio come signoria della ragione sopra gli istinti, si forma ora un nuovo concetto: il concetto della libertà interiore. Esso esprime il contrapposto alla condizione di un uomo che è schiavo delle sue passioni» (W. Jaeger, Paideia, pp. 774 – 775, 777 passim. Cfr. Senofonte, Memorabili, I, 5).
Il vero uomo libero è colui che sa dominare i propri istinti, il vero uomo schiavo è colui che non sa dominare i propri istinti e diventa vittima di essi, fosse anche un cittadino o un sovrano.
Per cui l’aver bisogno di poco, caratteristica del sapiente antico, e poi del monaco cristiano, apre lo scenario per una nuova concezione di eroe: l’eroe umile che vince la buona battaglia, contro se stesso prima che contro il mistero del male. Socrate dimostrò certamente un’indiscutibile “enkrateia” nella sua vita, durante il processo e la condanna, ebbe l’autocontrollo perfino mentre beveva il veleno. Il più grande esempio di autocontrollo ovviamente è quello di Cristo. Il Salvatore mantenne sempre la calma nella sua vita terrena: fu calmo fra le folle, anche quando rovesciò i banchi dei venditori nel Tempio, ebbe autocontrollo di fronte al sinedrio, di fronte alle pretese e ai tradimenti degli apostoli, perfino di fronte ai propri carnefici fu eroicamente calmo nell’amorosa e libera accettazione e conformità al volere del Padre.
Ora, va da sé che le passioni non siano un male per se stesse, quindi non è vero che vadano estirpate, ma devono essere incanalate nella retta intenzione della vita cristiana (ad esempio la santa ira). Bisognerebbe leggere il “Pratico” di Evagrio Pontico (345 Ibora – 399 Egitto), infatti la vita attiva o “praktitkè” serve a purificare la parte appassionata dell’anima, nella lotta contro i “loghismoi”, pensieri cattivi instillati dai demoni preposti a tal compito. Se vogliamo essere bravi soldati dobbiamo per prima cosa vigilare sui “loghismòi” che ci frullano nella testa e custodire la mente.
Socrate dunque non ci basta, siamo cristiani. Il nostro modello è Gesù Cristo, e coloro che per primi cercarono di conformarsi a Lui: i Padri del Deserto e i Padri della Chiesa.
Prendiamo allora ad esempio proprio Evagrio Pontico, uomo che si intende di donne e di Dio, o forse che ci conduce a Dio proprio perché ha amato le donne, un uomo tanto umano da essere ammalato di Dio. In ogni caso, una figura affascinante che sembra fatta apposta per noi poveri postmoderni. Uno dei primi scrittori di spiritualità ascetica, Evagrio, osservò da vicino i Padri del Deserto e divenne uno di loro, ebbe influenza su quel Giovanni Cassiano (360 circa – Marsiglia, 23 luglio 435), grazie al quale l’Occidente conobbe la spiritualità del deserto. Le sue opere vanno affrontate con occhio attento a non indugiare sulle derive gnostiche, la gnosi è, per chi cerca Dio, sempre un tranello sotto il prossimo scalino. Alcuni pensieri in alcune sue opere furono condannati al concilio di Costantinopoli II nel 553 , ma, nonostante la condanna, Evagrio è venerato ancora oggi in tutto l'Oriente cristiano come un padre della vita monastica e un teologo di primo piano. È l’ispiratore dell'esicasmo, che insieme al rosario quotidiano deve diventare un habitus di noi ronin. Procuratevi un komboloi. I più coraggiosi un komboskini (o chotki) per i 150 salmi.
Dobbiamo inoltre scacciare l’idea che l’apatia di Evagrio faccia rinascere l’eresia pagana, la concezione cristiana di imperturbabilità non è la soppressione del concupiscibile, perché le passioni non sono né buone né cattive, sono parte della vita umana, si tratta però di fare in modo che rimangano all’interno del proprio alveo. Evagrio riconosce la tripartizione platonica dell’anima: il “loghistikòn” la parte razionale, “thymikòn” l’irascibile e lo “epithymetikòn” il concupiscibile, ma le passioni corporali sono legate all’accidente e alla materia, bisogna solamente condurle ad agire conformemente alla propria natura. La natura dell’anima dell’uomo, invece, è di desiderare la virtù. Quindi dobbiamo desiderare la virtù, ma anche la grazia necessaria per raggiungerla. I consigli di questo padre del deserto sono rivolti ai monaci, ma non è detto che oggi non ne possiamo trarre profitto anche noi raminghi moderni.

Ecco una selezione tratta dall’«Antirrhetikos» – Gli otto spiriti malvagi.
«Lo scudo è la sicurezza del soldato e le mura lo sono della città: più sicura di entrambi è per il monaco l’apàtheia»: la tristezza – in seguito accorpata all’accidia – non può prevalere sull’apàtheia perché colui che domina le passioni non cede alla tristezza.
«La presenza di una passione è dimostrata dalla tristezza». Infatti «colui che ama il mondo sarà molto afflitto, mentre coloro che disprezzano ciò che vi è in esso saranno allietati per sempre». «La tristezza per le cose del mondo sminuisce l’intelletto».
«In assenza delle passioni la tristezza non ha forza»: la tristezza deriva dall’insuccesso del desiderio vinto. «La tristezza è un impedimento per ogni bene».
«Il temperante non è rattristato dalla penuria di cibo, né il mansueto che tralascia la vendetta, né l’umile se è privato dell’onore degli uomini, né il generoso quando incorre in una perdita finanziaria».
«Il monaco avaro lavora duramente, mentre quello che non possiede nulla usa il tempo per la preghiera e la lettura»: contro il carattere redentore del libero lavoro che è di filosofia calvinista. «È infatti assai meglio starsene a casa passando il tempo a pregare piuttosto che compiere l’opera del nemico credendo di onorare le feste».
«L’acedia è una debolezza dell’anima che insorge quando non si vive secondo natura né si fronteggia nobilmente la tentazione. Infatti la tentazione è per un’anima nobile ciò che è il cibo per un corpo vigoroso»: pare che le tentazioni vinte consolidino la fermezza dell’anima come il vento del nord i germogli degli alberi.
La vanagloria è come l’edera «si origina dalle virtù e non si allontana finché non avrà reciso la loro forza».
«Una colonna poggia su una base e la passione della lussuria ha fondamento nella sazietà».
«L’anima del saggio cerca la solitudine».
«Solo quando il ricordo della donna affiorerà in te privo di passione, allora ritieniti giunto ai confini della saggezza»: perché «Germina l’intemperanza bazzicando le femmine», ma«La vista delle donne eccita l’intemperante, mentre spinge il saggio a glorificare Dio».
«La superbia è un tumore dell’anima» e «Si ammala di superbia l’apostata di Dio», così finisce che«L’anima del superbo è abbandonata da Dio» e «Ora superbo, tra poco verme», perché la verità è che «Nulla possiedi che tu non abbia ricevuto da Dio», infatti il monaco superbo è come un albero senza radici.
Stiamo attenti a restare saldi nelle nostre radici!


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06 gennaio 2013

Un campari - vodka con... Aleksandr Dugin


a cura di Andrea Virga

Aleksandr Gel’evic Dugin (nato a Mosca nel 1962) è poco conosciuto in Italia, al di fuori di alcuni ambiti politici e di studio, ma si tratta di uno tra i più influenti filosofi russi contemporanei. È stato negli ultimi vent’anni il principale esponente intellettuale del nazionalbolscevismo e del neo-eurasiatismo, ma le sue teorie geopolitiche e filosofiche hanno trovato accoglienza anche presso le classi dirigenti dei Paesi ex-sovietici. Dopo aver insegnato all’Università di Stato di Mosca, è stato chiamato alla nuova Università Nazionale del Kazakistan, voluta dal Presidente Nursultan Nazarbaev nella nuova capitale di Astana e intitolata al filosofo eurasiatista Lev Gumilëv.

Prima di tutto, siccome il nostro blog è intitolato a De Maistre, volevo chiederle quale sia stata e se ci sia stata un’influenza di De Maistre sulla cultura russa, considerando anche che ha vissuto per diversi anni a San Pietroburgo.

È interessante notare come De Maistre fosse tradizionalista e conservatore, mentre il suo discepolo russo Pëtr Chaadaev fu occidentalista, liberale e fra i nemici principali degli Slavofili. Questo è molto interessante. Quali sono le ragioni per cui un controrivoluzionario come De Maistre ha potuto essere maestro dell’autore che era (ed è) considerato nella tradizione russa come l’esponente più conosciuto e radicale del liberalismo russofobo, un partigiano della modernizzazione e del progresso? Si tratta di una differenza di prospettive: De Maistre era un conservatore cattolico, un reazionario europeo; la Russia possiede invece una propria struttura sociale, dove l’occidentalismo non è accettabile né nella forma progressista, liberale, aperta, né nella forma reazionaria e conservatrice.

Può spiegare meglio questa reazione della Russia verso l’Europa?

La civiltà europea e la civiltà russa sono due civiltà diverse. E questa è l’unica ragione per cui il discepolo del reazionario era divenuto, tra i Russi, un progressista. Perché l’Europa, quando vuole entrare in dialogo con la Russia o con la società russa, è sempre universalista ed eurocentrica, sia dalla parte conservatrice che dalla parte progressista. Tratta la Russia nella maniera europea, presentandola come un Paese europeo, ma la Russia, come slavofili ed eurasiatisti affermavano, non è un Paese europeo, è una civiltà particolare, la civiltà eurasiatica. Se proprio vogliamo chiamarla Europa, è un’altra Europa, greco-bizantina e ortodossa, e, secondo gli eurasiatisti, non comprende solo l’Europa orientale ortodossa e slava, ma anche l’Asia turca e turanica.

Quindi il problema di De Maistre sta nel suo essere comunque un pensatore europeo?

Tutto questo spiega perché, in Russia, De Maistre non ha lasciato che quasi nessuna traccia. Non è considerato un personaggio importante nella nostra storia. Viveva a San Pietroburgo, era un cattolico reazionario, ma tutti i cattolici sono progressisti per noi, perché non sono ortodossi. L’identità russa ortodossa era basata e ancora oggi si basa su una certa distanza con il cattolicesimo, progressista, tradizionale o reazionario che sia. Questo è considerato come occidentalizzazione, modernizzazione ed europeizzazione della cultura russa.

Qual è invece il suo giudizio personale sulla figura di Joseph de Maistre?

Questo è un aspetto paradossale, ma personalmente, come guénoniano, io considero De Maistre come un personaggio molto positivo e molto interessante nel contesto occidentale ed europeo. C’è un progetto di organizzare una conferenza tradizionalista, “Le serate di San Pietroburgo”, in onore di De Maistre, invitando tradizionalisti e conservatori di Paesi diversi, europei ed asiatici, e anche autori conservatori russi, per ripensare la tradizione conservatrice in generale. Ma queste due cose sono diverse: un conto è il nostro interesse tradizionalista evoliano-guénoniano per un autore conservatore e reazionario, un altro è la tradizione culturale russa che è piuttosto indifferente di fronte a De Maistre, che in più ha l’aspetto negativo di essere stato maestro di Chaadaev, che per noi è una figura antislavofila, antipatriottica e antirussa. Chaadaev era come Trotzky, e il suo maestro non può essere molto bravo, in un certo senso. Ma per noi il personaggio di Joseph de Maistre è molto interessante e molto importante.
 

02 novembre 2012

Tradizione e ortodossie: qualche spunto


di Andrea Virga
Si è svolto venerdì scorso, a Torino, il convegno “Tradizione e ortodossie”, organizzato dall'associazione culturale e politica Millennium, nei locali del Centro Culturale Italo-Arabo Dar al-Hikma di Via Fiocchetto 15. La conferenza vera e propria, preceduta e seguita da momenti conviviali di confronto e discussione tra gli intervenuti, ha visto la presenza di relatori di fama internazionale, ed è stata moderata da Alberto Lodi, dell’Università di Pavia. C’è stata una discreta partecipazione di pubblico, specie da parte dei membri della Comunità Religiosa Islamica.