di Federico Catani
Nella Chiesa si è
imposta una neolingua di stampo orwelliano. Il processo va
avanti da tempo, ma negli ultimi anni ha avuto un’accelerazione impressionante.
I due Sinodi sulla famiglia (del 2014 e 2015) lo hanno in qualche modo
solidificato. Nel romanzo 1984,
George Orwell spiega che la neolingua era la lingua ufficiale imposta dal
Grande Fratello per sostituire la vecchia visione del mondo, le vecchie abitudini
mentali e, soprattutto, per rendere impossibile ogni altra forma di pensiero
che non fosse quella imposta dal Grande Fratello stesso e dal suo Partito
unico, il Socing.
Ebbene, mutatis mutandis, sembra essere proprio quello che sta accadendo nella
Chiesa. L’Associazione “Tradizione,
Famiglia e Proprietà” (TFP) ha dato alle stampe un agile volumetto, “Una
rivoluzione pastorale. Sei parole talismaniche nel dibattito sinodale sulla
famiglia”, scritto dallo studioso Guido Vignelli e con la prefazione di
mons. Athanasius Schneider, vescovo ausiliare di Astana (Kazakhstan). Il
testo aiuta il lettore a orientarsi nel nuovo linguaggio utilizzato dai
documenti ecclesiali usciti dai due Sinodi. Pur essendo stato ultimato prima
della pubblicazione di Amoris laetitia,
l’esortazione apostolica di Papa Francesco rientra a pieno titolo nella
disamina fatta da Vignelli.
In
sintesi, come nota l’autore, “questo
linguaggio veicola una nuova pastorale che favorisce un cambiamento di
mentalità e di sensibilità tale da insinuare una nuova teologia”. Non è una
novità. Già san Pio X, nel 1907,
affermava che “i modernisti involgono i
loro errori in certe parole ambigue e in certe formule nebulose, allo scopo di
prendere gli incauti nei loro lacci, ma tenendosi sempre aperta una via di
scampo per non subire un’aperta condanna”. La tecnica – che Vignelli
riassume in appendice – è quella del “trasbordo
ideologico inavvertito”, concetto coniato dal pensatore brasiliano Plinio Corrêa
de Oliveira, fondatore della TFP. In pratica, il ricorso a parole cosiddette ‘talismaniche’ serve per trasbordare i
fedeli da una posizione vera ad una falsa. Ed il passaggio è, per l’appunto,
inavvertito, indolore. La tattica è di evitare l’affermazione di errori
espliciti, ricorrendo piuttosto a “parole ambigue e scivolose che, pur avendo una origine cristiana, sono
state sequestrate e strumentalizzate da una cultura anticristiana per
diffonderle negli ambienti cattolici al fine d’inquinarli e disporli al
cedimento e alla resa al nemico”. Insomma, si definiscono tali parole
‘talismaniche’ perché, “pur sembrando
banali e innocue, nel linguaggio in cui vengono usate esse possono esercitare una pericolosa influenza che tende a
manipolare la mentalità di chi le usa mediante una tecnica implicita di
persuasione psicologica”.
Tra
quelle più citate nel dibattito sinodale
e maggiormente in voga ai giorni nostri, Guido Vignelli ne ha individuate
sei.
Inizia
con il termine ‘pastorale’. Quante
volte abbiamo sentito ripetere che la dottrina non cambia ma va invece adeguata
la pastorale? Ebbene, la pastorale dovrebbe essere la modalità con cui i
pastori della Chiesa guidano le anime verso la salvezza eterna. Se ne deduce
che la prassi pastorale non può mai essere disgiunta dalla verità dottrinale:
sono due facce della stessa medaglia. Da anni, però – e i Sinodi ne sono stati la
prova -, si ricorre al termine pastorale per far sì che cambi la dottrina. Con
la scusa dei tempi che cambiano e delle nuove esigenze e situazioni dei fedeli,
si finisce per mettere in soffitta la legge di Dio e la Sacra Scrittura. E
infatti si parla di “conversione
pastorale” della Chiesa, in modo che “dogmatica,
morale, diritto e liturgia si adeguino alle esigenze dell’uomo moderno”, e
non il contrario, come invece dovrebbe essere.
C’è
poi la parola ‘misericordia’. La
Chiesa ne ha sempre parlato e l’ha sempre vissuta. In due millenni i preti
hanno sempre confessato e assolto miliardi di fedeli. Eppure sembra sia una
scoperta di qualche anno fa… Il problema è che oggi per misericordia si intende
perdono a buon mercato: tutti si salvano e tutti sono perdonati, senza bisogno
di alcun pentimento. Ma questo è un vero e proprio stravolgimento della verità.
Anzi, una bestemmia che porta le anime alla dannazione.
Veniamo
poi al termine ‘ascolto’. Si dice
che la Chiesa deve porsi in ascolto, più che insegnare, arrivando persino a
mettere in dubbio “certezze ritenute
indiscutibili e sicurezze ritenute irrinunciabili”. Ne deriva che, “per la pastorale dell’ascolto, l’importante
non è più che l’uomo sia in sintonia con la volontà divina, bensì solo l’essere
sinceri, in pace con sé stessi e con gli altri; l’esserlo con Dio ne sarebbe
un’automatica conseguenza”. In tal modo – lo abbiamo visto con i questionari
somministrati in maniera assai discutibile prima dei Sinodi – la Chiesa si
appiattisce sulla sociologia, pensando che la sua missione sia solo “fornire un vago servizio all’umanità”.
E
cosa dire del ‘discernimento’? Tale
parola indica lo strumento per analizzare le situazioni problematiche. Perciò, diventa
vietato esprimere giudizi e chi non si adegua a questa nuova strategia
pastorale viene severamente redarguito ed emarginato. Discernimento significa
quindi ascoltare il diverso e valorizzare la sua diversità, perché bisogna
tener conto della complessità delle situazioni. Ecco allora che “la complessità diventa un pretesto per
eludere il problema ed evitarne la cura risolutiva ma spiacevole”. Nella pastorale di oggi evidentemente non
c’è più spazio per il sacrificio e la croce. Si giunge così al concetto di famiglie e persone ‘ferite’: in tal
modo “la situazione viene scusata o
addirittura giustificata come se fosse insuperabile, mentre chi si ostina a
rimproverarla viene accusato di mancare di misericordia”. Ciò che conta
sono le “relazioni affettive di qualità”,
ovvero quelle in cui ci si impegna a vivere “una unione autentica e stabile che comporti il reciproco aiuto
materiale e morale”. Non c’è da stupirsi pertanto se non si usano più i termini ‘immorale’ o ‘irregolare’ per i conviventi more uxorio o per le coppie omosessuali:
di fatto si passa dalla tolleranza del male alla sua piena accettazione. Il
tutto in nome della dolcezza, del dialogo, della misericordia e
dell’accompagnamento.
Già,
‘accompagnamento’ è un’altra parola
talismanica. Non si tratta più di accompagnare il peccatore alla conversione,
perché “ogni via, per quanto pericolosa,
purché sia scelta liberamente dall’uomo, conduce comunque alla meta della
salvezza”. Questo discorso vale pure per la società. Abbandonato l’obiettivo
di costruire la civiltà cristiana, la Chiesa “deve accompagnare i processi culturali, seguirne l’evoluzione storica,
incoraggiarne l’ammodernamento in senso pluralistico, senza pretendere
d’imporle un modello storicamente sorpassato”. In buona sostanza, deve
favorire un mondo non tanto scristianizzato, quanto piuttosto – e lo vediamo
ogni giorno – anti-cristiano. Deve
sposare dunque una strategia suicidaria.
Infine,
l’ultimo termine preso in esame da Vignelli è ‘integrazione’. Molti sostengono che la comunione con la Chiesa e
con Dio può essere solo parziale. Pertanto, occorre accogliere le diversità, abbattere mura, gettare ponti, superare le discriminazioni
attraverso l’inclusione. Pretendendo però di integrare nella Chiesa quanti
per ragioni oggettive non possono essere assimilabili, si favorisce la
disintegrazione. Ovvero la dissoluzione:
altra scelta suicida.
Ebbene,
chi ama non vuole la morte dell’amato e non lo porterà certo ad uccidersi. Lo
stesso vale per la Chiesa. Se i pastori preposti a guidarla e custodirla
adottano rivoluzioni pastorali e dottrinali - ben celate dietro parole ambigue
- volte a danneggiare il Corpo Mistico di Cristo, le possibilità sono due: o sono degli ingenui, e allora per
ovvie ragioni dovrebbero essere privati di ogni incarico, oppure sono in mala fede e al servizio di qualcun altro (“non si
possono servire due padroni”, dice Gesù nel Vangelo). Grazie a Dio, sappiamo
però con certezza che “portae inferi non
prevalebunt”!
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Chi
fosse interessato ad avere una copia del libro può scrivere a info@atfp.it o telefonare al numero 068-417603
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