di
Fabio Petrucci
L’esito
delle elezioni generali turche ha sancito un netto successo per il
duo Erdoğan-Davutoğlu ed il loro partito governativo, AKP. In un
clima di esasperazione e violenza giunto ad altissimi livelli, le
ragioni della vittoria di Erdoğan vanno ricercate principalmente nel
sentimento di paura dell’elettorato turco, angosciato dal rischio -
peraltro amplificato dalla propaganda dell’AKP - di una caduta del
paese nel caos. Tuttavia, se apparentemente la netta affermazione
dell’uomo forte di Ankara sembra aver scongiurato tale pericolo, in
realtà la possibilità che per costui il successo elettorale possa
rivelarsi solo una “vittoria di Pirro” non può essere scartata.
Infatti, l’ulteriore svolta verticistica che il presidente sembra
determinato a completare, unita alla fallimentare gestione della
politica estera nel Vicino Oriente a partire dalla stagione delle
“primavere arabe”, sono elementi potenzialmente in grado di
innescare una radicalizzazione dello scontro politico interno ed una
definitiva sconfitta della strategia “neo-ottomana” nello
scacchiere internazionale.
Per
Erdoğan le elezioni hanno rappresentato un importante banco di prova
dopo lo smacco del giugno scorso, quando per la prima volta dal 2002
l’AKP si era ritrovato senza maggioranza assoluta ed
impossibilitato a formare sia un governo di coalizione con la destra
nazionalista del MNP (braccio politico dei famigerati “lupi
grigi”) che un governo di larghe intese con i kemalisti laici
del CHP. La successiva esplosione di violenze ed attentati,
l’acutizzarsi della crisi curda ed il caos al confine con Siria ed
Iraq hanno reso ancora più incandescente la vigilia del voto. La
campagna propagandistica del duo Erdoğan-Davutoğlu, basata sulla
paura e su quella che più di un analista ha definito addirittura
“strategia della tensione”, ha avuto la meglio. L’AKP è
passato dal deludente 40,9% di giugno ad un ben più consistente
49,5% (in termini di seggi da 258 a 317). Al successo dell’AKP
hanno fatto da contraltare la staticità del risultato del CHP
kemalista, attestatosi ad una percentuale (25,3%) di poco superiore a
quella della precedente tornata elettorale, ed il tonfo dei
nazionalisti del MNP e del partito filo-curdo di sinistra HDP, vera
rivelazione delle elezioni di giugno, che ha peraltro denunciato
irregolarità nella fase del voto e dello spoglio.
L’impressione
è che la campagna elettorale di Erdoğan e Davutoğlu,
particolarmente incentrata sul nazionalismo e sull’esigenza di
restaurare l’ordine, abbia intercettato da un lato una parte
dell’elettorato storico dei “lupi grigi” (forse
addirittura due milioni di voti), mentre per altro verso sembra
persino riuscita a recuperare una parte del voto dei curdi di
tendenza conservatrice ed ostile al separatismo del PKK. Peraltro,
con questo risultato, Erdoğan potrebbe riuscire a portare a
compimento una riforma costituzionale volta ad accentrare
ulteriormente i poteri nelle mani del presidente. Una mossa
desiderata da anni, ma che si presta al rischio di tramutarsi in un
pericoloso boomerang, dal momento che la polarizzazione politica
nella società turca finirebbe per accentuarsi ed anche le già
difficili relazioni internazionali con gli alleati euro-atlantici
subirebbero un ulteriore deterioramento (con un regime sempre più
mediaticamente indifendibile dagli USA e dalle cancellerie europee).
Ma
probabilmente è proprio sul versante internazionale che Erdoğan si
gioca il suo futuro politico. Ed è su questo versante che la sua
strategia si è rivelata fino ad oggi fallimentare. Da circa cinque
anni la Turchia si trova invischiata nel caos generato della
rinnovata fitna che agita il mondo musulmano e che
vede contrapposti l'asse sciita composto da Iran, Siria, Iraq ed
Hezbollah libanese alla galassia sunnita di cui fanno parte le
petromonarchie dell'Arabia Saudita e del Qatar e la stessa Turchia.
All'epoca dell'esplosione delle "primavere arabe" Erdoğan
tentò di accreditare per il suo paese il ruolo di "protettore"
delle rivolte capeggiate dai Fratelli Musulmani nel Maghreb e nel
Vicino Oriente. Contestualmente al totale ridimensionamento di questi
ultimi in Egitto e Tunisia il presidente turco si è poi imbarcato in
una strana e momentanea alleanza con le petromonarchie wahabite, le
cui conseguenze hanno riguardato principalmente lo scenario siriano.
In Siria i turchi sono stati in prima linea, al fianco dei sauditi,
nel sostegno ai "ribelli" islamisti impegnati contro il
governo laico di Assad. Anzi non è nemmeno campata in aria l'idea
che la Turchia abbia volutamente fatto poco o nulla contro l'ISIS -
fino anche a favorirlo - al fine di abbattere il governo di Assad ed
indebolire i curdi della Siria settentrionale, circostanza che
rappresenta un grosso elemento d’imbarazzo per l’amministrazione
statunitense, dal momento che la Turchia è comunque uno dei paesi
militarmente e strategicamente più importanti della NATO.
Il
conflitto siriano è stato anche alla base del logoramento delle
relazioni russo-turche, sulle quali Erdogan aveva in precedenza
puntato come alternativa alla freddezza dimostrata dai tradizionali
alleati europei. Le tensioni tra i due paesi eurasiatici sono
ulteriormente aumentate dopo la discesa in campo dell’aviazione di
Mosca, impegnata ormai da un mese nei raid contro l’ISIS ed altre
formazioni jihadiste attive in Siria. Ciò ha condotto le autorità
turche a minacciare persino ritorsioni in campo economico, come
l’annullamento del progetto del gasdotto “Turkish Stream”,
esacerbando in tal modo i già difficili rapporti tra Mosca e Ankara.
Evidentemente, come ha affermato Kemal Kılıçdaroğlu, leader del
principale partito laico di opposizione a Erdoğan, il governo turco
non ha compreso l’importanza della Siria per la Russia. Ma del
resto il duo Erdoğan-Davutoğlu, in nome di un rinnovato
panturchismo, è riuscito persino ad inimicarsi la lontana Cina
mediante il sostegno al separatismo uiguro nello Xinjang. E, come già
anticipato, le cose non vanno meglio sul fronte occidentale, vista
l’insofferenza degli americani - consapevoli di non poter fare a
meno della Turchia ma preoccupati dall’autoritarismo di Erdoğan e
dalla sua nota ostilità ad Israele - e degli europei, che temono il
cinico ricatto turco rappresentato da milioni di profughi siriani che
dalla Turchia potrebbero essere spinti o costretti a partire per
l’Europa.
La
spregiudicatezza della politica estera turca è un fattore
innegabile, ma che già adesso sembra rivoltarsi contro la Turchia
stessa, anziché avvantaggiarla. La crisi dei rifugiati siriani,
l’ISIS al confine, il riacutizzarsi degli scontri con i curdi del
PKK e la diffidenza dei principali attori dello scacchiere globale
sono già di per sé un indice dei madornali errori di Erdoğan.
Resta da capire se il nuovo “sultano” turco avrà la capacità di
tornare al realismo o preferirà protrarre una politica di potenza
destinata al fallimento.
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