Il 15 gennaio la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha depositato l’attesa pronuncia su quattro ricorsi contro la Gran Bretagna, aventi a comune oggetto il
riferimento normativo agli artt. 9 e 14 della Convenzione Europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che
disciplinano rispettivamente la libertà di pensiero, coscienza e religione e il
divieto di ingiuste discriminazioni. Un altro elemento comune è che tutti i
ricorrenti sono Cristiani praticanti.
Le prime due applicants (una hostess presso la British Airways e un’infermiera) hanno incontrato notevoli difficoltà sul luogo di lavoro a causa della piccola croce-gioiello indossata al collo; gli altri due (rispettivamente, un’impiegata pubblica addetta ai registri dell’anagrafe e un consulente di un ente privato specializzato in counselling di coppia) si sono rifiutati – apertamente o velatamente – di interagire con coppie omosessuali, nel primo caso desiderose di stipulare una civil partnership alla stregua del diritto britannico, nel secondo in cerca di supporto per problematiche psico-sessuologiche. Seguono in tutti i casi, com’è facile intuire, intricate vicende di mobbing, conflitti con i colleghi e licenziamenti. Ma chi ha ragione? Prevale la libertà di pensiero e di manifestazione della propria appartenenza ad un credo religioso, o la laicità e la corporate image? E’ più discriminatorio ostacolare il lavoratore (e licenziarlo) per le sue convinzioni morali, o creare “colli di bottiglia” per le coppie omo nell’accesso a determinati servizi pubblici o privati?
Le prime due applicants (una hostess presso la British Airways e un’infermiera) hanno incontrato notevoli difficoltà sul luogo di lavoro a causa della piccola croce-gioiello indossata al collo; gli altri due (rispettivamente, un’impiegata pubblica addetta ai registri dell’anagrafe e un consulente di un ente privato specializzato in counselling di coppia) si sono rifiutati – apertamente o velatamente – di interagire con coppie omosessuali, nel primo caso desiderose di stipulare una civil partnership alla stregua del diritto britannico, nel secondo in cerca di supporto per problematiche psico-sessuologiche. Seguono in tutti i casi, com’è facile intuire, intricate vicende di mobbing, conflitti con i colleghi e licenziamenti. Ma chi ha ragione? Prevale la libertà di pensiero e di manifestazione della propria appartenenza ad un credo religioso, o la laicità e la corporate image? E’ più discriminatorio ostacolare il lavoratore (e licenziarlo) per le sue convinzioni morali, o creare “colli di bottiglia” per le coppie omo nell’accesso a determinati servizi pubblici o privati?
Spoileriamo
subito sulla soluzione di questi enigmi: mentre nella vicenda dell’infermiera
restano coinvolte esigenze di igiene e di sicurezza dei pazienti, che
suggeriscono di evitare ogni capo o accessorio che non faccia parte
dell’uniforme, nel caso dell’assistente di volo la CEDU ha riconosciuto come
sproporzionato e poco giustificato il dress code della compagnia aerea e
ha accolto il ricorso della donna. Meno fortunati i ricorrenti in materia gay-sensitive: in entrambi i casi,
infatti, la Corte ha ritenuto preponderante l’interesse (dell’ufficio pubblico o
della compagnia privata) a fornire un servizio a tutti, senza alcuna
discriminazione, neppure se dettata dal rispetto delle convinzioni religiose e
morali degli impiegati.
Guardando a questi
ultimi casi, riscontriamo una bella impasse.
Difficile infatti negare che il Regno Unito consenta positivamente la stipula
di civil partnership tra persone
omosessuali, e che si tratti di un “servizio” oggetto, direi, di un autentico
diritto in capo a chi si reca presso il pubblico ufficio; così come è difficile
che, all’atto dell’assunzione presso un’agenzia specializzata in problemi di
coppia, il lavoratore quantomeno non immagini che una certa percentuale di
lavoro verrà svolto a contatto con coppie composte da persone dello stesso
sesso. Difficile però anche ammettere che le convinzioni morali e religiose di
un individuo, tanto più se conformi al diritto naturale (che, ricordiamo, è
aconfessionale), possano essere conculcate in nome del servizio da erogare, al
punto da giustificare un licenziamento. Onestamente non saprei uscirne: credo
perciò che sia più proficuo traslare il problema su un altro piano, in parte
metagiuridico.
Il tema dell’obiezione
di coscienza è vasto e tutt’altro che scontato, nonostante la familiarità del
termine alle nostre orecchie (mi permetto perciò il rinvio ad un commento
autorevole e sintetico).
Il concetto chiave: fare obiezione di coscienza significa non ottemperare ad un
obbligo giuridico positivo, in virtù del suo conflitto con un obbligo extragiuridico
o pregiuridico, attinente alla sfera della morale e della coscienza personale.
Negli ultimi decenni
l’obiezione di coscienza è stata più volte attaccata, “da parte, segnatamente, di quelle aree culturali in tempi andati
sostenitrici dell’obiezione militare, ma ora pronte a tacciare di oscurantismo
le emergenti pretese di ampliamenti dell’obiezione di coscienza […] appellandosi a quelle esigenze di
neutralità etica dello Stato laico che esse, in verità, rinnegano”, come
scrive l’illustre penalista Prof. Mantovani. Ostilità significativa, perché è sintomo
dell’avversione che l’uomo postmoderno nutre per istanze etiche
sovraindividuali, non immanentistiche, che rimarchino l’appartenenza del
soggetto ad una comunità e minaccino l’uniformità di una società globalizzata e
atomistica, in cui ciascuno, massificato fin nei desideri, è una monade
perfettamente fungibile. Lungi infatti dal rappresentare l’esaltazione
relativistica delle personalissime opinioni, l’obiezione di coscienza – come ben
descritto dal Comitato Nazionale di Bioetica – ha radice nell’apertura
dell’individuo e non nel suo ripiegamento, nel suo riconoscersi in un set di valori che non è lui a creare, ma
che è già dato, potremmo dire “ricevuto”, e reso conoscibile: l’obiezione di
coscienza, insomma, si fonda sulla “fede” in una “rivelazione”, e forse è proprio questo
a renderla antipatica.
Seppur consacrata ad
opera del CNB in un recente documento (a suo tempo commentato dal nostro Alfredo De Matteo) che ne riconosce il rango costituzionale, l’obiezione di coscienza non riesce
insomma a suscitare le stesse passioni di altri diritti umani, magari più “politicamente
corretti” (pensiamo ai famigerati “diritti riproduttivi”), perché rappresenta
il tallone d’Achille di un ordinamento giuridico che si pretende perfettamente
laico e impermeabile a “pregiudizi”, come direbbero certi consiglieri di
Cassazione. Se la freccia del diritto naturale, trapassando la coscienza,
colpisce quel tallone, scricchiolano la cogenza e l’autorevolezza
dell’ordinamento statuale, e quest’ultimo cerca un’autodifesa coercitiva
sull’individuo, il quale sperimenta – amara sorpresa – il volto di una laicità in malam partem e a senso unico.
Eppure, è solo grazie alla legge morale naturale che l’ordinamento giuridico positivo può avere su di noi una qualche presa, non determinata dal mero timore di una sanzione, ed è solo se conforme alla legge naturale, che l’ordinamento può dirsi legittimo e non arbitrario (magnum latrocinium, parafrasando S. Agostino). Insegna il Catechismo (n. 1956 ss.) che la legge naturale è “presente nel cuore di ogni uomo”, è “universale nei suoi precetti e la sua autorità si estende a tutti gli uomini. Esprime la dignità della persona e pone la base dei suoi diritti e dei suoi doveri fondamentali”, “è immutabile e permane inalterata attraverso i mutamenti della storia; rimane sotto l'evolversi delle idee e dei costumi e ne sostiene il progresso”, “pone […] il fondamento morale indispensabile per edificare la comunità degli uomini” e “procura infine il fondamento necessario alla legge civile”.
Pubblicato il 18 gennaio 2013
Eppure, è solo grazie alla legge morale naturale che l’ordinamento giuridico positivo può avere su di noi una qualche presa, non determinata dal mero timore di una sanzione, ed è solo se conforme alla legge naturale, che l’ordinamento può dirsi legittimo e non arbitrario (magnum latrocinium, parafrasando S. Agostino). Insegna il Catechismo (n. 1956 ss.) che la legge naturale è “presente nel cuore di ogni uomo”, è “universale nei suoi precetti e la sua autorità si estende a tutti gli uomini. Esprime la dignità della persona e pone la base dei suoi diritti e dei suoi doveri fondamentali”, “è immutabile e permane inalterata attraverso i mutamenti della storia; rimane sotto l'evolversi delle idee e dei costumi e ne sostiene il progresso”, “pone […] il fondamento morale indispensabile per edificare la comunità degli uomini” e “procura infine il fondamento necessario alla legge civile”.
Senza legge naturale, insomma,
ogni azione politica e legislativa perde senso e legittimità, come non si
stanca di ripetere il nostro Santo Padre (ex
multis, qui); senza legge naturale, un ordinamento è
acefalo. E tra legge naturale e princìpi non negoziabili – tra cui la
libertà religiosa che anche la Convenzione Europea, formalmente, tutela – c’è
un continuum. Di cui, tuttavia,
Strasburgo fatica ad accorgersi.
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