
Difficile non ravvisare una provvidenziale convergenza tra i preparativi per il VII incontro mondiale delle Famiglie, che si terrà a Milano tra l’1 e il 3 giugno, e l’approdare alla Camera, il 21 maggio, del disegno di legge sul divorzio breve, cui viene soffiata via la polvere (la proposta è del 2006) per offrirlo ad una nuova discussione. La circostanza induce a pensare che a volte sia opportuno, più che sui “nemici” esterni alla famiglia, concentrarsi sulle crepe che s’aprono al suo interno per effetto della poco virtuosa interazione di numerosi fattori, ma soprattutto, della difficoltà di comprendere noi stessi e le nostre relazioni alla luce di una corretta antropologia.
Quando si discute di scelte di
valore (divorzio sì, divorzio no, e se sì, a quali condizioni) non è infatti ad
una sovrastruttura calata dall’alto che si fa appello, ma alla nostra
antropologia, al nostro descriverci e percepirci come esseri umani, come
persone, che scritte nel corpo e nell’anima recano le leggi del diritto
naturale. Fatta per dare e ricevere amore, la nostra natura aspira a dedicarvisi
“a tempo indeterminato” e a porre tale amore alla base di una progettualità volta
a realizzare la nostra felicità e destinata, tendenzialmente, a sopravviverci,
per esempio nei nostri figli.
Accantoniamo per un attimo la
riflessione, che pure a parere di chi scrive andrebbe compiuta, sugli effetti morali e sociali sortiti dalla
legge 898/1970, e assumiamo pure che in certe situazioni la cessazione degli
effetti del matrimonio sia un “desiderabile” male minore. Nessuno nega i
fallimenti, le disillusioni, gli “incidenti di percorso”, il fatto che in una
coppia le strade possano divergere e i caratteri diventare incompatibili. Eppure
c’è un impegno che rimane, solenne patto davanti alla società nel caso del
matrimonio civile, oppure promessa “trilaterale” con lo Spirito Santo nel caso
di matrimoni in forma canonica: ai fini del nostro discorso, che è di diritto
naturale, dunque aconfessionale, gli sposati civilmente e gli sposati in Chiesa
possono infatti essere assimilati.
Concentriamoci ora sul rimedio ultimamente
proposto, che a fronte di una crisi del rapporto reputata insanabile indurrebbe
una rapida e, in ipotesi, indolore eutanasia della relazione.
Davvero i tre anni di cooling down
richiesti dalla legge 898 costituiscono un raffinato sadismo legislativo,
inutile ad una riconciliazione o ad un accordo tra i coniugi, ma solo ad
esasperarne gli attriti, a scapito di tutti, specie dei figli? La cura per la conflittualità
su base economica, per gli iter
giudiziari lenti, per le iniquità talora realizzate dai provvedimenti dei
giudici, consiste nel ridurre ad un terzo il tempo necessario a recidere il
matrimonio? Il vulnus inferto alla famiglia
è più accettabile se sopraggiunge in dodici mesi?.
Perché disincentivare la
riflessione delle persone coinvolte, proprio quando ci si avvicina ad un passo
grave e probabilmente irreparabile?
Non v’è dubbio che i problemi
segnalati dai fautori del “divorzio breve” siano seri, scontino in buona parte
la situazione di cronico intasamento di cui soffre tutta la giustizia civile
italiana, e costituiscano altrettante croci, che può comprendere appieno solo
chi le ha vissute sulla propria pelle. Ma proprio tale consapevolezza dovrebbe
indurre ad agire direttamente alla radice della questione, ad ogni livello di
azione, dalla discussione parlamentare al colloquio con lo psicoterapeuta: dovremmo
essere spinti a valorizzare con forza il matrimonio, a sottolinearne
positivamente i presupposti di consapevolezza, di fiducia e di amore per la
verità, che devono sostenerla; dovrebbe avvertirsi con prepotenza il bisogno di
educare all’affettività autentica, quella che accoglie l’altro per renderlo
felice, per farsene responsabile e per responsabilizzarlo a propria volta,
rispettandone l’alterità, la dignità, il ruolo. Perché è a causa delle carenze
(anche educative) che si registrano in questi ambiti, che le coppie scoppiano e
alla scelta matura ed autentica di sposarsi si sostituisce un gemmare effimero
di convivenze fatte guardando al presente e non al futuro.
C’è poi chi preferisce ignorare
questi nodi fondamentali e cavalcare, strumentalizzando la sofferenza, un certo
sentimentalismo peloso pur di delegittimare quelle voci tenaci che affermano la bellezza della verità nell’amore
e nelle relazioni: “in una cultura del tutto provvisorio, l’introduzione di
istituti che per natura loro consacrino la precarietà affettiva, e a loro volta
contribuiscono a diffonderla, non sono un ausilio né alla stabilità dell’amore,
né alla società stessa”, secondo il limpido pensiero espresso dal Cardinal
Bagnasco in apertura dei lavori dell’Assemblea generale CEI.
Parole illuminanti: il divorzio
breve – e il divorzio in generale, specie se presentato come conquista di
civiltà e di libertà – non è un ausilio ai problemi della famiglia, non serve a
risolvere le criticità di cui sopra. Abbiamo insomma preso tutti una grossa
cantonata, invertendo il prius col posterius e giungendo all’assurdo: se i
divorzi sono in aumento,
la terapia è di renderli più rapidi e facili; poiché la procedura per ottenere
lo scioglimento del matrimonio è troppo lunga e dispendiosa, andiamo tutti a
convivere (che gioia guardare una relazione non sub
specie aeternitatis, ma alla luce della possibilità che finisca da un
momento all’altro); se i figli soffrono per la separazione dei genitori, il
palliativo è che questi ultimi possano quanto prima “regolarizzare” la nuova
situazione di vita, in ipotesi, con un’altra persona. Le patologie delle
relazioni non vengono certo curate da simili pseudosoluzioni, perché la
stabilità stessa di un rapporto è vissuta negativamente, a favore di un sistema
di rottura, ricostituzione e riassemblamento on demand, elastico, rapido ed efficiente, evidentemente l’ultimo
stadio di un’assimilazione del matrimonio – cellula di diritto naturale, base e
modello per ogni comunità – ad un banale contratto, espressione dell’autonomia
privata degli individui.
Le ferite che, a causa dei
divorzi, già patisce la società tutta non hanno proprio bisogno di essere ulteriormente approfondite: se ha a cuore
il bene comune, il legislatore può e deve cooperare alla cultura della famiglia
(e non del familismo).
Riformare un’antropologia
disastrosamente deviata, invece, non è purtroppo in suo potere.
Pubblicato il 02 giugno 2012
Gira e rigira, a mio avviso resta nei ragionamenti di "diritto naturale" un grossissimo problema. Ammettendo pure di avere dentro di noi delle leggi morali "naturali" (il che di per sé è plausibile), bisogna interrogarsi su come esse siano comprese e colte. Se addirittura sia sempre possibile coglierle in modo univoco. Attenzione a dare per "ovvio" ciò che non è tale per tutti, soprattutto quando si ha a che fare con problematiche "borderline": può diventare una scusa per la peggiore delle dittature etiche.
RispondiEliminaCiò detto, personalmente trovo un'altra criticità, oltre a quelle espresse, riguardo il c.d. divorzio breve. Credo nel principio che diritti e responsabilità debbano sempre andare assieme. Dunque, un'istituzione "forte" come il matrimonio non deve essere cancellabile tanto facilmente. È uno sbilanciamento. Per il resto, non me la prendo con coloro i quali vanno a convivere, tranne quando questi ultimi non avanzano la pretesa di avere, all'interno della convivenza (che implica minime responsabilità) diritti di fatto assimilabili a quelli di una coppia sposata. È un altro esempio dello sbilanciamento di cui parlavo. Certamente, in cuor mio, spero in una sempre maggiore responsabilizzazione. In alternativa, che almeno non si combinino dei grossi guai che poi portano a soluzioni estreme e dolorosissime, che ben conosciamo.
Effettivamente tutto va letto in un'ottica di responsabilità. Il bello dei rapporti umani è che se vissuti bene conducono ad una responsabilizzazione reciproca delle parti coinvolte.
RispondiEliminasolitamente quando qualcuno scrive di "diritto naturale" sta strivendo stupidaggini.
RispondiEliminae questo articolo non fa eccezione.
Mi sembra superfluo dire che ciascuno ha il "suo" diritto naturale e che è ridicolo cercare di far diventare tale personale interpretazione del diritto come "diritto naturale di tutti".
allora evidentemente il fatto che in diversissime epoche e in diversissimi popoli si sia concepito il matrimonio come qualcosa di tendenzialmente "a tempo indeterminato" è solo una coincidenza.
RispondiEliminacomunque scrivere stupidaggini è divertente, e come il titolo stesso del blog sottolinea, non bisogna mai prendersi troppo sul serio... :)
(p.s. poveri Agostino e Tommaso Aquinate, che scrivevano stupidaggini anch'essi, in quanto giusnaturalisti...)
RispondiEliminaGli uomini condividono tutti una medesima natura da cui scaturisce uno ius commune, detto diritto naturale valido in ogni tempo e luogo.
RispondiEliminaAltrettanto dicasi per i subumani il cui diritto è comune ma solo alla specie subumana e quindi diverso da quella umana; e così per i mezzi uomini e per i troll.
Queste categorie hanno tuttavia il limite di sentirsi simili agli umani e dunque di spacciare la loro diversità come la dimostrazione scientifica che il diritto naturale non esiste o meglio non vale per tutti. E' ovvio invece che questi non cogliendo perfettamente la diversità della loro condizione non capiscono che il confronto avviene tra generi diversi.
inizio a rispondere all'anonimo qua sopra.
RispondiEliminadalla "medesima natura da cui scaturisce uno ius commune" sono nati una moltemplice verità di "matrimoni" e "divorzi".
Giusto per fare i primi esempi che mi vengono in mente, la poligamia (sia un uomo con più moglie che, più raramente, una moglie e più uomini), il matrimonio tra consanguinei, il ripudiare la propria compagna (e più raramente il proprio compagno), la tolleranza del "tradimento", fino alla sua regolamentazione in "concubinaggio" etc,
Gli esempi di "matrimonio" e "divorzio" appena riportati diversi da quelli che Ilaria Pisa considera come scaturenti diritto naturale si possono trovare diffusiin varie parti e culture del mondo.
se poi non consideri tali culture come cività umana ma "subumana" o "di mezzi uomini" (e finanche "di troll") temo che il problema sia di ambito psichiatrico per cui non posso che consigliarti un buon specialista.
Il fatto poi che l'attuale diffusione di matrimoni e divorzi "strani" sia limitata è frutto anche per l'opera dei missionari cristiani che, dopo ver cercato di imporre in occidente il diritto naturale del matrimnio (da notare la contraddizione) hanno cercato di imporlo nel resto del mondo.
L'attuale predominanza della cultura occidentale sulle altre sta facendo il resto.
Ah, bene! dunque il fatto genera il diritto e la molpetlicità dei fatti e della diversità dei comportamenti nello spazio e nel tempo sarebbero le testimonianza che non esiste diritto naturale. Dunque poiché esiste l'omicidio non esiste né il diritto naturale alla vita nè l'obbligo di non uccidere come valore obbligante per tutti. Benissimo! Abbattiamo questi feticci imposti dal pensiero cristiano-occidentale!
RispondiEliminaSulla poligamia la cosa è curiosa: manca la poliandria! Neppure la reciprocità si salva senza il diritto naturale! Dunque a noi maschi più donne mentre alle donne un unico maschio da condividere: è cosa buona ci dice il nostro anonimo perché ognuno ha "il suo" diritto naturale! e quasi quasi, essendo maschio, ne voglio approfittare eliminando gli ostacoli culturali impostimi dalla cultura catto-occidentale rivendico per me questo diritto.
Ma siamo seri...! poi uno se n'ha a male se gli chiedi a quale altro genere diverso dal genere umano appartenga, se sub-umano, sottoumano o troll! Levate il diritto naturale queello "imposto" dal cristianesimo e dai suoi missionari e poi vedrete dove finiamo. Anzi già lo stiamo vedendo.
Se non esistesse il diritto naturale, non esisterebbe nemmeno la natura umana, ossia qualcosa che accomuna tutta l'umanità, che si ridurrebbe così ad un insieme di singoli che non hanno nulla in comune. Allora perché stare insieme? Perché conviene? A me pare che convenga di più fare quello che salta nella propria testa.
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