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06 luglio 2017

Pedro Arrupe: alle fonti del pensiero di Francesco


Dall’esistenzialismo filosofico al magistero esistenzialista


di Marco Sambruna 

PROLOGO: L’ESISTENZIALISMO FILOSOFICO
 
L’esistenzialismo è la corrente filosofica che ha maggiormente caratterizzato la modernità a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso. Secondo Sartre la condizione umana tipica consiste nella necessità della scelta davanti alle possibilità che la vita offre: tale necessità è inamovibile dal punto di vista sociale se non nel caso in cui la società stessa si configuri secondo i crismi di uno dei tanti “ismi” contemporanei dal carattere totalitario in cui si istituisce una forma di schiavitù, ossia la sola condizione esistenziale che liberi dall’angoscia della scelta, ma chiedendo in cambio l’inaccettabile rinuncia alla libertà.
A fronte della molteplicità delle aspirazioni si erge la finitudine delle possibilità determinate da limiti monetari, intellettuali, fisici, psicologici, sociali: il senso del limite e specialmente il limite supremo della morte sancisce una netta cesura fra ciò che si vorrebbe essere e ciò che si è.
Diventare ciò che si è contro la heideggeriana “dittatura della chiacchiera” o “rumore sociale”, cioè contro il conformismo e l’autorità che ne delinea le norme diventa il principale obiettivo della cultura esistenzialista. E’ questo il nucleo dell’esistenzialismo sartriano fondato sull’esperienza anziché sulla conoscenza: l’ esistenzialismo fondato sull’esperienza di Sartre apre l’uomo al progetto di se stesso a partire dalle sue scelte incuranti del “già dato” o del precostituito. L’uomo può compiere scelte autentiche cioè caratterizzate da spontaneità e originalità autodirette oppure può compiere scelte inautentiche assumendo uno degli scenari precostituiti dalla realtà sociale eterodiretta caratterizzate da conformismo, omologazione, standardizzazione del pensiero.

LA DISSOLUZIONE DELL’AUTORITA’
L’autenticità della scelta indica quindi la possibilità di diventare se stessi nella situazione concreta in cui ci si accinge a scegliere: nei bivi dell’esistenza occorre prescindere da suggestioni preesistenti ossia dai condizionamenti agiti dall’autorità e amplificati dal rumore sociale o chiacchiera collettiva. Non è un caso che la filosofia esistenzialista che anima il maggio parigino sessantottesco si riassume in slogan quali “l’immaginazione al potere” e “vietato vietare” ossia in parole d’ordine in cui a essere posta in discussione è la competenza dell’autorità rea di comprimere energie che altrimenti potrebbero esprimersi.
Lo sforzo dunque vale ad emanciparsi, nel compimento delle proprie scelte, dalle strutture e massime dalle architetture metafisiche religiose. Ciò equivale a dire che bisogna essere soli davanti alle scelte dirimenti dell’esistenza. Il “situazionismo” esistenzialista implica perciò sia l’opacità della decisione che la densità dell’angoscia come inevitabile dato psicologico di chiunque debba scegliere fra una possibilità autentica e una inautentica. Dal “situazionismo” scaturisce dunque anche l’inquietudine angosciosa tipica di chi si espone al rischio dell’errore davanti alla molteplicità di possibilità che gli si offrono. L’alternativa consiste nell’ incamminarsi lungo uno dei sentieri già tracciati dalla contingenza sociale che assegna ruoli liberando dall’angoscia della scelta, ma in cambio della rinuncia all’autenticità. Nulla sfugge alla decisione dell’uomo qualora si emancipi dalle strutture metafisiche che lo eccedono e lo condizionano inautenticamente: diventa perfino possibile scegliere la propria identità sessuale come sostiene Simone de Beauvoir affermando che “donne non si nasce, ma si diventa”. Sappiamo bene a quale deriva ha condotto questo clima culturale o atmosfera che dalla filosofia è tracimata nell’arte, nella letteratura e perfino nella teologia.
Ciò che importa è che l’emancipazione dall’ethos delle metafisiche tradizionali in nome dell’autenticità situazionale non poteva che implicare la decostruzione della visione del mondo e dell’uomo sviluppata dalla religione nel corso dei secoli.
L’esistenzialista quindi “intenziona” le situazioni dotandole di senso prettamente individuale prescindendo non solo dal determinismo del comportamentismo psicologico e allo strutturalismo filosofico con cui entra in polemica ma, soprattutto, della metafisica tradizionale cioè religiosa con i suoi dogmi, i suoi precetti, la sua dottrina. In una parola col suo magistero.

IL MAGISTERO ESISTENZIALISTA
In ambito gesuitico padre Pedro Arrupe è il principale portavoce dell’esistenzialismo teologico mutuato da quello filosofico in un inedito capovolgimento della scala gerarchica tradizionale che ha sempre considerato la filosofia ancilla theologiae.
Nel clima contestatario post conciliare è la teologia a essere ancella della filosofia prima che questa a propria volta, di degrado in degrado, si trasformi in sociologia prima e statistica poi.
L’esistenzialismo teologico come quello filosofico consiste dunque nel credere nel primato dell’esperienza operativa e intellettuale sulla conoscenza appresa da un’autorità supposta competente ossia il magistero cattolico in ordine all’intellezione della pedagogia divina. Il magistero nelle facoltà teologiche e nei seminari è ora riguardato con sospetto in quanto affetto da presunto nozionismo, astratta inconsistenza laddove l’esperienza è apprendimento diretto grazie all’immersioni nelle situazioni storiche secondo le proprie scelte autodirette prima intenzionate e quindi personalizzate e poi agite. L’uomo e la società si auto formano guidati dall’ immanenza della sapienza divina che conduce direttamente le coscienze senza alcuna necessità di metafisiche, maestri, insegnanti, pedagoghi e magisteri.
D’altra parte il privilegio concesso all’esperienza quale mezzo di conoscenza comporta non solo l’indebolimento dell’ ethos autoritario cioè il ridimensionamento dell’autorevolezza che deriva dalla scienza, ma anche l’ascesa della mera opinione che deriva da una conoscenza approssimativa; è inoltre facile immaginare come a partire dal primato dell’esperienza autodidattica che prescinde dall’autorevolezza si apre la via al soggettivismo e al relativismo.
Dobbiamo infine sottolineare come l’esistenzialismo gesuitico fondato sull’esperienza che ha avuto in padre Pedro Arrupe il suo massimo promotore nulla ha a che fare col casuismo quale metodo di discernimento elaborato storicamente dalla Compagnia di Gesù. Il casuismo infatti ha lo scopo di confrontare con il magistero una serie di questioni concernenti le scelte morali al fine di individuare una risposta il più possibile coerente con l’insegnamento della Chiesa.
Dunque il magistero esistenzialista di padre Arrupe non solo tende ad affrancarsi dal magistero, ma anche dalla tradizione gesuitica per fondare una sorta di esistenzialismo gesuitico quale modello di riferimento per il credente contemporaneo.


CAOS ORGANIZZATO
Il primo passo operato dai vertici gesuiti dunque è consistito nel promuovere il primato dell’esperienza autodidattica sull’insegnamento autorevole.
Il secondo passo ha riguardato invece l’erezione di una sorta di caos organizzato secondo il principio cardine per cui il Potere, un qualsiasi potere, quando vuole cambiare una visione del mondo inserisce nelle sue costituzioni le istanze più disparate in una commistione intricata di elementi tradizionali e innovativi al fine di mascherare il più possibile il processo di cambiamento ai suoi esordi.
In questa prospettiva di ridimensionamento dell’elemento autorevole e autoritario è stato possibile inserire e promuovere fra i gesuiti della gestione Arrupe alcuni concetti inediti nella storia della Chiesa che hanno opacizzato la chiarezza del magistero ordinario agendo quali elementi di caotizzazione o disarticolazione della visione univoca che la Chiesa ha sempre avuto sull’uomo e sulla società.
Il metodo del caos organizzato quale strategia di rinnovamento privilegiato dai gesuiti ha avuto in Pedro Arrupe uno dei suoi principali artefici tramite il ricorso al meticciamento lessicale o ibridazione linguistica a partire da alcuni concetti chiave i quali, senza smentire esplicitamente l’insegnamento tradizionale della chiesa anzi in alcuni casi ribadendolo, tuttavia introducono delle sfumature le quali sembrano costituire degli avamposti del pensiero progressista attorno a cui aggregare la formazione di una nuova dottrina.
E’ sufficiente esaminare tali concetti chiave per avere contezza del loro potenziale eversivo per quanto essi siano quasi sempre intricati con istanze che tradizionalmente appartengono al patrimonio del pensiero cattolico. Essi si riassumono nelle proposizioni più volte reiterate da padre Arrupe di inculturazione, dialogo con la cultura moderna, impegno politico, servizio all’uomo, rinnovo della vita religiosa.
Ad esempio al sinodo dei vescovi tenutosi nel novembre 1977 ( qui ) possiamo leggere fra le dichiarazioni di padre Arrupe molte proposizioni in cui l’elemento ortodosso è incrinato e opacizzato da elementi spuri, evidenziati in grassetto, che intorbidiscono la cristallina trasparenza del pensiero tradizionale della chiesa sul tema dell’inculturazione. Si osservi che dal concetto cattolico di inculturazione si transita successivamente a quello di pluralismo per addivenire infine al vero obiettivo che consiste nell’accondiscendenza verso la cultura marxista:
“(l’inculturazione) è il corollario pratico di quel principio teologico che afferma che Cristo è l’unico Salvatore e che niente si salva fuori di lui. Di qui la conseguenza che Cristo deve assumere nel suo Corpo – che è la Chiesa – tutte le culture, purificandole, ed è scontato, da tutto ciò che in queste è contrario al suo Spirito e salvandole così senza distruggerle. E’ la penetrazione della fede nei meandri più profondi della vita dell’uomo, arrivando fino a colpire la sua maniera di pensare, di sentire e di agire sotto l’ispirazione dello Spirito di Dio.
E’ offrire a tutti i valori culturali una stessa possibilità di mettersi al servizio del Vangelo (…) il pluralismo che attenterebbe all’unità della Chiesa, mentre il vero pluralismo ci porta ad una unità molto più profonda. La crisi dell’unità deve essere attribuita in molti casi a un pluralismo insufficiente che non permette ad alcuni una normale possibilità per tradurre e vivere la propria fede in accordo con la loro cultura particolare. (…) L’assenza di riflessione oggettiva e serena sulla cultura moderna, apparentemente secolarizzata, irreligiosa atea; senza pensare che questa cultura può presentarsi così perché la fede è stata insegnata e praticata in un modo concettualistico, disincarnato, al margine della cultura.
In questa proposizione la prima parte ribadisce la dottrina di sempre mentre la seconda sembra smentire l’idea secondo cui non tutte le culture sono compatibili col Vangelo. Al contrario sembra affermare che anche le visioni del mondo più aliene da una concezione cristiana possono concorrere alla diffusione della Parola di Dio. Vi è contraddizione logica affermando che un maggior pluralismo garantisce maggior unità, e subito dopo si definisce come apparente l’ateismo della cultura contemporanea, mentre come ormai abbondantemente acclarato, la cultura di quegli anni (1977) era dominata dal materialismo dialettico marxista programmaticamente ateo o dal liberalismo capitalista fondamentalmente agnostico. Infine, pare suggerire Arrupe, anche le culture moderne come il marxismo cui si allude senza scaltramente nominarlo esplicitamente sono state in qualche modo costrette all’ateismo militante – e relativa lotta armata - a causa di una fede tradizionalmente insegnata, ossia troppo astratta e sganciata dalla realtà e quindi incapace di dare risposte concrete ai problemi dell’uomo contemporaneo che tali risposte dunque ha dovuto cercarle altrove. Di qui facile suggerire l’idea secondo cui è ora di accantonare definitivamente il Magistero di sempre barattandolo con la valorizzazione delle esperienze che storicamente sono nate extra ecclesia in quanto più conformi a soddisfare i bisogni della società moderna.
In quest’ altra proposizione relativa all’ impegno politico del cristiano lo schema volto ad alternare dichiarazione ortodossa a dichiarazione spuria risulta particolarmente evidente. In questo caso è la proposizione spuria a precedere quella ortodossa.
Proprio in un periodo in cui la catechesi include, e ben a ragione, la dimensione politica degli obblighi del cristiano e dell’esistenza cristiana, è impossibile che faccia astrazione dal marxismo. (…) Bisognerà talora distinguere, là dove tale distinzione fosse fondata, quello che è programma sociopolitico limitato e quello che è concetto della società nel suo rapporto col destino dell’uomo. Ci si poggerà allora sulle distinzioni messe in rilievo dalla “Octogesima Adveniens ” (n.33).
Senza omettere naturalmente di far notare che, secondo la medesima “Octogesima Adveniens”, nella vita concreta queste distinzioni sono raramente e difficilmente mantenute fino agli estremi: “Se attraverso il marxismo, come è concretamente vissuto, si possono distinguere questi diversi aspetti (…) sarebbe illusorio e pericoloso giungere a dimenticare il legame intimo che li unisce alla radice, accettare gli elementi dell’analisi marxista senza riconoscere i loro rapporti con l’ideologia, entrare nella pratica della lotta di classe e della sua interpretazione marxista trascurando di cogliere il tipo di società totalitaria e violenta alla quale questo processo conduce (n.34).”
Nella prima parte padre Arrupe pare alludere alla legittimità del “programma socio politico” marxista - programma che include la pratica rivoluzionaria - in vista della giustizia sociale purché tale programma sia separato dal “concetto di società” vale a dire dalla teoresi marxista protesa alla massificazione dell’individuo coartato da un regime totalitario addirittura invocando i rilievi della “Octogesima Adveniens”.
E’ evidente che non è possibile separare la prassi rivoluzionaria dalla teoria marxista perché, se è vero che la prassi rivoluzionaria precede l’elaborazione del costrutto marxista come dimostra ad esempio Correa de Oliveira, tuttavia nell’ambito del discorso in questione ci si riferisce non alla rivoluzione come dinamica storica sempre presente, ma proprio e specificamente all’ evento della rivoluzione marxista. Così essendo è chiaro che non può inverarsi il “programma socio politico marxista” di cui la prassi rivoluzionaria è momento decisivo, se non fosse stato proiettato sulla storia dal marxismo ideologico così come non poteva esistere il cristianesimo se Cristo non si fosse incarnato nella storia. Oltre a ciò la manipolazione cui è sottoposta lettera dell’enciclica è evidente se si considera che prima è stata utilizzata per incrinare il magistero riguardo l’atteggiamento che il cristiano deve avere verso i marxismo e poi è stata richiamata per ribadire l’inconciliabilità fra due visioni dell’uomo così differenti.
Tuttavia col il metodo del meticciamento lessicale o ibridazione linguistica è stato possibile adombrare l’ipotesi che la prassi – rivoluzionaria - marxista possa essere apprezzata anche da un cristiano.
Più avanti nel corso dello stesso intervento sul tema dei rapporti fra cristianesimo e marxismo padre Arrupe ricorre alla medesima ibridazione, ma stavolta senza separare nettamente gli asserti ortodossi da quelli spuri intricandoli in una maggior commistione quando sostiene che
il cristiano da parte sua non escluderà qualsiasi violenza (che talvolta si presenta come necessari nell’ambiguità dell’azione), ma escluderà questa fiducia nel processo di violenza.
Bisogna rendere sensibili (i cristiani) anche a certe evoluzioni che si verificano nel mondo marxista. Rendere capaci di apprezzare sinceramente ciò che di grande c’è in questo movimento che ha conquistato una parte così importante dell’umanità , e nello stesso tempo valutare con chiarezza e lealtà cosa ci farebbe deviare da Cristo e dall’uomo cristiano. Rendere il cristiano libero e non pavido di fronte al marxismo. Renderlo capace di una franca e chiara collaborazione nella misura in cui questa collaborazione si impone in ordine al bene comune , ma anche non meno capace di criticare e prendere le distanze quando lo impone la coscienza cristiana.


OLTRE IL MAGISTERO
"Se parliamo esplicitamente di comunione ai divorziati risposati, questi non sai che casino ci combinano. Allora non parliamone in modo diretto, tu fai in modo che ci siano le premesse, poi le conclusioni le trarrò io".
( Jorge Mario Bergoglio citato da Bruno Forte )
Bergoglio pare avere mutuato dal suo mentore giovanile padre Arrupe l’idea che il mezzo privilegiato per pervenire alla conoscenza sia l’esperienza e non l’obbedienza all’autorevolezza di chi quella conoscenza già la possiede sia esso uomo di scienza teologica o lo stesso magistero della Chiesa. In definitiva sembra che ogni decisione di ordine morale debba svolgersi quasi esclusivamente in foro interno sulla scorta dell’esperienza vissuta. Anch’egli del resto per trasmettere questo messaggio ricorre al metodo del meticciato linguistico o ibridazione lessicale per incrinare il magistero della Chiesa e penetrarlo con istanze spurie orientate verso l’indicazione del primato della coscienza soggettiva quale misura di valutazione.
Naturalmente ci sono molti esempi di testi bergogliani intrisi di analogia col metodo dell’ibridazione linguistica di padre Arrupe al fine di introdurre elementi innovativi senza dichiararli esplicitamente. Qui ci limitiamo a osservare brevemente uno dei più significativi esempi di ambivalenza lessicale di padre Bergoglio il quale, sollecitato da una domanda, nella risposta inserisce elementi spuri soggettivisti e relativisti quali segni distintivi di una ricognizione sul tema della comunione interconfessionale, cioè da concedere durante un rito cattolico anche ai protestanti.
“D. – Mi chiamo Anke de Bernardinis e, come molte persone della nostra comunità, sono sposata con un italiano, che è un cristiano cattolico romano. Viviamo felicemente insieme da molti anni, condividendo gioie e dolori. E quindi ci duole assai l’essere divisi nella fede e non poter partecipare insieme alla Cena del Signore. Che cosa possiamo fare per raggiungere, finalmente, la comunione su questo punto?
R. – Grazie, Signora. Alla domanda sul condividere la Cena del Signore non è facile per me risponderLe, soprattutto davanti a un teologo come il cardinale Kasper! Ho paura! Io penso che il Signore ci ha detto quando ha dato questo mandato: “Fate questo in memoria di me”. E quando condividiamo la Cena del Signore, ricordiamo e imitiamo, facciamo la stessa cosa che ha fatto il Signore Gesù. E la Cena del Signore ci sarà, il banchetto finale nella Nuova Gerusalemme ci sarà, ma questa sarà l’ultima. Invece nel cammino, mi domando – e non so come rispondere, ma la sua domanda la faccio mia – io mi domando: condividere la Cena del Signore è il fine di un cammino o è il viatico per camminare insieme? Lascio la domanda ai teologi, a quelli che capiscono. È vero che in un certo senso condividere è dire che non ci sono differenze fra noi, che abbiamo la stessa dottrina – sottolineo la parola, parola difficile da capire – ma io mi domando: ma non abbiamo lo stesso Battesimo? E se abbiamo lo stesso Battesimo dobbiamo camminare insieme. Lei è una testimonianza di un cammino anche profondo perché è un cammino coniugale, un cammino proprio di famiglia, di amore umano e di fede condivisa. Abbiamo lo stesso Battesimo. Quando Lei si sente peccatrice – anche io mi sento tanto peccatore – quando suo marito si sente peccatore, Lei va davanti al Signore e chiede perdono; Suo marito fa lo stesso e va dal sacerdote e chiede l’assoluzione. Sono rimedi per mantenere vivo il Battesimo. Quando voi pregate insieme, quel Battesimo cresce, diventa forte; quando voi insegnate ai vostri figli chi è Gesù, perché è venuto Gesù, cosa ci ha fatto Gesù, fate lo stesso, sia in lingua luterana che in lingua cattolica, ma è lo stesso. La domanda: e la Cena? Ci sono domande alle quali soltanto se uno è sincero con sé stesso e con le poche “luci” teologiche che io ho, si deve rispondere lo stesso, vedete voi. “Questo è il mio Corpo, questo è il mio sangue”, ha detto il Signore, “fate questo in memoria di me”, e questo è un viatico che ci aiuta a camminare. Io ho avuto una grande amicizia con un vescovo episcopaliano, 48enne, sposato, due figli e lui aveva questa inquietudine: la moglie cattolica, i figli cattolici, lui vescovo. Lui accompagnava la domenica sua moglie e i suoi figli alla Messa e poi andava a fare il culto con la sua comunità. Era un passo di partecipazione alla Cena del Signore. Poi lui è andato avanti, il Signore lo ha chiamato, un uomo giusto. Alla sua domanda Le rispondo soltanto con una domanda: come posso fare con mio marito, perché la Cena del Signore mi accompagni nella mia strada? È un problema a cui ognuno deve rispondere. Ma mi diceva un pastore amico: “Noi crediamo che il Signore è presente lì. È presente. Voi credete che il Signore è presente. E qual è la differenza?” – “Eh, sono le spiegazioni, le interpretazioni…”. La vita è più grande delle spiegazioni e interpretazioni. Sempre fate riferimento al Battesimo: “Una fede, un battesimo, un Signore”, così ci dice Paolo, e di là prendete le conseguenze. Io non oserò mai dare permesso di fare questo perché non è mia competenza. Un Battesimo, un Signore, una fede. Parlate col Signore e andate avanti. Non oso dire di più.”
E’ interessante notare come i numerosi richiami a discernere in base a criteri soggettivi contenuti nelle affermazioni spurie frammiste a quelle che sembrano ortodosse inducano il lettore a credere si possa bypassare ciò che dice il magistero, cui non si fa riferimento nemmeno una volta, circa l’intercomunione: l’invito è quello di rivolgersi direttamente al Signore, secondo uno dei capisaldi del pensiero protestante che non accetta intermediazioni, e decidere tramite discernimento interiore dunque senza ricorrere all’autorevolezza del magistero cattolico. Bergoglio indica nelle interpretazioni, ossia nello stesso magistero, l’origine delle differenze che separano la dottrina cattolica da quella protestante che altrimenti, cioè senza interpretazione alcuna, finirebbero per coincidere in una per lui desiderabile unità.
D’altra parte prescindere dal magistero e rivolgersi direttamente a Dio quale strategia per progredire nel cammino di perfezione come pare indicare Bergoglio nelle espressioni “la vita è più grande delle spiegazioni e interpretazioni” e “ Parlate col Signore andate avanti” non può che riferirsi al valore dell’esperienza quale mezzo conoscitivo nell’accezione esistenzialista per cui è bene che l’individuo sia solo con la propria angoscia di fronte alle scelte decisive onde evitare condizionamenti sovrastrutturali o metafisici che potrebbero sviare verso scelte inautentiche.
Infine il reiterato riconoscimento dei propri limiti riguardo la conoscenza della teologia cattolica provoca ulteriormente a credere non necessaria la scienza di Dio che l’autorità detiene, ma a ritenere sufficiente un dialogo diretto col divino ossia l’ascolto della voce della propria coscienza. La quale, facciamo osservare a latere, come molti maestri spirituali e alcuni esponenti della psicologia meno omologata hanno sagacemente fatto notare, se non guidata è sempre pericolosamente predisposta a trovare argomentazioni atte a giustificare comportamenti errati o, se si preferisce, disfunzionali.
Dunque l’insieme della proposizione bergogliana percorsa da meticciato lessicale tende a delegittimare il magistero cattolico; esso infatti è fondato proprio su quella interpretazione della Parola di Dio che alimenterebbe, secondo Bergoglio, la divisione oltre ad essere incapace di offrire risposte che non siano standardizzate e quindi drammaticamente inadeguate a includere la complessità dell’esistenza. In realtà è proprio l’interpretazione a cura dei necessari “dottori della lettera” spesso esecrati da Bergoglio ad evitare qualsiasi fruizione letterale della Bibbia che trasformerebbe il cattolicesimo in una religione del libro così come lo è il protestantesimo o l’islam mineralizzandola in una sorta di collettivismo religioso dalle sentenze categoriche inadatte a cogliere le innumerevoli occasioni di dubbio o incertezza che l’esistenza presenta e che solo un accurata e competente interpretazione può dirimere.

COSA DICE IL MAGISTERO
Che il decorso gesuitico durante la gestione di padre Arrupe avendo mutuato alcune istanze esistenzialiste e particolarmente l’affrancamento dall’autorità – e quindi dal magistero – in nome di un richiamo all’esperienza quale strategia autodidattica suscitasse le preoccupazioni papali del resto è dimostrato da alcuni documenti in cui, significativamente, il linguaggio curiale sempre caratterizzato da estrema prudenza e accorta cautela, è abbandonato e sostituito da chiare reprimende.
Paolo VI nella omelia alla Cappella Sistina, del 15 novembre 1966 ( qui ) si rivolge alla Compagnia di Gesù denunciandone le derive soggettiviste e autodirette sempre più svincolate dal magistero e sempre più legate all’azione e dunque all’esperienza di prassi che privilegiano il commercio con dinamiche profane.
“Volete voi, figli di Ignazio, militi della Compagnia di Gesù, essere ancor oggi, e domani, e sempre, ciò che siete stati dalla vostra fondazione fino a questo giorno per la santa Chiesa cattolica e per questa apostolica Sede? Questa Nostra domanda non avrebbe ragion d’essere, se al Nostro orecchio non fossero giunte notizie e voci, riguardanti la vostra Compagnia - e del resto anche altre Famiglie Religiose - di cui non possiamo nascondere il Nostro stupore e, per alcune di esse, il Nostro dolore.
Forse invalse in alcune menti anche dei vostri il criterio dell’assoluta storicità delle cose umane, generate dal tempo e dal tempo inesorabilmente divorate, quasi non fosse nel cattolicesimo un carisma di verità permanente e di stabilità invincibile, di cui questa pietra della Sede apostolica è simbolo e fondamento? Forse parve all’ardore apostolico, di cui tutta la Compagnia è animata, che per dare maggiore efficacia alla vostra attività occorreva abdicare a tante venerabili consuetudini spirituali, ascetiche, disciplinari, non più aiuto, ma freno a più libera e più personale espressione del vostro zelo? E allora sembrò che l’austera e virile obbedienza, che ha sempre caratterizzato la vostra Compagnia, che sempre anzi ha reso evangelica, esemplare e formidabile la sua struttura, dovesse essere allentata, come nemica della personalità e ostacolo alla vivacità dell’azione , dimenticando quanto Cristo, la Chiesa, la vostra stessa scuola spirituale hanno magnificamente insegnato circa tale virtù. Così vi fu forse chi credette non essere più necessario imporre alla propria anima l’«esercizio spirituale», la pratica cioè assidua e intensa dell’orazione, l’umile, ardente disciplina della vita interiore, dell’esame di coscienza, dell’intimo colloquio con Cristo, quasi che l’azione esteriore bastasse a mantenere e illuminato e forte e puro lo spirito, e fosse valida di per sé all’unione con Dio; e quasi che questa ricchezza di arti spirituali solo al monaco si addicesse, e non fosse piuttosto per il soldato di Cristo l’armatura indispensabile. E forse ancora fu di alcuni l’illusione che per diffondere il Vangelo di Cristo fosse necessario far proprie le abitudini del mondo, la sua mentalità, la sua profanità, indulgendo alla valutazione naturalistica del costume moderno, anche in questo caso dimenticando che l’accostamento doveroso e apostolico dell’araldo di Cristo agli uomini, a cui si vuole recare il messaggio di Lui, non può essere una assimilazione tale che faccia perdere al sale il suo bruciante sapore, all’apostolo la sua originale virtù.”
Anche Giovanni Paolo II a distanza di ben 13 anni deve reiterare gli inviti espliciti di “ritorno all’ordine” durante il discorso rivolto ai gesuiti nel corso della XXXI Congregazione generale della Compagnia di Gesù il 21 settembre 1979 ( qui ).
“Certamente non ignoro – e così rilevo anche da non poche altre informazioni – che la crisi, la quale in questi ultimi tempi ha travagliato e travaglia la vita religiosa, non ha risparmiato la vostra Compagnia, causando disorientamento nel popolo cristiano, e preoccupazioni alla Chiesa, alla Gerarchia ed anche personalmente al Papa che vi parla.
(…) desidero vivamente raccomandarvi di promuovere con ogni impegno quanto di bene si compie nella Compagnia e dalla Compagnia, ed insieme di procurare, con la dovuta fermezza, rimedio alle deplorate deficienze, in modo che tutta la Compagnia viva e operi, sempre animata dal genuino spirito ignaziano.
Siate parimente fedeli alle leggi del vostro Istituto, che Paolo VI e più recentemente Giovanni Paolo I, nell’allocuzione preparata, poco prima di morire, per la vostra Congregazione dei Procuratori, aveva indicato; specialmente per quanto riguarda l’austerità della vita religiosa e comunitaria, senza cedere a tendenze secolarizzatrici; un senso profondo di disciplina interiore ed esteriore; l’ortodossia della dottrina, nella piena fedeltà al supremo magistero della Chiesa e del Romano Pontefice , fortemente voluta da Sant’Ignazio, come tutti ben sapete (…)”
Il metodo dell’ibridazione linguistica teso a sfumare di affermazioni ambigue asserti apparentemente in linea col magistero in vista di un rinnovo delle dottrina cattolica ormai appare oggi scoperto, denudato a mostrare le vere finalità cui tende. Finalmente i capisaldi intellettuali fondati da padre Arrupe tratteggiano ora i contorni evidenti di un’ambiguità che la caotizzazione discorsiva non è più in grado di mascherare.
E questa volta senza davvero alcuna necessità di ricorrere alla competenza del magistero chiunque disposto a valutare obiettivamente può osservare gli effetti sfociati dall’esistenzialismo filosofico applicato alla visione cristiana del mondo:
l’inculturazione destinata prima al pluralismo poi al disordine liturgico; il dialogo con la cultura moderna destinato alla secolarizzazione del pensiero; l’impegno politico destinato alla desacralizzazione e spesso anche alla derisione del sacro; il servizio all’uomo destinato alla mera erogazione di servizi sociali come farebbe una ONG qualsiasi; il rinnovo della vita religiosa destinata alla resa ai costumi laicisti.
Istanze tutte che a loro volta convergono verso un unico e immane risultato finale: liquidazione della civiltà occidentale plasmata dal cristianesimo.

 

25 gennaio 2017

Silence. Fra martirio e apostasia

di Dario Alessandrini

“Silence” di Martin Scorsese è un film assai complesso che va visto con occhi competenti. La vicenda dei missionari gesuiti in Giappone nel XVI secolo viene riesplorata alla luce delle nozioni moderne di inculturazione della fede, di relativismo teologico, di silenzio di Dio. Il film mostra la fede vera del popolo giapponese, una fede inculturata in una cultura che sa cosa è il sacrificio e il rinnegamento di sé. La testimonianza del martirio dei giapponesi è la parte più bella del film, la parte che commuove ed avvince. Una fede inculturata non è solo una fede che trova il giusto rivestimento delle parole, ma è una fede che sa incidere nella cultura propria, sino a farla maturare nelle sue stesse implicazioni. In questo caso i contadini poveri e analfabeti riescono a vivere il cristianesimo alla luce dei loro valori millenari di abnegazione e di sacrificio, trovando in esso però la liberazione dal giogo disumano del potere politico/religioso rappresentato dal mellifluo inquisitore buddhista dalla voce garrula. La liberazione che la nozione di “Parais” fornisce al popolo contadino non è una forma di alienazione dalla storia, ma la prospettiva trascendente che feconda la storia sino a renderla fermento di salvezza.

A ciò fa da contrappeso il fallimento di padre Ferreira che tradisce la fede con l'apostasia, abbracciando il relativismo teologico. Il tradimento di Ferreira è un errore che va respinto con tutte le forze, ma il film ne presenta le ragioni ideologiche nel dialogo con padre Rodriguez. Sostanzialmente padre Ferreira non crede in Cristo e nella possibilità di inculturare la fede nel Giappone ("i contadini non capiscono nulla del nostro annuncio"). Secondo lui i contadini convertiti sono morti per affermare una superstizione che nulla ha a che vedere con la fede in Cristo. Egli dopo l’apostasia è malinconicamente integrato nella società dei letterati giapponesi scrivendo libri di astronomia, di scienze naturali, nonché un elenco di errori del cristianesimo (“gengiroky, Inganno rivelato”). D'altronde anche il relativismo oggi imperante in teologia consiste nell’idea che tutte le religioni sono fenomeni culturali equivalenti che convergono verso una intuizione di Dio, senza la possibilità di cogliere i tratti analogici di Dio con ciò che esiste e riducendo la categoria di Rivelazione a mito. Il ben noto documento “Dominus Iesus” del 2000, risolutore della intera questione, giace inerte sommerso da una coltre di densa polvere.

Molto problematica è la terza via, quella di padre Rodriguez, il quale apostata, avvinto dalla prospettiva di potere salvare alcuni cristiani sottoposti ad una tremenda tortura e soprattutto vinto dal “silenzio di Dio”. Questa è la spina del film. Egli resta segretamente cristiano sino all’ultimo, in una forma di cristianesimo sincretistico che avrebbe avuto la pretesa di seminare il cristianesimo in una cultura refrattaria ad una esplicita inculturazione. Un cristianesimo anonimo, un cristianesimo che pubblicamente non mostra nulla di sé, che si abbassa in una forma di kenosis, sino allo svuotamento di sé, sino alla negazione del proprio annuncio e del proprio nucleo dottrinale, che non ha nulla da dire all'ordine giuridico e pubblico, è ancora un cristianesimo?

Nella attuale società giapponese si è realizzata una forma di sincretismo religioso tipico della società moderna secolarizzata e la forma per un nuovo modello di missionarietà sembrerebbe quello della tolleranza, del dialogo che rinunci alla idea di Verità applicata ad una confessione. Oggi molti pensano che una posizione kenotica come quella di padre Rodriguez possa essere una soluzione per il nostro tempo. È una questione dilacerante. Si può cristianizzare una cultura rinunciando al nucleo veritativo dottrinale e alla sua rilevanza per il fermento del diritto e della cultura? Sicuramente no, ma resta un problema irrisolto nella transizione del cristianesimo contemporaneo, così sorprendentemente simile alla vicenda di padre Rodriguez. Il film appare come una parabola della chiesa contemporanea, costituita da una folta schiera di intellettuali apostati e da un "resto" che resiste eroicamente...

Sul “silenzio di Dio” e su tutte le suggestioni della teologia contemporanea, erede del “venerdì speculativo di Hegel” sino a Nietzsche e alla teologia della morte di Dio, si fa un gran parlare. Improriamente chiamiamo "silenzio di Dio” la nostra incapacità di vedere la grandezza di Dio nelle sue opere; il nostro sguardo affetto da riduzionismo empirista, la concupiscenza degli occhi che svuota l'esperienza da ogni spessore metafisico e lascia il fatto nudo come materiale inerte senza significato. È il dubbio di fede che assale ogni credente nelle prove ardue, a causa della sua ferita originale. Il vero "silenzio" di Dio è la Kenosis, l'abbassamento di Dio che assume la natura umana, il dolore, le conseguenze penali del peccato dell'uomo, assume la morte come esperienza dilacerante, per attraversarla e svuotarla. Il vero "silenzio" è l'insondabile Parola della Croce.
È chiaro che se applichiamo la nozione deviata di "silenzio di Dio" alla missionarietà (magari condendo il tutto con il relativismo teologico di padre Ferreira), otteniamo un solo risultato: l'implosione assoluta della missione e del kerigma. Così tutto si risolve in un assoluto "silenzio dell'uomo" (la scelta di Rodriguez). Il suicidio della fede si risolve sempre alla fine nel suicidio della ragione e del linguaggio. 
 

31 luglio 2016

Contemplare Cristo come Sant'Ignazio di Loyola


di Alfredo Incollingo

Pochi santi hanno avuta tanta influenza e seguito come Sant'Ignazio di Loyola, il santo spagnolo che ha rivoluzionato la Chiesa e la fede in Gesù Cristo.
Ignazio probabilmente non avrebbe mai immaginato di ottenere tanta santità, lui che era un cavaliere alla ricerca di gloria e ricchezza. Come accadde a Paolo di Tarso, rimase così folgorato dalla rivelazione divina da lasciare tutto e seguire Gesù.

L'Apostolo delle Genti aveva compreso la potenza di Dio lungo la strada per Damasco, mentre Ignazio l'aveva sperimentata durante la degenza per una grave ferita di guerra. Si convertì e diede pieno seguito alla sua vocazione religiosa, tutta protesa nella piena comprensione della vita e dell'insegnamento di Cristo. I suoi Esercizi spirituali sono un alto condensato di spiritualità, tuttora letto e studiato per accogliere appieno Gesù e rispondere alla sua perpetua chiamata a seguirlo. Non è un caso se divenne la regola della Compagnia di Gesù che Ignazio costituì nel 1534 per rinnovare un cattolicesimo deperente, frenare la Riforma Luterana e fare opera missionaria.

Ignazio di Loyola o Inigo Lopez, il suo vero nome, apparteneva ad una grande e ricca famiglia spagnola di Loyola, che aveva guadagnato beni e onore per merito del padre, Yanez, soldato e poi vassallo del re di Spagna Fernando il Cattolico. Le sue origini gli garantirono di conseguenza un futuro radioso. Infatti divenne ben presto membro della cerchia di cortigiani più vicina al giovane re, e futuro imperatore, Carlo V. Prese parte ai giochi di potere a corte e le sue doti militari e diplomatiche gli valsero grande attenzione da parte del sovrano e della famiglia reale. Durante uno scontro tra i nemici e i fedeli del re di Spagna, a Pamplona, Ignazio venne gravemente ferito. La sua vita era in pericolo, soffrendo e maledicendo la sua sorte. Dopo una lunga degenza e atroci operazioni il futuro santo iniziò a guarire e trascorreva il tempo leggendo, molto, soprattutto un testo, la Vita Christi del certosino Landolfo di Sassonia, e anche il Flos sanctorum di Jacopo da Varazze. Queste letture segnarono una svolta nella sua vita. Iniziò a conoscere e a intensificare la sua fede, studiando le vite di santi e pregando, come probabilmente non aveva mai fatto prima. Si convertì quindi e iniziò in quei giorni le riflessioni sulla vita di Gesù basilari per la stesura degli Esercizi spirituali.

La sua fede ritrovata, così attenta a conoscere il volto di Cristo, lo portarono in Terra Santa, una volta riprese le forze. Questa esperienza lo segnò profondamente, sempre più propenso a cedere tutto per seguire la vocazione religiosa. Riprese i suoi appunti, scritti durante la guarigione, e intensificò il lavoro intellettuale. E' probabile che iniziò a scrivere i suoi Esercizi in questo periodo. E' un rito spirituale fatto di preghiera, contemplazione e meditazione della vita di Gesù per vagliare, nella nostra coscienza, la fede e comprendere fino a che punto siamo pronti a seguirLo.

Nel 1522, durante una visita al monastero benedettino di Montserrat, Ignazio dismise definitivamente i suoi paramenti militari ai piedi di un dipinto della Vergine Maria, dandosi totalmente a Dio. Seguirono anni di studi di teologia a Parigi, dove si prodigò anche per far conoscere i suoi Esercizi.

Furono sei i primi discepoli del Loyola e nel 1534 diedero vita alla Compagnia di Gesù a Montmatre. Si legarono a vicenda con un voto di castità e di povertà e si sottomisero alla Chiesa Cattolica per compiere al meglio la loro missione evangelizzatrice. Iniziò la grande e proficua storia dei “gesuiti”, come furono chiamati i confratelli di Sant'Ignazio. Lo stesso santo vagò per l'Europa spronando i suoi missionari e facendone di nuovi. Nel 1540 Papa Paolo III approvò l'ordine con la bolla Regimini militantis ecclesiae, che fu approvato definitivamente nel 1550 da Giulio III con l'Exposcit debitum. I gesuiti ebbero grande fortuna e si diffusero in tutto in mondo perpetuando il cattolicesimo e la Controriforma. Dalle Indie alle Americhe, in Europa e in Africa, ovunque difesero la fede e diedero lustro alla Chiesa anche con gli alti livelli intellettuali raggiunti in molti campi delle scienze. Educarono ed evangelizzarono interi popoli e furono per decenni i protagonisti della politica europea. Sant'Ignazio fu l'animatore e l'anima dell'ordine e fino alla sua morte, avvenuta il 31 luglio 1556, si impegnò per custodire la Compagnia e la sua vocazione nel mondo. Con Sant'Ignazio la Chiesa si riscopre cristocentrica: non è il Papa o la stessa gerarchia, Suoi vicari, il fulcro della comunità dei fedeli; è Cristo, cui noi tutti tendiamo, cercando di accogliere il Suo volto e il Suo insegnamento. Gli Esercizi ci accompagnano in questa presa di coscienza e ci aiutano a capire perché Cristo è il Figlio di Dio e perché è necessario accoglierlo in tutto per essere veramente cristiani cattolici, fedeli al Vangelo.

Ignazio di Loyola venne canonizzato il 22 marzo 1622 da Papa Gregorio XV e lo si celebra il 31 luglio.

 

24 luglio 2016

Viaggio sentimentale e devozionale a Roma: l'Urbe della Compagnia di Gesù (Parte II)

di Alfredo Incollingo

Si può andare a Roma per scoprire i lasciti dei Templari, dei Cavalieri di Rodi o dei maggiori ordini religiosi. Lo possiamo fare senza difficoltà, girovagando per i Rioni del centro storico, non lontano dalle principali vie. Riprendiamo quindi il nostro racconto della Roma Cristiana, scoprendo i luoghi della Compagnia di Gesù. Se alloggiamo in centro, non avremo molte difficoltà di spostamento.

E' scontato e inutile fare una sintesi o una storia dettagliata della Compagnia, perché basta la fama dell'ordine di Sant'Ignazio di Loyola per comprendere la sua rilevanza nella storia del cattolicesimo e dell'Europa moderna.

A Roma i gesuiti vi stabilirono il Collegio Romano (oggi il Liceo classico “E.Q. Visconti”), nei pressi di Via del Corso (dietro Palazzo Doria Pamphilj che affaccia sulla nota strada), costruito tra il 1582 e il 1584 per volere di Papa Gregorio XIII, la prima istituzione scolastica gratuita e innovativa nell'Europa moderna. Il Collegio formò generazione di laici e di missionari inviati in tutto il mondo per diffondere il Vangelo. Garantiva una formazione intellettuale e un'educazione all'avanguardia per l'epoca e offriva la possibilità di condurre senza difficoltà studi scientifici in diversi campi dello scibili umano. Il Collegio era anche e soprattutto un importante centro scientifico. I gesuiti condussero studi di astronomia a Roma, ma anche di zoologia e di geologia, studiando i reperti e gli animali (imbalsamati) che i confratelli negli altri continenti inviavano loro. I missionari  dovevano possedere le conoscenze fondamentali per fare opera evangelica in terre straniere: oltre all'amore per la scienza, vi erano necessità pratiche all'origine del grande interesse scientifico della Compagnia. Fu proprio a Roma che Angelo Secchi compì le sue indagini astronomiche; Athanasius Kircher, il noto erudito e collezionista seicentesco, realizzò importanti studi in diversi campi scientifici, dalla medicina alla geologia, costituendo una delle maggiori collezioni di reperti al mondo. Sono due celebri personalità della scienza moderna che hanno contribuito molto al suo sviluppo. Inoltre, aspetto non meno importante, per decenni il Collegio ospitò uno dei primi osservatori astronomici romani ed italiani. Non si trascuravano naturalmente gli studi teologici per formare un clero capace di difendere il cattolicesimo e la Controriforma, anche in terra luterana e nelle terre appena scoperte. 

Alle spalle del Collegio, nel 1626 venne edificata su una precedente cappella la chiesa di Sant'Ignazio di Loyola in Campo Marzio, voluta dall'ordine dopo la canonizzazione del fondatore nel 1622. Era in origine di esclusiva proprietà della Compagnia ed era la cappella riservata gli studenti del Collegio. Vi lavorarono grandi artisti, da Carlo Maderno ad Andrea Pozzo, che realizzarono le raffinate e sublimi decorazioni e il ciclo di affreschi dedicati al trionfo di Sant'Ignazio di Loyola. All'interno della chiesa sono custodite le spoglie di San Luigi Gonzaga, gesuita milanese, ed è possibile ammirare la prospettiva della falsa cupola realizzata dal Pozzo nel punto di intersezione del transetto con la navata.

Probabilmente la meta più importante del nostro viaggio romano alla ricerca dei luoghi della Compagnia del Gesù è la Chiesa del Gesù, la chiesa madre dell'ordine, lungo Via del Plebiscito. Venne costruita rispettando i dettami del Concilio di Trento, ovvero con una sola navata coperta da volte a botte. L'architettura, come comprenderanno bene i gesuiti, può concretizzare e divulgare i fondamenti del magistero cattolico, come avvenne per la basilica di Santa Maria Maggiore. La chiesa fu non a caso dedicato al Santissimo Nome di Gesù e al Suo Trionfo, il cui mistero Sant'Ignazio volle comprendere nei suoi Esercizi Spirituali. 
Entriamo al suo interno non solo per ammirare questo capolavoro dell'arte barocca, ma soprattutto per pregare sulla tomba di Sant'Ignazio che qui fu tumulato nel 1637. La chiesa celebra ed esalta Gesù e custodisce nei suoi affreschi la gloria del Signore che lo stesso santo spagnolo ha per tutta la sua vita cercato di contemplare.

Il nostro viaggio devozionale ci ha condotto nei luoghi della Compagnia di Gesù per carpirne l'importanza e per pregare sulla tomba di un santo cattolicissimo, rivolgendogli una preghiera di ringraziamento o di intercessione. Abbiamo anche avuto modo di ammirare e provare un piacere immenso per la grande arte che a Roma è di casa. Ancora una volta constatiamo che l'Arte senza Dio è un arte priva di senso ed auto-riflessiva.
Il nostro viaggio continua.