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23 dicembre 2017

La Storia Sociale della Chiesa di mons. Umberto Benigni


di Enrico Maria Romano

Oscar Wilde diceva che “ci sono due modi per odiare l’arte: l’uno è odiarla, l’altro è di amarla con moderazione”. E la cosa non sorprende in un esteta, altalenante tra fideismo, estrosità, eccessi di ogni tipo e genialità poetica.

Parafrasando Wilde, potremmo dire dal nostro nulla che “ci sono due modi per non comprendere il presente: il primo sta nell’ignorare completamente la storia, il secondo nell’ignorarla in gran parte”.

Il mondo globalizzato e senza radici che dilaga come un virus attorno a noi, ci fa perdere a volte il senso del reale, e molti non pensano mai al fatto che senza i nostri bisnonni e trisavoli, noi non saremmo punto. E a ben vedere, senza i ripetuti parti di Eva e delle sue numerose figlie (il divieto di coniugio tra fratelli è infatti di diritto divino derivato e non originario), nessuno sarebbe, neppure uno solo.

Senza Dio poi e la sua incredibile volontà di produzione e di “pieno”, nessun ente avrebbe l’essere. Ci sarebbe dunque, da tutta l’eternità, Dio solo, pacifico sereno imperturbabile e beato come sempre fu (e sarà). Ma questa sarebbe davvero tutta un’altra storia…

Il fatto è che noi, uomini del XXI secolo dopo l’Incarnazione, dobbiamo imperativamente conoscere il nostro passato, in ciò che esso ha di bello mediocre o brutto, per capire, interpretare e finanche correggere il nostro presente, e più ancora per indirizzare meglio il nostro futuro.

Le ideologie di natura materialistica, come l’illuminismo del Settecento e il comunismo del Novecento, hanno sempre desiderato di fare tabula rasa del passato, specie del passato più spirituale, più teocentrico e più lungi dal materialismo.

Mille anni fa nessuno in Italia poteva dirsi non cattolico. La trascendenza divina si era incarnata a Betlemme e si era fatta Storia, e la storia degli uomini divenuti cristiani sembrava doversi definitivamente svolgere in accordo col piano divino su di essa.

D’altra parte, così disse Paolo VI (1963-1978), poco prima di morire al suo grande amico Jean Guitton: “Ciò che mi colpisce, quando considero il mondo cattolico, è che all’interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non cattolico, e può avvenire che questo pensiero non cattolico all’interno del cattolicesimo diventi domani il più forte. Ma esso non rappresenterà mai il pensiero della Chiesa. Bisogna che sussista un piccolo gregge, per quanto piccolo esso sia”.

Era il 1977, esattamente 40 anni fa. Dopo 40 anni di assunzione dell’edonismo come orizzonte culturale di fondo, questo “pensiero di tipo non cattolico” ha prevalso anche tra i battezzati o no? Lo giudichi con pacatezza il lettore, senza pregiudizi in un senso o in un altro, ovvero senza neofobia di destra o neomania di sinistra, come avrebbe detto l’eccellente storico del cristianesimo, mons. Umberto Benigni (1862-1934).

Proprio il magnifico affresco storico di don Benigni, di cui è stato appena pubblicato il terzo immenso volume (cf. U. Benigni, Storia Sociale della Chiesa, volume 3, Centro Librario Sodalitium, 2018, pp. 754, euro 25), ci ridà il gusto e l’amore della Storia in generale, e della storia cristiana in modo speciale.

Il Benigni (1862-1934) è stato un autorevole sociologo, storico, orientalista ed acuminato apologeta della prima metà del XX secolo, docente di lungo corso nelle Facoltà romane e nei seminari pontifici, oltre che battagliero giornalista su testate sia cattoliche che laiche (come la Nuova Antologia e La Fronda). Ma tra le caratteristiche precipue del suo fare cultura spicca, oltre ad un rigore critico d’avanguardia, la bellezza di una prosa e di un fraseggio che permettono di rileggere oggi, con empatia e trasporto, le sue narrazioni di quasi un secolo fa.

La sua opera massima, come ampiezza di pagine e come architettura di fondo, è senza dubbio questa Storia della Chiesa ora riproposta ai lettori italiani, e originariamente pubblicata in 5 volumi, dal primo uscito nel 1906, all’ultimo del 1933. Nelle intenzioni dell’autore, essa doveva comprendere tutto lo svolgersi dei 20 secoli del cristianesimo, ma la morte lo bloccò forse a metà dell’opera: dagli inizi alla crisi dell’età medievale.

Quest’ultimo volume appena uscito, e già datato 2018, il quale può essere letto indipendentemente dagli altri due, mostra ancora una volta l’intelligenza e la sapienza dell’autore, destinata però non solo agli specialisti, agli storici di professione e ai dotti. Ma si direbbe una sapienza storico-teologica di facile acquisizione e che, con un po’ di buona volontà, sembra avere la virtualità di rendere edotto e saggio il fruitore, specie se animato dallo spirito con cui la Storia è stata scritta: lo spirito di verità, che coincide con la vera libertà di spirito (assenza di faziosità, di adulazione e di partigianeria). La comprensione dei fatti storici che fecero la cristianità nel primo millennio, attraverso documenti note esplicative autori vari e diversi, è un aiuto importante e uno strumento necessario per farci capire chi siamo, da dove veniamo e dove dovremmo andare in futuro.

Umberto Benigni, oggi certamente poco noto perfino ai teologi e agli storici del cristianesimo, diverrà presto un punto di riferimento per “quel piccolo gregge” di cui sopra si diceva. Secondo noi, il grande italiano che fu fin nel midollo, ha centrato in pieno quel giusto mezzo che gli uomini di ragione si sono sempre posti davanti alla vita e al destino.

L’eccesso è dato dai rigoristi, riflessivi od impulsivi che siano, i quali tendono all’ingiusta od inopportuna costrizione con vincoli e gravami indebiti almeno nella loro esagerazione. Tale è l’eccesso di tradizionalismo statico, di tuziorismo, di neofobia. Il difetto è personificato dai latitudinarii o lassisti che tendono ad una indebita libertà (…). Questo difetto è a sua volta un eccesso di riformismo rivoluzionario, d’indisciplinatezza, di neomania. Il giusto mezzo è dato dagli equilibrati ai quali spesso è riservata la sorte di vedersi combattuti dalla coalizione tanto assurda quanto spontanea dei neofobi e dei neomani”.

Le sue proprie parole sono il manifesto della saggezza storica e cattolica a cui tutti dovremmo tendere.

http://www.libertaepersona.org/wordpress/2017/12/la-storia-sociale-della-chiesa-di-mons-umberto-benigni/



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25 febbraio 2017

L'uso politico della storia


di Enrico Maria Romano

Che l’uso della storia per finalità di indottrinamento o di proselitismo sia qualcosa di diffuso e di attestato, ecco una verità fattuale che nessuna persona di mondo si sentirebbe di contestare.

La cosa paradossale è che tale uso politico o ideologico, viene spesso anzi normalmente ritenuto appannaggio delle dittature e dei regimi autoritari (fascismi e comunismi) ed essendo sepolti questi, il problema sarebbe sepolto con essi. Riduzionismo evidente o angelismo beota.

E’ palese che qui si gioca con le parole o c’è chi fa, per ragioni di comodo, il finto tonto. Dal processo di Norimberga (1946) in poi infatti, è apparso più chiaramente che mai il valore del motto secondo cui “la storia la scrivono i vincitori”.

Le varie Giornate della memoria (selettiva), istituite nelle progressiste democrazie d’Occidente, hanno almeno questo di buono: aiutano a non dimenticarlo mai. I perdenti, specie quando essi non si sono limitati a perdere con le armi, ma hanno incarnato l’irruzione del Male del mondo, scrivono al massimo la micro-storia, la storia della comunità, la contro-storia, ma mai la Storia Ufficiale.

Gli armeni vivi e vegeti ancora oggi, nipoti di chi fu sterminato nel biennio 1915-16, hanno de facto meno diritto di ricordare pubblicamente i loro morti, rispetto ad altri popoli più fortunati. E d’altra parte nessun paese occidentale ha avuto finora il coraggio di istituire una giornata per il ricordo di quello che fu il primo genocidio del XX secolo, con oltre 1 milione di morti, e chi ci ha provato, ha poi declinato, parrebbe per pressioni molto forti… La Turchia, erede morale e culturale dell’Impero ottomano e dei Giovani Turchi che misero in atto la deportazione, parla di persecuzioni contro la minoranza cristiana armena, ma non accetta ancora i numerosi documenti che sono emersi in questo secolo e che concludono in favore dell’ipotesi genocidio (cf. Marco Impagliazzo, Il martirio degli armeni, La scuola, 2015 e il commovente La masseria delle allodole, di Antonia Arslan).

Le decine di milioni di morti dovuti al regime sovietico (1917-1989) o alla spietata dittatura di Mao (tra il ’59 e il ’61, il “grande balzo in avanti” causò oltre 20 milioni di vittime) vengono forse ricordati nelle scuole, nelle università e nelle società, al pari di chi fu ucciso durante la Seconda Guerra mondiale? La cosa non pare. Eppure tali genocidi, messi in atto dal dittatore cinese o da Stalin non sono di entità minore, e risultano cronologicamente successivi e dunque più vicini a noi. Ma certo passato non deve mai passare (quello dei vinti), mentre il passato dei vincitori è dimenticato subito, o ridotto a due righe di testo.

Il discorso in realtà è ben più ampio. Non è la sola memoria negata di vari genocidi antichi e recenti (come Hiroshima e Nagasaki) a fare problema. Ma è la lettura che viene offerta, specie nei manuali scolastici, di tutta la storia umana a dover essere analizzata e scientificamente criticata: la storia antica, medievale, moderna e contemporanea… L’Unione Europea e le sue commissioni hanno una concezione del tutto surreale dell’identità dei popoli europei, e si crede di poter favorire la pace, a base di nichilismo e di memoria selettiva. Ma i popoli, specie quelli di antica civiltà come il nostro, hanno radici che non si possono strappare per caso o senza colpa: chi vuole sradicare i popoli riducendoli a consumatori, fa di tutto per diluire le identità e spegnere le idealità che sono ad esse collegate. La colpevolizzazione degli europei (specie maschi, bianchi e cristiani) va di pari passo con il progetto mondialista di omogeneizzazione verso il basso e unificazione in nome della tecnica, ovvero del vuoto culturale.

I servili ministri della cultura e dell’istruzione dei paesi europei si adeguano al rullo compressore e spesso, come la nostra Valeria Fedeli, ne sono dei propugnatori ardenti. Lo scopo è sradicare, cancellare le differenze (culturali, religiose, sessuali, di civiltà), fondere e mescolare.

Gli antichi romani un tempo erano presentati agli studenti come i “civilizzatori” delle varie regioni del mondo dove arrivò il loro influsso, dal nord Africa sino alla Gallia e alla Britannia. Ora più spesso, vengono chiamati “colonizzatori” e il cambiamento terminologico non è innocuo (in guisa di contravveleno si consulti il sempre valido e disponibile "Fregati dalla scuola" di Rino Cammilleri, 2013).

La storia cristiana del nostro continente europeo è divenuta, a partire dell’illuminismo, il terreno fertile per un’opera di rilettura manichea così sfrontata e a senso unico, che supera la stessa lettura che ne diedero le ideologie anti-cristiane nel marxismo e del socialismo. Marx per esempio in più pagine della sua opera loda la società medievale (per il divieto ecclesiastico dell’usura e dello stesso prestito a interesse), e così non mancarono mai gli autori, di destra e di sinistra, laici o cattolici, che ammirarono a chiare lettere la fermezza dei martiri nei primi secoli, il sacro romano impero risorto con Carlo Magno, l’epopea delle Crociate (lodate per esempio da Mazzini), o la grandezza culturale e artistica delle cattedrali che sorsero in tutta Europa dal X al XV secolo.

Sfogliando oggi moltissimi libri di testo, e anzitutto i manuali di storia per i licei e le scuole superiori, se può dirsi in parte superata la retorica giacobina sui medievali secoli bui (in cui non v’era alcuna luce di bene, più o meno dal crollo dell’impero romano d’Occidente nel 476 alla scoperta dell’America!), si tendono a sottolineare sempre gli aspetti negativi, le carestie, le guerre, le carenze tecno-scientifiche, e insomma i limiti che ogni civiltà (non esclusa la nostra) presenta. Tutto pare scritto con un’ottica progressista che porta, anno dopo anno, lo studente ad illudersi che il mondo andrà certamente verso il meglio, tranne qualche rara parentesi di incredibile regresso, identificato con l’affermarsi delle destre o l’Ur-Faschismus di Eco: da Mussolini a Trump.

Uno studente romano non saprebbe spiegarsi come mai nella capitale d’Italia ci sia una piazza dedicata alle Crociate (in zona Tiburtina). Ma se furono infami violenze di saccheggio e di ruberia, mascherate da guerre sante, tipico esempio di una Chiesa ottusa e poco ecumenica come quella medievale, a che pro dedicarvi una piazza? Sarebbe quasi come istituire una via Auschwitz o un Corso Mengele…

Se nella civiltà cristiana si nota assai più il male che il bene, in ogni altra civiltà umana (indiana, africana, cinese, nordica, etc.), il rapporto si inverte misteriosamente. Così nell’islam, prevale la focalizzazione sulla cultura, sulla saggezza morale e il sapere astronomico dei dotti imam, ignorando o minimizzando le violenze sistematiche e continue, da Maometto a oggi, passando per le celebri scorrerie saracene e l’imperialismo della Sublime Porta.

Urgono quindi libri di testo più oggettivi per i nostri giovani, e in attesa di questi, è d’uopo studiare la storia in modo scientifico e direi formativo, specie per chi ha responsabilità educative a vario titolo. Da poco è stato ripubblicato un manuale di storia ecclesiastica che unisce in sé il rigore e l’acribia della scienza e l’amore per la verità del teologo non infeudato alle varie cricche storiografiche liberal o marxiste (Mons. Umberto Benigni, Storia sociale della Chiesa, CLS, 2 volumi, 2016-2017).

Questa storia della Chiesa, senza minimamente ignorare le colpe gravi delle varie autorità ecclesiali e le vicissitudini non sempre edificanti della cristianità, nota altresì, e oggi è più raro dell’unicorno, che i valori del Vangelo restano un faro e un punto di riferimento etico insuperabile per una civiltà che voglia fondarsi sulla roccia e non sulle sabbie mobili delle ideologie e del “progresso”.


 

21 febbraio 2017

La pornografia come sistema di controllo mentale (individuale e sociale)


di Alessandro Benigni

Parte prima: un quadro generale

E’ questo, quello che ci serve, prima di tutto: un quadro generale di riferimento, in cui tanti fenomeni, apparentemente isolati fra loro, possano essere collegati insieme e spiegati in relazione al controllo: dalle “comunità degli uomini-cane“, all’aborto, alla legalizzazione delle droghe, all’eutanasia, alla “teoria svedese dell’amore“, al divorzio, alla diffusione del consumo di psicofarmaci, aumento dei suicidi, depotenziamento cognitivo in ambito scolastico, e tanto altro ancora: non da ultimo, l’incredibile disegno di legge n. 2688, di cui ha dato chiarissima illustrazione Enzo Pennetta su Critica Scientifica. Un quadro, insomma, in cui collocare la pornografia contemporanea, per poter capire che cos’è in realtà.

Anticipo così la tesi che andrò a sostenere in questa e nelle prossime puntate:

La pornografia è un micidiale sistema controllo sociale.

Ma come agisce?

Tramite l’instupidimento, la distrazione di massa (era Noam Chomsky a spiegare questa tecnica), con la deprivazione sensoriale e mentale, con una progressiva e impressionante atrofizzazione del cervello e delle facoltà mentali superiori (linguaggio, significazione, quindi intelligenza latu sensu), ed in particolare attraverso un immane ed inevitabile processo di svirilizzazione del maschio e di trascinamento (nota n. 1) e condizionamento (nota n. 2) della femmina allo stato degradante di addetta a masturbazioni assistite, quando non di prostituta de facto.

Sì, svirilizzazione. Avete letto bene: la pornografia – come vedremo – si basa sull’effetto Coolidge e conduce a problemi di erezione, anche nei più giovani (deficit erettile) e mancanza del desiderio. Ma del versante biochimico andremo a parlare nella prossima puntata. Come andrò a mostrare nelle seguenti puntate, infatti, la pornografia si iscrive perfettamente tra le tecniche di controllo mentale, quindi di controllo sociale, non solo per la sua drammatica forza simbolica ma, come vedremo, per il suo effetto fisiologico misurabile, sul cervello. E quindi sul comportamento.

Per quello che ho visto, la normalizzazione (che è la premessa logica del controllo) indotta dal consumo di pornografia agisce su due livelli:

– un primo livello, in cui ci si abitua a considerare il rapporto unitivo tra uomo e donna come prestazione e consumo, nella riduzione dell’altro (prima immaginato e fantasticato, poi eventualmente anche realizzato) come dipendente rispetto all’io-spettatore rinchiuso in sé, incapace di un’autentica relazione. Una specie di monade, come avevo già indicato (vedi nota n. 3 a piè di pagina).

– un secondo livello deriva dall’assuefazione e dall’abitudine. L’abbruttimento del Sacro non è mai senza conseguenze. In questa fase,  esattamente per come avviene nelle droghe (ecco emergere l’aspetto fisiologico, di cui tratteremo nella seconda parte) il cervello di abitua e non si eccita più normalmente, con gli input naturali: una volta assuefatto, per stimolarlo c’è bisogno di qualcosa di più: ovvero di oggetti fantasticati sempre più fuori norma, più giovani per esempio, oltre che passare via via a pratiche sempre più estreme, fino alla sottomissione o alla tortura o alla violenza più bestiale, che col sesso non hanno più niente a che fare.

Il mio discorso introduttivo, quindi, è semplice.

E breve:

anche la pornografia è un’arma dell’Impero.

Anche se la giustificazione di questa tesi sarà chiara solo alla fine di queste micro riflessioni sul tema, posso già anticipare che come tutte le armi dell’Impero, questo metodo di controllo si presenta con la maschera del suo contrario: promette una maggiore libertà di espressione, una immediata realizzazione di sé stessi, al di là di dogmi e tabù. Mentre invece rende sudditi. Anzi: schiavi. E a due livelli: uno psichico, l’altro psichico. Nel seguito indicherò esattamente cos’ho trovato in merito.

Andiamo invece a marcare ancora solo un paio di cose sul quadro generale della faccenda.

Il mio assunto è che siamo nel mezzo di una morsa a tenaglia, di livello planetario, che sta giungendo alla fine. Molti sono i segni indicativi: l’uscita allo scoperto delle intenzioni mortifere, su tutto il pianeta, delle varie forze politiche che agiscono sul campo da un pezzo. L’accelerazione legislativa per restringere le libertà individuali. Gaffes clamorose, dei massoni, che finiscono per invitare Jovanotti ad una delle loro riunioni, e tanto altro ancora che per brevità per ora tralascio.

Una gigantesca operazione di ingegneria sociale, insomma, che ha avuto probabilmente inizio nel ’68 e si è via via perfezionata ed allargata negli anni seguenti. Il suo scopo è la completa riduzione dell’umanità a monadi-isolate (nota n. 3), ad esseri dall’intelligenza ridotta, dalla capacità di critica sempre più  atrofizzata, preferibilmente asessuati, sempre meno capaci di stringere rapporti reali, sempre più dipendenti, in particolare dalla Tecnica e dal Mercato.

Questa premessa potrebbe durare pagine e pagine (credo di aver già scritto fin troppo in merito): andiamo anche qui al punto.

Come ci co-stringe, questa morsa a tenaglia?

Ovvero:

Come agisce, in concreto, questa immane operazione di ingegneria sociale?

La pornografia, infatti, è un potentissimo mezzo di condizionamento, ma non è certo il solo.

Per chi riesce ancora a vedere, oltre che guardare, è chiaro: il controllo agisce nella scuola, tramite il depotenziamento cognitivo (nota n. 4). Come lo si ottiene? Direi che anche intuitivamente ci si può arrivare: attraverso una progressiva riduzione del potenziale formativo dei programmi, dei metodi, delle qualità e dell’autorità (oltre che autorevolezza socialmente percepita) del corpo docente. Ogni giorno abbiamo una nuova notizia sull’impoverimento culturale e cognitivo dei nostri ragazzi. Non credo sia il caso di soffermarsi molto a lungo su questo punto. Tutti avete visto il problemino di terza elementare di qualche lustro fa che gli studenti universitari oggi non sono più in grado di rispondere, vero? Cercatelo. Ha fatto il giro del web.

La morsa agisce poi con il depotenziamento della famiglia. Dal ’68 la famiglia è stata sistematicamente oggetto di un violentissimo attacco destrutturante: aborto, divorzio,  in tempi più recenti la “lotta per i diritti degli omosessuali” (che ha portato alla sostanziale equiparazione di qualsiasi tipologia di coppia allo status di “famiglia”, mentre altrove già si parla di terna, quaterna, etc.), costituiscono i tratti più vistosi di questa evoluzione drammatica. Non dobbiamo certo stupirci se perfino l’Accademia della Crusca cade nel trucco della dipendenza dalle neo-lingue, così com’è chiaro quando ci riferisce che “siccome la lingua cambia”, anche  anche il concetto di matrimonio deve cambiare. Pazzesco, vero: è la lingua che dà senso alle cose e non viceversa. Eppure siamo a questo punto, come avevamo già osservato (vedi nota 5). E’ tutto il nostro mondo culturale che si trova ormai impastato nelle paludi del relativismo e della “post verità“.

Ed è quindi chiaro come mai oggi siamo qui ad usare termini impossibili, che non hanno alcun legame con la realtà: è la famosa neo-lingua, progettata a tavolino e metodicamente inculcata nel linguaggio comune, fino ad impossessarsi dei cervelli. Perché è così che funziona:

chi stabilisce le regole della sintassi e della semantica, ha già vinto il gioco del controllo sociale.

E lo ha già fatto in partenza.

Ora, concludendo questa sommaria introduzione, non posso evitare un accenno rapidissimo al lavoro instancabile, coordinato, delle cause farmaceutiche e di chi oggi detiene il potere enorme di stabilire che cosa sia malattia e di che cosa no. Non ci deve stupire se il consumo e la dipendenza da psicofarmaci ha raggiunto oggi livelli spaventosi. e nemmeno che ci sia una correlazione col tasso dei suicidi (vedi nota 6). E nemmeno, logicamente, la planetaria campagna in atto per convincerci a morire: e a farlo alla svelta, soprattutto quando si è diventati un inutile costo, nella società dominata da chi regola l’azione sulla base del profitto e non certo sulla base della difesa della dignità umana.

Abbiamo visto cliniche dove i piccoli d’uomo vengono macellati da “operatori tanatologici“, per usare l’azzeccata espressione di Enzo Pennetta, che hanno il coraggio di farsi chiamare medici. Per poi essere rivenduti, a pezzi. Siamo attoniti, incapaci di rispondere alla pretesa di legalizzazione delle droghe. Anche se tutti sanno quanto siano dannose. Passando poi per la teoria svedese dell’amore ci dice com’è bello vivere soli. Morire soli. Come monadi, appunto. Siamo nell’epoca in cui i spopolano i bambini transgender e le bambole transgender. Siamo nell’epoca della “comunità” di “uomini – cane” … e degli accessori che servono per leccare i propri cani o i propri gatti.

La prima reazione, di fronte a questa carrellata (minima, vi assicuro), potrebbe essere quella di dedurre che il numero dei matti è in aumento. Deduzione corretta, ma incompleta. Proprio in base al mio assunto iniziale: dietro c’è un’immane operazione di ingegneria sociale. Ne avevo già cominciato a parlare qui (link).

Direi che come quadro iniziale, sia pure largamente incompleto, può bastare per farsi un’idea di cosa ci aspetta.

Nella prossima riflessione: come la pornografia agisce sul cervello. Elementi di biochimica del cervello e le basi neurofisiologiche della dipendenza.

https://ontologismi.wordpress.com/2017/02/21/pornografia/

Note

1) Trascinamento: già Pier Paolo Pasolini – uno dei nostri più acuti intellettuali del secondo dopoguerra, omosessuale intelligente – aveva avvertito il rischio farsi “trascinare” dal medium televisivo, fino al verificarsi di vere e proprie alterazioni del comportamento, e più in generale degenerazioni sociali e culturali. Per Pasolini il trascinamento, l’omologazione, era osservabile già a partire dagli strati sociali più culturalmente indifesi: i giovani di borgata avevano infatti iniziato a vestire, comportarsi, pensare seguendo passivamente i modelli proposti allora dalla televisione. Con un acuto riferimento alla biologia (cosa che fa pensare anche a Oswald Spengler e al suo capolavoro Il tramonto dell’occidente), Pasolini denominò questi fenomeni col termine di “mutazione antropologica”, indicando con questo termine anche il fatto che la variazione delle mode e dei desideri della collettività è decisa prima nei consigli d’amministrazione delle reti televisive nazionali e poi viene fissata nelle menti dei telespettatori tramite messaggi manipolatori subliminali, la pubblicità, i programmi d’intrattenimento e così via. In campo più marcatamente filosofico, non si può dimenticare che anche un pensatore del calibro di Karl Popper ha riflettuto con preoccupazione sulla violenza che la televisione fa ai più indifesi, soprattutto ai bambini. La televisione trascina, appunto. In “Cattiva maestra televisione” (1994), analizzando i contenuti dei programmi e gli effetti sugli spettatori televisivi, Popper era giunto alla conclusione che il piccolo schermo fosse diventato ormai un potere a sé stante, incontrollato, capace di immettere nella società modelli violenti, in grado di influenzare concretamente la visione del mondo, le scelte di vita, le azioni ed i comportamenti degli individui. La televisione cambia radicalmente l’ambiente e dall’ambiente così brutalmente modificato i bambini traggono i modelli da imitare: ne vengono trascinati. Tanto che se non si attuano contromisure, il rischio in cui si incorre – secondo Popper – è quello di avere giovani sempre più disumanizzati, violenti ed indifferenti. Certamente si può andare ben oltre lo scomodare Popper e Pasolini per sostenere l’idea che la televisione abbia un potere formativo o addirittura di manipolazione vera e propria che è spesso – soprattutto in relazione all’audience – smisurato. In questo senso dovremmo ricordare anche John Condry. Secondo questo studioso, occorre saper distinguere tra i fini “espliciti”, manifesti, del mezzo televisivo e i suoi fini “latenti”, e lasciare emergere la corrispondente diversificazione valoriale. La sua analisi diventa prevedibilmente lapidaria ed inappellabile nelle sue conclusioni: la televisione “…presenta idee false e irreali, non possiede un sistema di valori coerente se non il consumismo” , anzi, precisa lo studioso “i suoi valori sono i valori del mercato”. (John Condry, Thief of time, unfaithful servant. Television and the American child, 1993).

2) Il condizionamento è quel processo che si verifica con l’associazione di uno stimolo incondizionato (naturale) ad uno condizionato (artificiale) in un organismo, ove lo stimolo condizionato induce naturalmente una risposta della cui prossimità lo stimolo incondizionato (arbitrario) si avvale. Il concetto è di derivazione etologica. Ed è una modalità di apprendimento potentissima, proprio in quanto si basa sulla formazione di riflessi “associativi” o, appunto, “condizionati”. Il termine viene comunemente usato in due accezioni: il classico (o pavloviano, rispondente) e il condizionamento strumentale (od operante, skinneriano). Il primo tipo di condizionamento, scoperto e studiato dal fisiologo russo Pavlov, si riferisce ai processi che si verificano in un organismo ogni volta che due stimoli dotati di determinate caratteristiche vengono presentati in stretta contiguità temporale. Di tali stimoli, uno (stimolo incondizionato o SI) è in grado di provocare una determinata risposta (risposta incondizionata o RI), mentre l’altro (stimolo condizionale o SC) non è in grado di provocarla di per sé; in seguito all’accoppiamento ripetuto dei due stimoli, anche lo SC acquista la capacità di provocare una risposta (risposta condizionata o RC) assai simile a quella provocata dallo SI. Perché il condizionamento si possa verificare è necessario che lo SC preceda o si sovrapponga allo SI. Il secondo tipo o condizionamento strumentale, studiato in particolare dalla scuola americana sulla scia di Thorndike, Skinner e Hull, si riferisce ai processi che si verificano in un organismo ogni volta che uno stimolo, che abbia prodotto una risposta avente come effetto una ricompensa o l’allontanamento di una punizione, acquista in seguito a ciò maggiori probabilità di produrre la medesima risposta. La risposta che produce la ricompensa viene detta risposta condizionata (RC) e lo stimolo che la evoca viene detto stimolo condizionato (SC); lo stimolo provocato dalla RC viene definito stimolo incondizionato (SI) o, più frequentemente, rinforzo (Rf). La situazione sperimentale più comunemente usata nel condizionamento strumentale è la seguente: un animale affamato viene posto in una gabbia speciale, dotata di una leva che possa essere agevolmente premuta dall’animale e di una mangiatoia rifornita da un meccanismo automatico. Se il soggetto preme la leva (RC) una piccola dose di cibo (Rf) cade nella mangiatoia e l’animale la mangia: ciò rende più probabile l’ulteriore pressione sulla leva che verrà quindi nuovamente premuta provocando ancora la presentazione del Rf e determinando un ulteriore aumento della probabilità di esecuzione della RC. Entrambi i tipi di condizionamento hanno in comune caratteristiche che fanno pensare ad almeno alcuni meccanismi simili. Queste caratteristiche sono: l’estinzione, cioè la progressiva diminuzione e la scomparsa della risposta se lo SC in un caso e il Rf nell’altro non vengono più presentati; la generalizzazione, fenomeno per cui la RC viene provocata anche da stimoli molto simili allo SC; la discriminazione, per cui un animale riesce a distinguere fra due stimoli di caratteristiche sufficientemente differenti. I principi dell’apprendimento e quindi le possibilità del condizionamento sembravano essere universalmente diffusi nel regno animale, tanto da far parlare addirittura di un “principio unico”, comune a ogni animale; ma con l’allargarsi degli esperimenti ci si avvide che animali differenti rispondevano a condizioni uguali in maniera qualitativamente diversa. Se, per esempio, veniva cambiata la ricompensa nel corso dell’esperimento, e ne era somministrata una che non piaceva al soggetto, i ratti rispondevano peggiorando la performance, mentre i pesci rossi non variavano l’efficacia della risposta al mutare della ricompensa. Si parla di condizionamento avversivo, quando a un ratto viene somministrato un alimento di per sé innocuo, per esempio una soluzione di glucosio, e poi gli viene iniettata una soluzione tossica, per esempio cloruro di litio, il ratto eviterà in futuro di assumere quell’alimento. Il fenomeno viene spiegato con l’instaurazione di un processo associativo che mette in relazione l’alimento ingerito e il malessere sperimentato. Gli animali a dieta piuttosto ampia spesso ingeriscono solo piccole quantità degli alimenti che non conoscono, comportamento adatto a prevenire un eventuale avvelenamento. È possibile che attraverso le sensazioni procurate da questi alimenti decidano poi se continuare ad assumerne o meno. Anche variazioni delle caratteristiche dell’estinzione fra ratti, pesci rossi e tartarughe fanno pensare a differenze nei vari processi del condizionamento. Tutti questi studi hanno come fine non solo la scoperta dei processi del condizionamento in quanto tale, ma anche di quelli dell’apprendimento come fenomeno che necessariamente sottostà al condizionamento stesso. Tali studi sono oggi rivolti non tanto a generalizzare i processi di condizionamento dall’animale all’uomo – tra l’altro perché il condizionamento sull’uomo può essere e molto spesso è ben diverso – quanto a scoprire le modalità dell’apprendimento in ogni animale, secondo un’ottica etologica che mira cioè a conoscere il comportamento degli animali dal punto di vista evoluzionistico. Rientra in questo tipo di studi anche il problema dell’innato. Si è infatti notato che esistono processi innati di apprendimento che influiscono sulle performances di animali sottoposti a condizionamento in modo da impedire loro di rispondere “normalmente” alle condizioni sperimentali. Questi processi prendono il nome di malcomportamento e dipendono probabilmente dai cosiddetti “limiti biologici all’apprendimento” (constraints on learning). Accade così che un procione non riesca più dopo qualche prova a mettere un gettone in una cassetta, proprio perché l’animale in natura manipola il cibo prima di mangiarlo: il gettone non viene più buttato via perché “è” il cibo e il cibo non va certo gettato. Questi e analoghi esperimenti hanno convinto gli etologi che gli animali rispondono a situazioni simili in maniera dettata non solo dal contesto sperimentale, ma anche dai loro stessi metodi di nutrizione o più in generale di comportamento. Si va così facendo strada l’ipotesi che tipi diversi di apprendimento (e quindi di risposta alle condizioni di condizionamento) si siano evoluti separatamente l’uno dall’altro in differenti linee filetiche e che non si possa così generalizzare troppo facilmente ed estrapolare, da processi limitati a poche specie animali, principi generali che possono differire invece moltissimo da animale ad animale. L’ipotesi del “principio unico”, secondo cui l’apprendimento e il condizionamento obbediscono sostanzialmente alle stesse leggi in ogni animale, può così essere respinta. Gli esperimenti vengono effettuati non solo su pochi animali da laboratorio, ma altresì su un gran numero di animali anche filogeneticamente distinti, per poter condurre ricerche comparate sul condizionamento e descrivere una scala di modalità di apprendimento che rispecchi anche la filogenesi. (Cfr. Enciclopedia di Psicologia De Agostini)

3) “Monade animale“: per “monade animale” intendo (vedi cap. I, II, III e IV de “La monade animale”) la prefigurazione di un nuovo modello di uomo e di cittadino, funzionale al sistema globale del controllo e dei consumi (quello che io chiamo Impero) in cui la persona viene progressivamente ed impercettibilmente ridotta a “monade”, a individuo isolato e sempre più scisso (non più “in-dividuo”) nella sua interiorità, come nei rapporti e nei legami sociali. Convinto di essere poco più che un animale evoluto, e di averne più o meno lo stesso valore, incerto sulla propria dignità, sulla propria identità sessuale, sulla sfera inviolabile dei propri diritti e sulla sacralità della vita umana, sarà più facilmente ridotto ad essere totalmente manipolabile. Il sogno del mercato e la manifestazione più violenta della volontà di potenza, tipica del nichilismo imperiale, che stiamo subendo. E non da tempi recenti.

4) “Depotenziamento cognitivo“: ne abbiamo discusso nei cap. I, II e III de “La monade animale“. Ripeto qui solo quanto Giuseppe Semerari ricordava in un suo recente scritto: […] già il vecchio Weber, non aveva esitato a denunciare il pericolo di un’età degli “specialisti senza intelligenza“, preoccupati solo di applicare gli schemi concettuali di una razionalità tecnico-formale burocraticamente organizzata, ovverosia solo intenti “a costruire la gabbia di quell’assoggettamento dell’avvenire, al quale un giorno forse gli uomini, simili ai fellaga dell’antico Egitto, saranno costretti ad adattarsi impotentemente, se per essi una sistemazione buona dal punto di vista puramente tecnico… è il valore ultimo e unico che deve decidere sul genere della loro attività” (M. Weber, Gesammelte politische Schriften, Tübingen, 158, p. 320, cit. in G. Semerari, Filosofia e Potere, Dedalo, Bari, 1973, p. 212).

5) A questo proposito rimando qui: Gender: l’impossibile è possibile, anzi reale, Gender – follia: inventare parole per ciò che non esiste (il caso “Hen”), Gender – distruzione: attraverso il linguaggio – (Parte prima), Gender – distruzione: attraverso il linguaggio – (Parte seconda)

6) “In Italia è aumentato – ed è presumibile che stia crescendo tutt’ora – sia il consumo di antidepressivi che il numero dei suicidi. Lo rileva il Rapporto Osservasalute del 2015.”

 

23 giugno 2016

Elogio della storia della Chiesa


di Fabrizio Cannone

Nel lontano anno domini 2000 lo storico Roberto de Mattei notava, in margine ad un’opera sul grande Pontefice Pio IX, che “il punto debole del pensiero cattolico del XX secolo sia proprio quello storiografico”, senza però escludere con ciò altrettante debolezze come quelle da ravvisarsi nella catechesi, nella teologia dogmatica, morale e pastorale, nella cultura, in politica, etc. E continuava scrivendo così: “Di fronte a una storiografia laica aggressiva, militante, documentata, gli studi cattolici hanno oscillato tra un’apologetica priva di basi scientifiche e spesso meramente sentimentale e studi di indubbio rigore critico, ma viziati da complesso ideologico, se non addirittura da adesione alle tesi di fondo della storiografia liberal-marxista” (cf. Pio IX, Piemme, 2000, pp. 12-13).
Il giudizio è ineccepibile ora come quando lo leggemmo, per la prima volta, 16 anni fa. Esso anzi continua ad essere tristemente attuale e ancor più angoscioso in questo primo scorcio del secolo XXI. Riguardo al secolo XX invece, giova apportare una ulteriore distinzione. In effetti una storiografia cattolica, né meramente devozionale, né priva di basi scientifiche, né succube alla storiografia laica (liberale e marxista) esistette nel primo Novecento, ma soprattutto come prosieguo delle immense opere storiografiche del XIX secolo. Riguardo all’Ottocento infatti si pensi, per non citare né le riviste ecclesiastiche, né i Dizionari teologici (contenenti ampie sintesi storiche luminose) ai vari Hefele (1809-1893), Hergenroether (1824-1890), Pastor (1854-1924), e in Italia a Pietro Balan (1840-1893) e Cesare Cantù (1804-1895). Cinque nomi tra i tanti che da soli riempirebbero più di una biblioteca!
Questi autori nati e vissuti lungo i pontificati rinnovatori di Pio IX (1846-1878) e Leone XIII (1878-1903), ebbero degli allievi i quali, in un modo o in un altro, ne continuarono il lavoro – con lo stesso spirito – e questo sino alla metà del XX secolo, o se vogliamo fino ai pontificati di Pio XII (1939-1958) e di Giovanni XXIII (1958-1963). Un esempio di questi continuatori novecenteschi della grande storiografia cattolica ottocentesca, con la sua doppia valenza scientifica e apologetica, critica e teologicamente fondata, si ha per esempio, per citare solo le opere sistematiche di storia della Chiesa, in mons. Luigi Todesco e in Bihlmeyer-Tuechle.
Dopo la svolta conciliare (1962-1965), la teologia cattolica in tutti i suoi rami – ove più (l’esegesi) ove meno (il diritto canonico) – subì una sorta di “auto-secolarizzazione” (Ratzinger), e la storiografia cattolica scientifica, già vecchia di almeno un secolo, iniziò celermente a soffrire di quel complesso ideologico sopra menzionato che finì o per confonderla con la storiografia atea (che nega decisamente ogni apporto storico del sovrannaturale, per esempio nella biografia dei santi) oppure si riduce a macchiettismo storico-devoto, senza nervi, senza slanci, senza affermazioni o negazioni forti.
Un autore del tutto dimenticato e che proprio nel caos di oggi può far riscoprire la grande storiografia cattolica italiana, è mons. Umberto Benigni (1862-1934), docente di scienze storiche nelle Facoltà teologiche romane e collaboratore di primo piano di Papa Pio X (1903-1914). Noto soprattutto come fondatore del Sodalitium Pianuum, una sorta di contro-spionaggio cattolico per combattere il modernismo, mons. Benigni non è punto riducibile a ciò che lo rese più celebre e meno apprezzato. Il Benigni fu infatti un sociologo, un osservatore politico attento al panorama internazionale, un giornalista battagliero e moltiforme, uno studioso capace e un professore di lungo corso al Seminario Romano e all’Apollinare (dove ebbe come studenti don Ernesto Buonaiuti, e i futuri Pio XII e Giovanni XXIII).
La sua opera di più largo respiro è senza dubbio la Storia sociale della Chiesa pubblicata in numerosi volumi presso l’editore Vallardi dal 1906 al 1933. Il primo volume, uscito per la prima volta esattamente 110 anni fa, è appena stato riedito in forma anastatica e costituisce una miniera preziosa per tutti coloro che amano la Chiesa, l’opera della redenzione iniziata da Cristo e le scienze storiche (Umberto Benigni, Storia sociale della Chiesa. La preparazione: dagli inizi a Costantino, Centro Librario Sodalitium, 2016, pp. 456, € 20).
Di un’opera di oltre 400 pagine fitta di note e di bei ragionamenti non è facile esporre neppure a grandi linee i contenuti. Due punti fermi però vengono messi da Benigni a fondamento della sua ricerca, e vista la loro attualità, e in fondo per chi crede perennità, vale la pena di vederli in poche parole. Anzitutto il legame tra religione cristiana e civiltà umana. Nulla aiuta di più lo sviluppo della civiltà che la diffusione del cristianesimo: “la vera religione è la vera moralità senza di cui la civiltà non può essere che parziale e materiale, quindi manchevole nel più e nel meglio della vita sociale” (XIII). Sarebbe una banale asserzione per uno storico cattolico, se non fosse un’affermazione rarissima presso gli storici cattolici. “La religione è l’anima della civiltà, e tutto il resto non è che il corpo” (p. XIV).
Inoltre Benigni stabilisce, come criterio orientativo della ricerca storico-ecclesiastica, una distinzione che gli è propria tra il Regno della Chiesa ovvero la vita spirituale dei fedeli, cosa anzitutto interna, e l’Impero della Chiesa ovvero la vita esterna della comunità cristiana, comprendente in specie l’influenza morale sociale e politica del cattolicesimo presso l’umanità presa come tale. “L’impero della Roma cristiana, della Roma cattolica e papale, si è esplicato e si esplica in tutta la sua irradiazione della sua vita esterna. La sua forza e il suo prestigio intellettuale e morale, la sua influenza diretta e indiretta nel mondo, il suo peso che preme, vogliano o no, nella bilancia de’ suoi stessi nemico: ecco, propriamente, l’impero della Chiesa” (p. XVI)
Esiste quindi una corrispondenza biunivoca tra il Regno della Chiesa e il suo Impero. Tutti ammetterebbero che maggiore è la vita spirituale dei battezzati e maggiore sarà l’influenza cattolica del mondo. Ma la corrispondente, nell’ultimo cinquantennio teologico, non è più ammessa da alcuno e pertanto essa è decisiva: maggiore sarà la forza e il prestigio politico e sociale del cattolicesimo romano, e maggiore sarà, per forza di cose, la santificazione del gregge e dunque l’innalzamento della civiltà. Il corpo ha bisogno dell’anima certo, ma anche l’anima – almeno sulla terra – ha bisogno del corpo per non vagare nell’etereo… Le conseguenze di ciò sono attualissime e di tutto rilievo: i cattolici non debbono seguire i comandamenti solo per piacere a Dio, ma debbono farlo anche nell’ottica di costruire la vera civiltà. E’ necessario poi, altra conseguenza tratta da Benigni, che “il clero sia stimato anche come dotto, pratico, diligente, civile, se vogliamo più libero ed efficace il suo ministero religioso” (p. XVII-XVIII). Attualissimo e futuristico, per un vero rinnovamento della Chiesa. Insomma gli spunti di sicuro interesse non mancano.
Se un fine studioso dell’antimodernismo cattolico e del rapporto tra cattolici intransigenti e fascismo italiano (ed europeo) come Emile Poulat, definì la Storia del Benigni come “critica”, “sociale” e “realista”, ciò dà la misura di quella serietà di indagine che si ricollega pari pari allo spirito critico dei Bollandisti (fatto proprio da Leone XIII) e che rifugge in pari tempo da fideismo, sentimentalismo, apologetica a buon mercato o “con l’accetta” (tutto nero e/o tutto bianco: mentre nella storia, anche ecclesiale, è il grigio a prevalere).
Se dovessimo noi, nel nostro nulla, definire con un sol termine la Storia benignana e la stessa attitudine mostrata dal Benigni nella sua opera complessiva, non dubiteremmo di definirla risolutamente moderna.
Come giustamente nota l’editore nella prefazione: “La sua era allora – e lo resta ancor oggi – un’opera estremamente moderna, cosa (apparentemente) paradossale in un antimodernista. Moderna nel proporre non un manuale di storia ecclesiastica, come ve n’erano tanti, ma una storia ‘sociale’ della Chiesa […]. Moderna nell’accogliere pienamente il metodo critico nella storia anche ecclesiastica, sicuro che una sana critica storica non sarebbe mai stata contro la Chiesa e la verità […]. Moderna, infine, nello stile inimitabile, ironico e arguto, dell’autore” (p. IV). Stile graffiante capace di produrre nel lettore attento perfino grasse risate per le continue attualizzazioni benignesche dall’età di Costantino ai nostri giorni.
Aggiungerei, e ciò vale molto, stante la leggenda nera di un Benigni tradizionalista reazionario che guarderebbe al passato, che la sua Storia (che sarà pubblicata anno dopo anno fino al 2020) è moderna anche nelle fonti e nei testi citati. Lui che spese la vita per il trionfo del cattolicesimo, fondandosi sull’idea che “la vera religione è la base ed il presidio della vera civiltà” (p. XIII), usò e citò senza scrupoli esagerati autori come Strauss, Renan, Harnack, Mommsen, Duchesne, e molti altri di scuole storiche e ideologiche diverse ed avverse.
La storia si sa è maestra di vita. E la Chiesa è maestra dei credenti. La storia della Chiesa dunque è doppiamente maestra, e questo per il legame indissolubile cristianesimo-civiltà, vale anche per gli agnostici gli atei e gli anticlericali del XXI secolo.
 

03 giugno 2016

Contrordine compagni. Benigni ha detto sì


di Alessandro Rico

Roberto Benigni ha fatto la scoperta del secolo: la Costituzione più bella del mondo può essere ancora più bella. Gli anni passano, le rughe aumentano, la chirurgia fa miracoli.

Il repertorio di argomenti che Benigni ha addotto per giustificare il suo “sì” al referendum costituzionale sembra proprio un distillato della coscienza domata del “renziano controvoglia”: sono trent’anni che si discute di riforma, se non cambiamo ora non cambiamo più, se non altro è un inizio, poi si può sempre migliorare. E udite udite cosa risponde il guitto fiorentino a chi evoca lo spauracchio del regime, che per anni la sinistra ha brandito contro Berlusconi: «Dopo settant’anni di democrazia, se qualcuno volesse provare a farsi dittatore nell’Italia di oggi, verrebbe fuori un tiranno da operetta». Che è successo a Benigni? Siamo dinanzi a un classico caso di doppia morale, l’arte che i compagni hanno sempre esercitato con somma perizia? O semplicemente il comico è un esemplare di homo paraculus, quella specie che certo può vantare un glorioso successo evolutivo? Di canti della Divina Commedia da declamare in televisione ce ne sono ancora parecchi: la RAI val bene un voto.

Se seguire il consiglio del Roberto nazionale sia saggio, giudichino i nostri lettori rammentando la battutina su Berlusconi che il comico pronunciò davanti all’Europarlamento, con quell’arietta compiaciuta e pungente che solo certi toscani sanno esibire: «Ho una gamba ingessata perché in Italia qualcuno ha deciso di fare un passo indietro», alludendo alle dimissioni del governo Berlusconi e all’insediamento di Monti.

Un capitolo vergognoso della storia recente, tra interferenze di Stati esteri e colpi di mano di Napolitano, che il “popolo viola” ha salutato con demenziale baldanza, gettandosi a capofitto nelle mani dei carnefici bocconiani. Benigni, allora come oggi, dimostra di incarnare una delle caratteristiche del tipo italico, ereditata da secoli di dominio straniero, cortigianeria, (dis)onesta dissimulazione: è l’arte di saltare sul carro del vincitore, l’esatto opposto dell’anarchica irriverenza del poeta satirico, che bacchetta i potenti e castigat ridendo mores. Benigni è sempre stato pronto ad allinearsi al politicamente corretto, all’élite che occupava il panorama culturale nostrano e se ora abbandona al loro destino i vari Zagrebelski e Moni Ovadia, è perché ha trovato in Renzi un porto sicuro.

Della serie: se non puoi batterli, unisciti a loro. Chi da certi personaggi si aspetti coerenza e coraggio pecca d’ingenuità: questi sono primatisti di ipocrisia, uomini capaci di accumulare fortune (in denaro pubblico) mentre predicano l’uguaglianza e la redistribuzione dei redditi, camaleontici ideologi idealisti che al momento giusto sanno trasformarsi in campioni di realismo.
Insomma, Benigni ci insegna che evaporato Berlusconi, un nuovo mondo è nato: la Costituzione più bella del mondo può essere stravolta («Io sono affezionato in particolare alla prima parte, quella dei diritti e dei doveri, che per fortuna non si vuole toccare»; ah, ecco, eravamo noi ad aver capito male); la Repubblica nata dalla resistenza è ormai il partigiano reggiano di Zucchero; e l’involuzione autoritaria, che minacciava questa terra di democrazia ogniqualvolta Berlusconi fiatasse, oggi è un pericolo inattuale. Poco male. Basti dire che per me la Costituzione più bella del mondo è quella inglese, che non esiste.
Non saprei dire se la coerenza sia la virtù degli asini. Di sicuro non è la virtù dei furbi. La tecnica dell’arrampicata sugli specchi, invece, è una virtù mondana ma non cristiana. E come dice quel tale dei comitati del referendum: «Sia il vostro parlare sì sì, no no: il di più viene da Benigni».
 

17 dicembre 2014

“Povero” Benigni, si è perso sul più bello


di Alessandro Rico 

C’era quasi riuscito a piacermi. La prima serata di Benigni era stata magistrale, al netto di qualche inciampo. E pure l’avvio della seconda puntata sui Dieci comandamenti pareva promettente. Fino al quinto comandamento. Poi, il Roberto nazionale è caduto sulle marchette.
 

23 ottobre 2012

Il giullare Benigni e il feticismo della Costituzione

di Marco Mancini 

Ieri sera, poco dopo le 20, ero ospite a casa d’amici: il televisore era sintonizzato sul TG1. Ad un tratto, mi è apparsa chiara e evidente la ragione principale per cui non guardo quasi mai la TV, e ancora meno i telegiornali: troppo alto il rischio di imbattersi in figure come quella di Roberto Benigni, che si è infatti puntualmente materializzata.