All’indomani della Seconda Guerra Mondiale, la comunità
internazionale, scossa dall’orrore dei lager, convenne sull’importanza
di dover evitare il ripetersi di simili tragedie; mai più, fu la
promessa. Un impegno solenne e internazionale
che però non ha saputo frenare il riemergere di una fissazione che –
dice la storia – interessò il regime di Hitler ben prima dell’Olocausto:
quella eugenetica. Trattasi, in breve, della volontà di perfezionare
la specie umana, valutata alla stregua di una razza che deve essere
protetta, per così dire, da “contaminazioni” fisiche e genetiche. Questo
culto della perfezione, al di là delle immorali tesi che sottende, reca
con sé il rischio di allarmanti derive, come ha dimostrato l’Aktion T4,
il programma di sterilizzazione e soppressione col quale i nazisti, dal
1940 al 1942, eliminarono più di 70.000 loro concittadini disabili o
reputati tali.
Ebbene, ad appena settant’anni da quella stagione di barbarie, anche
se può sembrare assurdo, l’eugenetica è nuovamente tra noi. L’incubo del
miglioramento della razza è infatti tornato, anche se sotto mentite
spoglie: non più scienziati nazisti, ma affermati studiosi e, al posto
dei campi di lavoro, ospedali e laboratori d’avanguardia. Il risultato,
però, è il medesimo: l’eliminazione dei più deboli. La prova forse più
evidente viene dalla progressiva scomparsa delle persone affette dalla
Sindrome di Down. Non nascono più. Ne è un esempio quel che accade in
Inghilterra e Galles, dove nel 1990 le diagnosi prenatali di sindrome di
Down erano state 1.075, mentre nel 2008 hanno toccato quota 1.843
(+70%). Una crescita considerevole alla quale non è però corrisposto un
aumento delle nascite, che invece sono addirittura calate di 1 punto
percentuale, passando da 752 a 743. Merito, si fa per dire, del fatto
che le coppie che ricorrono all’aborto dopo aver appreso di attendere un
figlio Down, in Inghilterra, è pari al 92%. In Francia le cose non
vanno molto meglio se si considera che, in replica ad un emendamento che
prevedeva, per le donne incinte di bambini Down, l’indicazione di
associazioni «che si prendono cura dei bambini Down e le loro famiglie», il deputato Olivier Dussopt, avrebbe detto:«Quando
sento che “purtroppo” il 96% delle gravidanze con Sindrome Down finisce
con l’aborto, la vera domanda che mi faccio è perché ne rimane il 4%».
Ma l’attuale tendenza eugenetica è più ampia e non interessa la sola
Sindrome di Down, come ha avuto modo di spiegare anche Bromage, che ha
sottolineato l’esistenza di «un trend in aumento di diagnosi prenatale e di aborti di feti che sarebbero nati con disabilità» (Med. Humanities
2006; 32 (1):38-42). Ad ampliare il raggio dell’eugenetica prenatale,
da alcuni anni, c’è poi la diagnosi preimpianto, tecnica che consente di
selezionare, come fossero oggetti, gli embrioni privi di
malattie genetiche e dunque utili alla fecondazione extracorporea. Un
abominio, questo, ampiamente prevedibile e previsto dato che già tre
anni dopo il lancio del Progetto Genoma, mirato alla mappatura del patrimonio genetico umano (genoma), il biologo Bertrand Jordan scriveva: «L’impatto
del Progetto Genoma sulla società è lungi dall’essere insignificante.
Le nuove conoscenze che abbiamo ottenuto conducono all’eliminazione
degli embrioni attraverso la diagnosi prenatale e la possibile
interruzione della gravidanza» (Travelling Around the Human Genome,
Inserm 1993, p. 168). Così l’eugenetica ha preso piede al punto che,
per assurdo, nemmeno quando un bimbo disabile riesce a sopravvivere allo
screening prenatale e a venire al mondo, oggi, è al sicuro. Soprattutto
nella civile Inghilterra, dove il prestigioso Royal College of Obstetricians and Gynaecology, non più tardi di qualche anno fa, ha lanciato un appello a dir poco inquietante: «Let us kill disabled babies»,
lasciateci uccidere i bambini disabili. Parole che non abbisognano di
commenti e che tradiscono, di fatto, un odio preoccupante per i più
deboli.
Una categoria particolarmente a rischio, oggi, è anche quella dei
nati prematuri: uno studio europeo condotto su 1400 medici di 10 nazioni
ha messo in luce percentuali bassissime di neonatologi che
tenterebbero di rianimare un neonato prematuro di 24 settimane di età
gestazionale: in Olanda, ad esempio, appena l’1% dei medici ha
dichiarato che lo farebbe (Cfr. J Pediatr 2000; 137:608-15).
Una tendenza tutt’altro che isolata se si considera che circa vent’anni
fa, in Svezia, furono emanate raccomandazioni selettive e restrittive
con le quali si sconsigliava apertamente la rianimazione di neonati
prematuri. Ancora più impressionante, al riguardo, è l’esito di uno
studio del 2004 che ha messo in luce come l’80% dei medici francesi si
sia espresso favorevolmente all’eutanasia attiva in casi neonatali e
l’abbia persino praticata (Cfr. Arch Dis Child Fetal Neonatal 2004; 89:19-24).
A questo punto, sorge spontanea una domanda: come si è potuti
arrivare a tutto questo? Non più tardi di qualche decennio fa, lo
ricordavamo all’inizio, gli Stati si impegnarono in favore di una
stagione di pace e con la Dichiarazione universale dei diritti umani del
’48 si affermò che «tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti». Come si spiega, allora, l’attuale successo dell’eugenetica?
Per rispondere a questo interrogativo, occorre fare, anche
storicamente, un passo indietro ricordando anzitutto che l’eugenetica di
Stato non fu affatto una invenzione nazista, bensì statunitense. La
prima vera e propria legislazione in materia, infatti, fu emanata dallo
Stato del Connecticut addirittura nel 1896; ma, soprattutto, è curioso
notare come quando la Germania di Hitler, nel ’33, adottò leggi che
autorizzavano la sterilizzazione e l’aborto obbligatorio, fosse stata
già anticipata addirittura da 28 Stati americani. Segno che la barbarie
eugenetica, contrariamente a quel che si crede, non abbisogna affatto,
per manifestarsi, di feroci dittature, anzi: attecchisce meglio in
regimi politici democratici, dove il gran parlare di “diritti”, spesso,
trasmette alla gente un mendace senso di distensione. Apriamo qui una
parentesi per ricordare che la stessa Legge 194/’78, ancora oggi tanto
osannata da politici e intellettuali nostrani, apre de facto all’eugenetica laddove, al comma 2 dell’articolo 6, annovera le «rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro» tra le cause che possono giustificare l’aborto procurato dopo il novantesimo giorno dal concepimento.
Tutto questo per stare sul versante politico. Le sue radici
filosofiche dell’eugenetica invece, devono essere ricercate nel pensiero
di Francis Galton (1822-1911), cugino di Charles Darwin e inventore del
darwinismo sociale, teoria fondata sull’opportunità di incoraggiare la
procreazione dei “migliori” e di limitare, invece, quella degli
individui reputati di ceppo scadente, inferiore o malato. Un
chiarimento di questa prospettiva ce la offre Friedrich Nietzsche
quando, con parole inequivocabili, scrive:«I deboli e in malriusciti devono perire, questo è il principio del nostro amore gli uomini» (L’anticristo, Adelphi 1970, p.169). In epoca contemporanea, considerazioni simili sono state riprese da Aldous Huxley, primo direttore dell’UNESCO e presidente, per diversi anni, della Eugenetics Society, il quale, nel suo Ritorno al Nuovo Mondo (Mondadori, 1961), fece capire di essere terrorizzato dalla prospettiva di «una maggioranza di umani di qualità biologicamente inferiore».
Per venire agli ambienti scientifici, anche il celebre zoologo Desmond
Morris ebbe a dirsi quasi rammaricato dal fatto che, finora, «le fantascientifiche idee allevamenti
di bambini, attività sessuale in comune, sterilizzazione selettiva, e
divisione dei compiti riproduttivi sotto il controllo dello Stato, non
si sono avverate» (La scimmia nuda, Bompiani, 1987, pp. 107 – 108).
Ora, dietro questa pesantissima svalutazione della dignità umana,
favorita oggi anche da una sorta di riduzionismo consumistico che tende
ad equiparare il valore delle persone alle loro abilità o capacità, c’è,
in sostanza, un’antropologia nichilista, priva di orizzonti metafisici e
incapace di cogliere la grande verità che il cristianesimo, con
Agostino – ma anche con tantissimi altri -, ha affermato a chiare
lettere: «Ogni uomo è una persona» (De Trinitate, XV,
7, 11). Significa che ciascuno di noi – a prescindere dai tratti
intellettuali, fisici o anagrafici che lo caratterizzano – rappresenta
un patrimonio unico, di valore inestimabile. E merita, in quanto essere
umano, di essere accolto, ascoltato, amato. Senza se e senza ma.
http://giulianoguzzo.com/2012/07/09/il-ritorno-delleugenetica/
Pubblicato il 12 novembre 2015
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