di Stefano Sala
“A dirla in breve, come è l'anima
nel corpo, così nel mondo sono i cristiani.
L'anima è diffusa in tutte le parti del corpo e i cristiani nelle città
della terra. L'anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano
nel mondo, ma non sono del mondo.” (lettera a Diogneto)
Ma cosa ne è di un corpo
senz’anima?
Sono molte ormai le zone del
mondo dove i cristiani vengono perseguitati in quanto tali, ma probabilmente
come è molto in voga pensare che l’anima non conti, o non ci sia, così forse
qualcuno pensa che la scomparsa dei cristiani non sarebbe poi un gran problema
per il corpo-mondo. E la scomparsa dei cristiani nelle aree dove sono
maggiormente colpiti, davvero interessa e coinvolge noi cristiani d’occidente?
Il patriarca dei cristiani caldei
dell’Iraq, padre Louis Raphael Sako, martedì 21 ottobre è venuto a parlare
al teatro Dal Verme di Milano di fronte a una folta platea, proprio per farci
sentire coinvolti dalla sorte dei 120 mila cristiani (in costante aumento)
della piana di Ninive che da quest’estate han dovuto lasciare le loro case in
fuga dall’estremismo islamista dell’Isis. L’incontro “Sperando contro ogni
speranza” è stato reso possibile dalla fondazione Tempi e il Centro Culturale
di Milano in collaborazione con l’Arcidiocesi, rappresentata dal vicario don
Luca Bressan, che ha aperto l’incontro portando i saluti dell’arcivescovo. E’
stato un dialogo breve ma intenso tra il giornalista di Tempi Rodolfo Casadei e
padre Sako, presentato dal direttore del cMc Camillo Fornasieri.
Padre Sako ha raccontato della
sua gente, delle famiglie che han dovuto lasciare ogni cosa da un giorno
all’altro, famiglie alle quali abbiamo potuto dare concretamente un volto
grazie al filmato di Casadei che ad agosto ha potuto visitare le comunità
cristiane e yazide, migliaia di persone in alloggi di fortuna, case ridotte a
qualche materasso per terra e lenzuola come pareti. Questa gente ci dice Sako
ha la speranza di tornare alle proprie case, anche se molti decidono di
scappare in occidente perché non hanno più niente e temono che né l’esercito
nazionale, né quello curdo, molto meglio organizzato, riescano a restituire
loro ciò che hanno perso. Anche rispetto all’intervento della coalizione
internazionale, a guida americana, nutre dubbi sulla sua reale efficacia, se
limitata all’intervento aereo; così come dubita dell’utilità di piccoli gruppi
di cristiani armati che sono sorti presso alcune comunità colpite dall’Isis: le
definisce un vero e proprio suicidio, suggerendo come sarebbe meglio per i
cristiani partecipare alle formazioni dell’esercito curdo o iracheno. La gente
non si aspetta troppo da queste soluzioni politico-militari, che già hanno
portato al passaggio da una dittatura all’anarchia più violenta, ma chiedono da
parte nostra vicinanza e preghiera. Hanno bisogno di sentire che non sono soli,
ma che c’è una comunità che a loro pensa e che per loro prega. E qui il
patriarca esorta i presenti e i cristiani d’occidente tutti a “tornare alla
propria religione”, a viverla e a non vergognarsene, davanti al nostro mondo
secolarizzato e davanti ai musulmani, ricordandoci che grazie ai cristiani
d’Europa il cristianesimo è arrivato in Africa e in Asia. Ci sollecita ad
essere forti nella fede, e ad essere ovunque una sola Chiesa, ricordandoci che
ogni cristiano, nel suo essere tale, è missionario, è mandato.
Afferma anche in modo chiaro che
le armi saranno insufficienti se il mondo musulmano non vorrà una volta per
tutte cambiare, promuovendo una nuova cultura, modificando i programmi di
educazione religiosa, perché non siano più improntati al pregiudizio nei
confronti di cristiani ed ebrei, fomentando una cultura dell’odio che non
lascia spazio a orizzonti di giustizia e di pace. E’ deciso quando chiede
maggiore trasparenza e correttezza dalle guide delle comunità musulmane, perché
nelle moschee parlino maggiormente di pace e promuovano il rifiuto della
violenza e dell’estremismo. A proposito dell’ambiguità cita una lettera aperta
di capi religiosi musulmani dove si condanna l’estremismo, ma nella quale si
usa il termine “tolleranza” in modo del tutto inadeguato e pericolosamente
interpretabile, come se con “tolleranza” si volesse dire “Io permetto che tu viva, anche se non lo
meriteresti”. Con queste premesse è impossibile parlare di rispetto reciproco.
Aggiunge ancora che una condizione essenziale per un cambiamento del mondo
musulmano è che venga anteposto il principio di cittadinanza a quello di
appartenenza religiosa, perché questa non sia una discriminante nella vita
civile e sociale dell’individuo.
Padre Raphael Louis, che davvero
vive ogni giorno in una condizione che umanamente, razionalmente, potrebbe
indurre chiunque alla disperazione, è stato con le sue parole e la sua presenza
testimone di Speranza. Lui in questa situazione ha deciso di rimanere, di essere
il patriarca dei cristiani e anche dei musulmani, convinto che le cose dovranno
e potranno cambiare.
E noi? Sapremo raccogliere il suo
invito al coraggio di testimoniare la nostra fede, così da essere ovunque una
sola Chiesa? Una testimonianza che, per ora, non ci chiede il prezzo del sangue,
ma che è ormai evidente come non sia più così scontata, e soprattutto accettata
dagli ambienti “che contano”. Intanto accogliamo l’invito di padre Rapahel
Louis Sako a prendere coscienza della situazione dei cristiani in Iraq, e a
pregare per loro.
Questo, per ora, possiamo farlo.
Questo, per ora, ce lo lasciano ancora fare.
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