di don Mauro
Venerdì
3 ottobre nelle sale della Cattolica di Brescia la Fondazione
San Benedetto ha promosso una contestata tavola rotonda sul beato
Paolo VI, ospiti Giacomo Scanzi e Giuliano Ferrara, rispettivamente
direttori del Giornale di Brescia e del Foglio. Contestata
soprattutto la presenza del secondo che, ateo e - quel che è peggio
- conservatore, non è stato ben accolto dalla frondosa claque
di
progressisti - clero e laicato - che tanto rumoreggia nella città
della leonessa. La serata si è aperta tra i saluti
dell'organizzazione nella persona del presidente, Graziano Tarantini,
che ha dovuto ribadire una verità banale, scontata, ma evidentemente
non ancora depositata nella coscienza di tanti cittadini: dobbiamo
difendere la libertà di confronto ed opporci ad ogni promozione di
ideologie a senso unico, paurose di confrontarsi con l'altro.
Una semplice e penetrante lezione di civiltà e democrazia, di cui
Brescia aveva evidentemente bisogno.
Nel
loro primo intervento i due ospiti hanno tratteggiato una sorta di
profilo biografico del beato Pontefice, sottolineando ognuno
alcune caratteristiche specifiche. Per Scanzi Montini va letto nella
prospettiva della modernità criticamente assunta. Se la modernità è
da intendersi con Del Noce quale processo irreversibile di
secolarizzazione, Montini è stato l'uomo capace di farsi prossimo
all'uomo moderno, per ascoltarne la disperazione e la solitudine, pur
senza condiscendervi; personalità forte sempre pronta ad
obbedire, ma al contempo capace di difendere ed esprimere le proprie
ferme ragioni specie davanti a comandi ingiusti; Papa nella tempesta,
sì, come suggerisca il titolo della serata, ma di una tempesta che
nei suoi anni iniziava e nei nostri sembra infuriare. L'Elefantino,
prendendo parola, preferisce un aggancio soft, diplomatico,
sufficiente a tener chiusa la bocca dei contestatori e dei loro
scagnozzi da centro sociale accorsi all'incontro, ed esordisce con un
album di ricordi, quelli del giovane comunista affascinato dalla
santità culturale del curiale aristocratico, chiamato a
transitare la Chiesa dallo stile dei Pii a quello pastorale di
Giovanni XXIII. Di questo Paolo VI sembra apprezzata soprattutto
la miscela di scienza e di fede, di ascolto e fermezza: la
scienza di chi ha sempre promosso la cultura e l'aggiornamento in
tutte le sue forme, la fede che ha resistito "sia alla
telecrazia che alla demoscopia", per dirla con Ratzinger,
l'ascolto di chi ha osservato l'evolversi dell'assemblea conciliare
ormai ridotta ad una "Pallacorda", la fermezza di chi non
solo arginò ma anche guidò su temi ardui quali famiglia e
sessualità: aveva già capito tutto della scienza che volge al
fabbricare e strumentalizzare, in barba all'amore e al dono, e vi si
era opposto lui solo, fino a quella sua ultima e dolorosa enciclica
che lo consacrò - aggiungo io - novello Geremia, profeta vero e
inascoltato.
La
seconda parte del dibattito è ripartita da una considerazione
perentoria di Tarantini: un pensiero non cattolico sta divenendo
dominante nella Chiesa, e forse sarà vincente nei tempi presenti, ma
non sarà mai cattolico. Ad essa ha fatto eco la riflessione
breve ma intensa di Scanzi, che ha illuminato con grande finezza e
puntualità il rannodo teologico tra Carità divina ed esigenze
dell'amore umano: l'ultimo non si dà prescindendo dalla prima. E
qui si intravede una sfida cruciale "della nostra dimensione
folle e drammatica" in quanto temi così delicati sembrano
sequestrati dal dominio della "antiparola", per esprimerci
con lo stesso Paolo VI, in una continua mistificazione dei termini e
in una crescente confusione della realtà da cui però non possiamo
attenderci in alcun modo la felicità vera tanto cercata. Ha chiuso
quindi Giuliano Ferrara con un serrato domandare retorico, fatto di
controluce e trasparenze, in un dire e non dire attorno al problema
del giusto confine tra giustizia e misericordia, tra obiettivi pur
santi e tecniche o compromessi attuati, tra linguaggio adatto al
popolo e forzature della dottrina. Chiarissima la sottile
polemica verso Papa Francesco ed il Sinodo sulla famiglia, mai però
declinata in modo aperto o provocatorio, bensì modellata sulla
figura di Papa Montini, quale modello da cui imparare anche per
l'oggi che la più alta forma di carità è proprio la politica, da
lui sempre vissuta con uno stile diffidente verso il facilismo e
verso il minimismo dogmatico, ma attraversato da una fede inconcussa.
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