di Giuliano Guzzo

Il primo è quello dei sedicenti paladini dell’autodeterminazione, vale a dire il ragionamento secondo cui, poiché questo fenomeno effettivamente esiste – come peraltro già testimoniato da casi come quello del giornalista Lucio Magri (1932-2011), recatosi in Svizzera proprio per una procedura di morte volontaria assistita – tanto vale prenderne atto regolamentandolo anche nel nostro Paese, senza costringere decine di famiglie ad un macabro pellegrinaggio che altro non fa che aggiungere tristezza alla tristezza; ne va, secondo coloro che si riconoscono in questa prospettiva, del rispetto delle persone, del loro dolore e, soprattutto, delle loro scelte. Il secondo modo di affrontare la realtà, purtroppo crescente, del suicidio assistito è quella d’interrogarsi sulla stessa: perché accade tutto questo? Cosa spinge decine, anzi ormai centinaia di persone in tutta Europa e non solo a scegliere il Canton Zurigo per porre fine alla loro esistenza? Un certo modo di affrontare la questione – quanto meno sbrigativo – si limita, lo abbiamo detto, a registrare il fenomeno sottolineando come questo vada acriticamente accettato ed altro non sia che il modo scelto da alcuni per porre fine alle proprie sofferenze. Si tratterebbe dunque di una collettiva e legittima risposta al dolore fisico.
In realtà, come evidenziato sia da alcune ricerche precedenti [2] sia dallo studio citato poc’anzi, non solo non è la sofferenza fisica a determinare la totalità di preferenze per il suicidio assistito, ma lo è sempre meno. Un aspetto già emerso anche per quanto riguarda l’eutanasia, pratica solo in minima parte giustificata dalla volontà di fermare il dolore. Valga, per tutti, l’esempio del celebre processo celebratosi «in Olanda nel 1973 contro il dott. Potsma, accusato di aver soppresso la propria madre, malata terminale di tumore. Alla richiesta se i dolori della donna avessero raggiunto il limite dell’intollerabilità, l’accusato risposte: “No, non erano intollerabili. Certamente le sue sofferenza fisiche erano aspre. Ma erano le sue sofferenze spirituali ad essere divenute insopportabili”» [3]. Se a queste si aggiungono altre evidenze – come la significativa diffusione della depressione fra i malati di cancro [4] o l’accertato legame fra presenza di sintomi depressivi e disperazione e richiesta di morire [5] – diventa definitivamente evidente un fatto, e cioè che il pellegrinaggio per il suicidio assistito, prima che costituire una domanda, evidenzia in realtà una mancata risposta in termini di assistenza. Attenzione: con questo non s’intende in alcun modo gettare ombre sulla professionalità medica o infermieristica dal momento che quello sanitario è solo uno dei tanti versanti assistenziali.
Questo perché esiste un ben più vasto ambito relazionale che investe la persona – si pensi a parenti, ad amici, a colleghi – che non può non essere chiamato in causa quando un soggetto manifesta la volontà di morire. Certo, si può sempre prendere atto di una sofferenza (psicologica o fisica che sia) limitandosi assecondarla col pretesto del rispetto della volontà altrui. Ma si tratterebbe, per l’appunto, solo di un pretesto, di una scusa o, più precisamente, di una scorciatoia. Non occorre infatti molto per capire che alla collettività eutanasia e suicidio assistito costano molto meno – economicamente, ma prima ancora umanamente – di vicinanza e cure fino all’ultimo. Molto meglio, intercettata l’intenzione di morte, non ostacolarla o addirittura sostenerla, che cercare di arginarla e convogliarla nella speranza. Il punto è che così facendo non incoraggeremmo “solo” l’attuale “pellegrinaggio della morte”, né consentiremmo “solo” innumerevoli suicidi. No: finiremmo per indebolire, fino quasi ad eliminarlo, quel legame solidaristico senza il quale la sofferenza delle persone malate sarà crescente ma anche la vita di chi ha la fortuna di essere in salute, col tempo, si tradurrà in sofferenza. E questo non a causa della cattiva sorte o per via di qualche maleficio, ma per il semplice fatto che la persona anziana o malata altri non è che colui che, un domani, saremo noi.
Ne consegue che l’abbraccio che oggi neghiamo o comodamente scambiamo per richiesta di morte è lo stesso di cui, un giorno, potremmo aver bisogno. Di qui un ultimo dubbio: vale davvero la pena accettare il “pellegrinaggio della morte” oppure è il caso di esaminarlo studiandone le cause e cercando, per quanto possibile, di fermarlo? La scusa dell’autodeterminazione vale l’abolizione dell’assistenza totale ed incondizionata, se non quando espressamente richiesta? Non sarà che accettando eutanasia e suicidio assistito la strada che s’imbocca è molto più pericolosa ed inquietante, come del resto mostra il macabro caso della Svizzera, di quello che sembra? Vista la posta in gioco – la sopravvivenza del legame di solidarietà – è almeno il caso, anche se l’esercizio in effetti non è dei più semplici, di farsi qualche domanda.
Note: [1] Cfr. Gauthier S. – Mausbach J. – Reisch T. – Bartsch C. (2014) Suicide tourism: a pilot study on the Swiss phenomenon. «Journal of Medical Ethics»; doi:10.1136/medethics-2014-102091; [2] Cfr. Steck N. – Junker C. – Maessen M. – Reisch T. – Zwahlen M. – Egger M. (2014) Suicide assisted by right-to-die associations: a population based cohort study. «International Journal of Epidemiology»; 1–9; [3] D’Agostino F. L’eutanasia come problema giuridico, «Archivio Giuridico», Mucchi Editore, Modena 1987, p. 37; [4] Cfr. Bottomley A. (1998) Depression in cancer patients: a literature review. «European Journal of Cancer Care»; Vol.7(3):181-191; [5] Cfr. Tiernan E. – Casey P. – O’Boyle C. – Birkbeck G. – Mangan M. – O’Siorain L. – Kearney M. (2002) Relations between desire for early death, depressive symptoms and antidepressant prescribing in terminally ill patients with cancer. «Journal of the Royal Society of Medicine»; Vol. 95(8): 386–390.
Pubblicato il 04 settembre 2014
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