26 maggio 2013

Un paese malato di aborto (I parte)

di Ilaria Pisa

Ci informa Lea Melandri, giornalista voce de La ventisettesima ora con lunga esperienza in pedagogia e pubblicistica, di vivere in un Paese “malato”. La diagnosi è condivisibile, ma il prosieguo del titolo fa aggrottare la fronte: “...in cui l’aborto legittima la violenza sulle donne”. Prego?

L’unica lettura sensata che sovviene – da giurista di quart’ordine, so che di un enunciato linguistico va preferita l’interpretazione che gli conferisce un senso, a quelle che non gliene concedono alcuno – è che l’aborto sia, effettivamente, una violenza nei confronti del corpo e della mente femminile, come dimostra la realtà clinica e psicologica (ex multis, questo studio). Non è tuttavia questa la prospettiva dell’autrice.

Si discute molto in questo momento della scelta di fare o non fare figli, e della violenza quotidiana che subiscono le donne per lo più da parte di uomini con cui hanno intrattenuto legami amorosi e famigliari. Come si fa a non vedere il legame fra due questioni di primo piano nel rapporto tra i sessi e il ritorno di quella grande ossessione della cultura maschile più conservatrice, fatta propria purtroppo anche dalle donne, che è l’interruzione volontaria di gravidanza?” È indubbio che l’IVG sia diventata, per certe donne – fortunatamente una minoranza –, oggetto di un’autentica mania. Chiunque abbia bazzicato Twitter nei giorni antecedenti la Marcia per la Vita 2013 ha potuto toccare con mano il ricorrere ossessivo nelle rivendicazioni femminist(erich)e del presunto “diritto” a scegliere della vita o della morte del proprio nascituro, quasi che la lotta per il pieno riconoscimento delle potenzialità femminili – lotta di cui posso non condividere i toni ma di cui trovo sensate alcune istanze di fondo – si sia risolta da circa trentacinque anni nel culto al totem della legge 194. Suppongo che persino una femminista di lungo corso trovi questo un poco riduttivo. Nondimeno è l’unico punto su cui possiamo concordare, seppure con intenti diversi, con l’autrice; il legame apoditticamente istituito tra la scelta di procreare e la violenza sulle donne, infatti, rimane fumoso.

Non si osa ancora toccare la legge, ma si raccolgono firme per provvedimenti legislativi a livello europeo, a tutela dell’embrione, che la modificherebbero nella sostanza”. L’autrice parla della Marcia per la Vita, parla di One of Us, parla di noi insomma. Mostra anche di conferire la giusta importanza alla battaglia sacrosanta per i diritti del più piccolo, anche in senso evangelico, tra i figli di Dio: l’embrione.

Non si dice esplicitamente che le donne che abortiscono sono delle assassine, ma lo si lascia intendere nel momento in cui si parla di «vita umana» e di diritti «fin dal concepimento»”. Già: se gli abortisti vengono posti di fronte alla (innegabile) realtà che il grumo, il girino, il feto con gli occhietti chiusi e il neonato con gli occhioni vispi sono esattamente lo stesso essere umano in tappe diverse della sua evoluzione, possono soltanto avere due reazioni, se sono onesti. Ammettere che si tratta di assassinio, di infanticidio, e che pertanto l’aborto è un orrore da sradicare; oppure ammetterlo, ma ritenerlo moralmente accettabile e spingere il ragionamento fino alle estreme conseguenze (nel tristo capitolo del c.d. aborto post-natale).

Forse all’autrice ripugna che una donna pensi il proprio figlio come umano, perché ciò lo renderebbe portatore di diritti (viene alla mente qualche pagina di Dacia Maraini); e il diritto del nascituro ripugna, perché rivela la reale voluntas legis dell’art. 1 l. 194/78, legge sì ingiusta, ma che al contrario della “mentalità abortista” – artificio dei think tank radicaloidi – serba un minimo contatto con la realtà naturale e giuridica.
La disposizione citata elenca infatti quattro priorità. Tre esplicite: il diritto alla “procreazione cosciente e responsabile”, concetto pregnante, lontanissimo dal risolversi in un volgare quanto giuridicamente inconsistente “diritto all’aborto”; il “valore sociale” della maternità, elemento la cui presenza nella norma si giustifica a mio avviso unicamente come indizio del fatto che la donna incinta è già madre; la “tutela della vita umana dal suo inizio”, ossia non dalla nascita – come qualche ipocrita, o ignorante, suole affermare –, ma dal concepimento. Il quarto elemento, non esplicitato, è il diritto alla salute della donna. Tra questi elementi, soprattutto tra il primo, il terzo e il quarto, deve realizzarsi il c.d. bilanciamento, ossia l’operazione che risolve in modo più o meno soddisfacente un conflitto tra diritti di rango pari o molto simile. Dei tre fattori citati, gli unici davvero commensurabili nel valore sono la vita del nascituro e la salute della madre; non serve peraltro un’ampia cultura in materia di legittima difesa e di stato di necessità, per comprendere che essi potranno trovarsi sul medesimo piano solo ove la minaccia alla salute della donna sia di specialissima consistenza.
Legge immorale, si è detto, perché consente di operare bilanciamenti abborracciati, arbitrarii e iniqui; legge il cui primo articolo è un patchwork di rivendicazioni, politichese, contentini. Ma non facciamo dire alla l. 194/78 quello che neppure essa dice: l’aborto può essere l’infausta risultante di un giudizio comparativo tra beni giuridici, ma questo non ne fa un diritto.

Leggi la seconda parte qui.
 

1 commento :

  1. la nascita è alla base di ogni storia umana e, ancor più, alla radice di ogni Civiltà storica.

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