Anche
un giurista che intitola il suo ultimo saggio Lo Stato minimo, sembra
vulnerabile al mito della dittatura dei mercati. Antoine Garapon, intervistato
da Avvenire, mescola con disinvoltura principi autenticamente liberali al must intellettuale di quest’epoca di
crisi, definendo quello economico «un potere diffuso e ineffabile», che si è
imposto come criterio di verità di ogni attività sociale e istituzione politica.
La denuncia del cosiddetto economicismo, che pure una Chiesa abbarbicata alla Rerum novarum ripropone ostinatamente,
ha finito col diventare un ritornello stucchevole; così, viene il voltastomaco
a sentire qualcuno deplorare che «lo Stato ha perso il dominio dell’economia».
In primo luogo perché non è vero, come dimostrano l’influenza della Federal
Reserve sulla politica economica americana, o la vessazione fiscale dei tecnici
nostrani; secondo, perché se fosse vero, vivremmo una catarsi, il momento storico
in cui finalmente comprenderemmo, come sosteneva Reagan, che «government is not
the solution; government is the problem».
Molto
ambigua mi sembra la critica del magistrato e filosofo del diritto francese, al
«fatto che abbiamo posto come valore di riferimento finale l’interesse, il
denaro, l’amministrazione, la concorrenza di tutti contro tutti». L’idea è già
di Benedetto XVI: riportare al centro la persona. Bisogna tuttavia specificare
quali tendenze minaccino davvero questo umanesimo. La colpa è della libera
iniziativa economica? Il mito della «quasi espansione» vanta la paternità di
Keynes, tutt’altro che teorico del liberalismo classico. E l’accumulazione
capitalistica di per sé non è un male: il ricco che entra nel Regno dei Cieli
come un cammello passa per la cruna di un ago, deve la dannazione non ai suoi
possessi materiali, bensì al suo voto di sottomissione ad essi. E si può essere
schiavi del denaro, come della droga, del sesso, di un vizio e di una passione.
È
particolarmente difficile, probabilmente, rendersi conto che la maggior parte
dei condivisibili obiettivi sociali della Chiesa può essere perseguita più
facilmente mediante un regime di libero mercato, che attraverso il controllo
statale sull’economia – per il semplice fatto che quest’ultimo è destinato a
fallire, come ampiamente dimostrato dalla corrente sociologica
dell’«individualismo metodologico». Perciò, la concorrenza, lungi dal
rappresentare una deprecabile condizione di hobbesiano bellum omnium contra omnes, come la descrive Garapon, è il mezzo
migliore che abbiamo a disposizione per trarre giovamento dalle innumerevoli
conoscenze, disseminate tra tutti gli individui che compongono la società.
E
se condivisibile pare la difesa del neoliberismo dall’accusa di essere
totalitario – anche se Garapon confonde l’individualismo con l’«atomismo», come
oramai fanno solo i preti di campagna e qualche residuato bellico del marxismo
– veramente dozzinale è la chiusa dell’intervista, in cui egli auspica che la
«giustizia sociale» torni a rappresentare la principale finalità politica. Un
appello indeterminato, come per lo più privo di senso è lo stesso concetto di
giustizia sociale: poiché la società non è una costruzione deliberata di una
singola mente, ma il risultato di una serie di interazioni spontanee, non c’è
ragione di applicare ad essa criteri di giustizia retributiva, come non avrebbe
significato (pur essendo comprensibile) prendersela con la grandine, se
danneggia la nostra automobile. La ricerca della giustizia sociale non può dunque
che trasformarsi in una tirannica manipolazione delle forze spontanee del
mercato, al fine di orientarle verso uno scopo scelto arbitrariamente da
un’autorità centralizzata. Una prospettiva che non ha niente di liberale e che,
soprattutto, postula l’esatto contrario di uno Stato minimo.
Pubblicato il 07 luglio 2012

«25. Quanto al potere civile, Leone XIII, superando arditamente i limiti segnati dal liberalismo, insegna coraggiosamente che esso non è puramente un guardiano dell'ordine e del diritto, ma deve adoperarsi in modo che con tutto il complesso delle leggi e delle politiche istituzioni ordinando e amministrando lo Stato, ne risulti naturalmente la pubblica e privata prosperità (enc. Rerum novarum, n. 26). E' bensì vero che si deve lasciare la loro giusta libertà di azione alle famiglie e agli individui, ma questo senza danno del pubblico bene e senza offesa di persona. Spetta poi ai reggitori dello Stato difendere la comunità e le parti di essa, ma nella protezione dei diritti stessi dei privati si deve tener conto principalmente dei deboli e dei poveri. Perché, come dice il Nostro Antecessore, il ceto dei ricchi, forte per sé stesso, abbisogna meno della pubblica difesa: le misere plebi invece, che mancano di sostegno proprio, hanno somma necessità di trovarlo nel patrocinio dello Stato. E però agli operai, che sono nel numero dei deboli e bisognosi, deve lo Stato a preferenza rivolgere le cure e la provvidenza sua (enciclica Rerum novarum, n. 29).»
RispondiElimina(Pio XI, Quadragesimo Anno)
Devo continuare, oppure vi rendete conto da soli che Roma locuta, taceant haeresiae?
Eh, il nostro buon Rico è ancora troppo libbbberale :)
RispondiEliminaapprezzabile la segnalazione delle incongruenze in cui incappa l'Autore in commento, anche se nemmeno io condivido tutto questo libbbberalismo ;)
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