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11 aprile 2019

Silenzio, parla Benedetto. Abusi su minori causati da mentalità degli anni '70

Benedetto XVI ci tiene a precisare che ha preavvisato Parolin e Bergoglio, prima di prendere la parola e inquadrare pubblicamente il problema degli abusi su minori nel clero, in un testo pubblicato in tedesco su una rivista ecclesiastica bavarese. Come sempre il testo è lucido e coglie il nocciolo del discorso. La perdita della sicurezza dottrinale, la diluizione dei concetti di bene e male, una tendenza ecclesiastica volta a superare il diritto naturale. Una lettura a 360° che individua perfettamente cause e cure di un dramma, quello degli abusi, che affligge la Chiesa Cattolica ormai da troppo tempo.
(TESTO INTEGRALE)

L'origine del male è nella mentalità che ha preso piede dagli anni '70 in poi ma, nota Ratzinger, il problema nasce dall'approccio al problema morale che si è imposto al Concilio Vaticano II.

“Della fisionomia della Rivoluzione del 1968 fa parte anche il fatto che la pedofilia sia stata diagnosticata come permessa e conveniente. Quantomeno per i giovani nella Chiesa, ma non solo per loro, questo fu per molti versi un tempo molto difficile”.

"Sino al Vaticano II la teologia morale cattolica veniva largamente fondata giusnaturalisticamente, mentre la Sacra Scrittura veniva addotta solo come sfondo o a supporto. Nella lotta ingaggiata dal Concilio per una nuova comprensione della Rivelazione, l’opzione giusnaturalistica venne quasi completamente abbandonata e si esigette una teologia morale completamente fondata sulla Bibbia (...) si affermò ampiamente la tesi per cui la morale dovesse essere definita solo in base agli scopi dell’agire umano. Il vecchio adagio ‘il fine giustifica i mezzi’ non veniva ribadito in questa forma così rozza, e tuttavia la concezione che esso esprimeva era divenuta decisiva. Perciò non poteva esserci nemmeno qualcosa di assolutamente buono né tantomeno qualcosa di sempre malvagio, ma solo valutazioni relative. Non c’era più il bene, ma solo ciò che sul momento e a seconda delle circostanze è relativamente meglio".

L'idea di base, dice Benedetto, fu che la Chiesa poteva esprimersi solo su questioni religiose, “mentre le questioni della morale non potrebbero divenire oggetto di decisioni infallibili del magistero ecclesiale. In questa tesi c’è senz’altro qualcosa di giusto che merita di essere ulteriormente discusso e approfondito. E tuttavia c’è un minimum morale che è inscindibilmente connesso con la decisione fondamentale di fede e che deve essere difeso, se non si vuole ridurre la fede a una teoria e si riconosce, al contrario, la pretesa che essa avanza rispetto alla vita concreta”. 

Benedetto denuncia insomma la smobilitazione messa in atto da molti alti prelati. Togliendosi anche dei sassolini dalla scarpa. Sulla famigerata dichiarazione di Colonia: "Questo testo - scrive Benedetto - che inizialmente non andava oltre il livello consueto delle rimostranze, crebbe tuttavia molto velocemente sino a trasformarsi in grido di protesta contro il magistero della Chiesa, raccogliendo in modo ben visibile e udibile il potenziale di opposizione che in tutto il mondo andava montando contro gli attesi testi magisteriali di Giovanni Paolo II”.

Da notare un po' di ironia. “In molte parti della Chiesa, il sentire conciliare venne di fatto inteso come un atteggiamento critico o negativo nei confronti della tradizione vigente fino a quel momento, che ora doveva essere sostituita da un nuovo rapporto, radicalmente aperto, con il mondo [...]Forse vale la pena accennare al fatto che, in non pochi seminari, studenti sorpresi a leggere i miei libri venivano considerati non idonei al sacerdozio. I miei libri venivano nascosti come letteratura dannosa e venivano per così dire letti sottobanco”.

In sostanza, commento nostro, il problema dei preti che abusano di ragazzini, bambini e seminaristi, nasce da un'idea malvagia, per cui il male non è poi così tanto male e quindi anche un'azione mostruosa può velocemente essere derubricata. Mentre invece, per azioni di questo tipo si deve utilizzare la mano pesante, anzi pesantissima, perché costituiscono il male puro e satanico.

PER UN RESOCONTO COMPLETO (da cui abbiamo preso le citazioni): Aci Stampa

Per il testo completo in inglese, Lifesitenews

 

29 marzo 2018

Una riflessione sullo stato della Chiesa e del mondo

Giorgio Salzano, nato a Napoli sulla metà del secolo scorso, ha dedicato la sua vita allo studio, con vocazione essenzialmente enciclopedica. Dopo la laurea in Giurisprudenza (1969), ha collezionato per approfondire le sue conoscenze più titoli accademici: dottorato in Religion and Culture alla Drew University (1977); licenza in Teologia (1987) e dottorato in Filosofia (1991) alla Pontificia Università Gregoriana; dottorato in Teologia al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo (2012). Ha insegnato Religione al liceo, Filosofi a alla Pontificia Università Gregoriana e Antropologia culturale all’Università di Teramo. Sue pubblicazioni: Il gioco del sapere (2001); Il dono proibito (2001); L’uomo in causa (2002); Alla ricerca dell’uomo (2006), Democrazia Regale (2014)

di Giorgio Salzano
Sono diversi giorni che vado meditando un post sullo scisma di fatto che travaglia la Chiesa Cattolica, che rende perfino difficile dire che cosa significhi oggi essere “cattolici”. Molto si parla, pubblicamente a quel che pare più tra i fedeli acculturati che tra i chierici, di eresia. Ci si chiede perfino se il Papa possa essere eretico, e se quello regnante di fatto non lo sia. Una possibilità che non si può escludere, senza per questo negare la dottrina della infallibilità papale, proclamata dal Vaticano I per i più solenni pronunciamenti in materia di dottrina e morale, mentre per il magistero pontificio ordinario non si richiede altro che un reverente ascolto, che non obbliga però in coscienza a condividerlo. Di fatti, quando c’era Benedetto XVI, egli era aspramente criticato da una parte, oggi Francesco viene aspramente criticato dall’altra (tralascio quelli che assimilano l’uno all’altro, non in termini positivi, che è impossibile fare, ma in un giudizio negativo). Ovviamente anche io ho una posizione al riguardo, anche se non è difficile vedere dove vadano le mie simpatie; ma non è di questa che voglio parlare, quanto di qualcosa di più elusivo, che mi lascia appunto meditabondo: l’origine delle contrapposizioni.

È stata notata dopo il 4 marzo la scomparsa dei cattolici in politica. Ma questo non è che il segno di qualcosa di più grave: che l’essere cristiani sembra avere perso il suo carattere distintivo. Ci identifichiamo infatti lungo linee di divisione più importanti dell’affermarci seguaci dello stesso signore Gesù Cristo. Non è questa una novità della storia: pensiamo a tutte le divisioni determinate nel passato da differenze linguistiche, nazionali, campanilistiche, che sono andate contro la preghiera che rivolge Gesù nel Vangelo secondo Giovanni al Padre affinché coloro che credono in lui siano una cosa sola come lo sono lui e il Padre. Cosa è dunque che contraddistingue le divisioni odierne da quelle del passato? Quelle divisioni, anche quanto prendevano la veste di dispute dottrinali, erano sempre ascrivibili alla peccaminosità degli uomini. Non più così oggi, quando lo stesso cristianesimo è riguardato come fattore divisivo, non solo da parte degli anti-cristiani, ma stranamente anche da quei cristiani che si pretendono aperti verso un mondo di non cristiani. Necessariamente perciò i cattolici scompaiono dalla politica, perché non hanno più niente di “cattolico”, e cioè universale, da proporre. Fioccano così da una parte le accuse di eresia nei confronti di chi si allontana dalla tradizione, e dall’altra di chiusura mentale nei confronti di chi non si considera appartenente a una tradizione cultural-religiosa tra le altre.

C’è storicamente sullo sfondo di simili posizioni, dentro come fuori della chiesa, la Guerra dei Trent’anni, quando ragioni nazional-dinastiche e religiose si mescolarono nella guerra civile che devastò la cristianità europea. Si stava allora configurando quel nuovo assetto socio-culturale e politico dell’Europa che va sotto il nome di epoca moderna. Tanti sono i fattori che entrano nella sua formazione, variamente enfatizzati nelle diverse analisi di quella che chiamiamo anche modernità: tutti sembrano cospirare nel senso della così detta secolarizzazione – concetto ambiguo che si risolve essenzialmente nella riaffermazione del primato dello stato sulla chiesa, fino al trionfo del “liberalismo”. Uso questa parola in un senso lato, tale da abbracciare tanto il suo senso continentale quanto quello anglo-sassone, come varianti della stessa cosa: una politica stato-centrica, volta alla relativizzazione di tutti i fattori di appartenenza culturale, e quindi religiosa. Nell’odierna globalizzazione super-statuale, tuttavia, la relativizzazione cultural-religiosa inizialmente mirata al cristianesimo arriva a completa maturazione allargandosi a ogni altra tradizione, in questo modo sancendo però al contempo la dissoluzione delle stesse istituzioni, statuali ed accademiche, che l’avevano promossa e sorretta. Così si chiude l’epoca moderna, in una post-modernità in cui il moderno va a male e puzza.

Nel contesto, così brevemente tratteggiato, si iscrivono dunque quelle polemiche infra-ecclesiastiche in cui fioccano le accuse di eresia e di chiusura mentale. Quel che è triste in queste polemiche è l’apparente incapacità delle due parti di render ragione all’altra della propria posizione. Esse sono impostate per lo più in chiave identitaria: con il mantenimento o il rifiuto dell’identità cattolica qual è rappresentata dalla tradizione che è oggetto del contendere. Allora il personaggio di massimo spicco della cristianità cattolica parla di un “chiesa in uscita”, così fustigando i cristiani che mantengono il cristianesimo come la propria identità culturale; mentre questi si chiedono, fosse eretico pure lui? Il dibattito appare nel complesso sterile, con ciascuna parte che tira Gesù, per così dire, dalla giacchetta – pardon, la tunica. Mi viene in mente la famosa incomunicabilità, tanto di moda una sessantina di anni fa all’epoca dell’esistenzialismo, ad esempio nei film di Antonioni: nella dissoluzione del moderno infatti la capacità di comunicare pare venire meno, al punto che la sua mancanza viene presa come lo stato normale delle cose, neanche più come allora oggetto di riflessione. Ed i cristiani, come ho detto, paiono avere poco da dire, agli altri come tra di loro: raramente infatti sanno vedere nella figura di Cristo la chiave proprio di ciò che si richiede per comunicare: quell’unità per la quale egli pregava.

Il discorso si fa lungo. Chiudo perciò questa mia meditazione con un solo esempio: il famoso “porgi l’altra guancia”. Questo non rappresenta un astratto comandamento morale, ma una raccomandazione di profonda sapienza psico-relazionale. Vuol dire che, in una situazione di reciproca aggressività, in cui la violenza rischia di andare fuori controllo, l’unico mezzo per romperne il circolo vizioso è quello di fare qualcosa che spiazza l’interlocutore: tale è, rispetto a chi dà uno schiaffo, il porgere l’altra guancia. Certo, può essere pericoloso, e risolversi nell’essere “messi in croce”; ma, affrontando regalmente la passione, Gesù ci mostra che al di là della croce c’è la resurrezione, e che perciò non dobbiamo avere paura di amare. O, se per questo, di esporci nel ragionare.

Tanti buoni cattolici avvertono un senso di disagio nei confronti della guida odierna della Chiesa da parte dei vescovi, a cominciare da quello di Roma. Non so in verità quali siano i numeri, non avendo avuto occasione di vedere nessun sondaggio di opinione al riguardo, se mai sono stati fatti. Per cui non posso fare che attenermi alle poche persone con cui mi capita di parlare, nonché ai siti e blog che amano richiamarsi alla tradizione cattolica, avvertendo in quel che viene oggi predicato un distacco da essa. Per lo più, tuttavia, almeno stando a quel che ho potuto vedere, difficilmente sanno andare al di là di questa contrapposizione, sapendo spiegare che il loro aderire alla tradizione non è dovuto al suo essere tale, ma alla verità di cui essa è testimonianza.

Possiamo chiederci se un Papa sia eretico? In teoria non dovrebbe essere possibile, essendo il Papa il successore di Pietro, al quale Cristo comandò di “pascere le sue pecore”. La sua inerranza, quando parla ex catedra di dottrina e morale, fu quindi proclamata dogmaticamente dal Concilio Vaticani I; ma essa si reggeva su un meraviglioso equilibrio di tradizione, scrittura e magistero, che purtroppo si è incrinato con il Vaticano II.

 Se lo dovessi descrivere direi così: nella tradizione, che promana direttamente dagli apostoli, immediati testimoni di Gesù, vengono letti i libri in cui la loro testimonianza è stata in parte fissata, a dimostrazione del suo essere “compimento” delle Scritture ebraiche; di essa è custode il magistero dei vescovi, con il Papa quale primus inter pares, incaricato tra l’altro del munus docente di garantire che quella lettura si adegui alla testimonianza vissuta nella tradizione di cui esso, in quanto successione del collegio degli apostoli con Pietro al capo, è portatore. Sappiamo bene quanto nei primi secoli del Cristianesimo il senso del messaggio cristiano così attestato sia andato incontro a controversie, che richiesero una definizione precisa degli insegnamenti, o dogmi, conformi ad esso. Ad allontanarsi della dottrina che fu così fissata come ortodossa non erano tanto i comuni fedeli, quanto i vescovi. Ma, osservava nell’Ottocento John Henry Newman, Roma rimaneva ferma: ciò lo portò alla sua famosa conversione dall’Anglicanesimo al Cattolicesimo, che tanto scalpore fece allora. C’è da chiedersi se troverebbe oggi ragioni sufficienti di conversione.

L’equilibrio, come ho detto, si è incrinato con il Concilio Vaticano II, quando un tanto ben intenzionato quanto fallace irenismo portò a grandi confusioni concettuali. Nel desiderio di porgere una mano ai fratelli separati protestanti, la Dei Verbum identifica scrittura e tradizione, in quanto entrambe provenienti da Cristo. Identificare cose diverse, perché rispondenti a concetti affatto distinti, non poteva andare senza conseguenze. Il magistero, che doveva essere il garante della lettura delle Scritture nella tradizione, si ritrova solo di fronte ad esse, senza il distinto criterio di lettura che viene dalla tradizione.

 

20 aprile 2017

Cattolici nel mondo e in Europa: qualche statistica


di Fabrizio Cannone

La Chiesa cattolica, da sempre (e quindi ben prima del caso Galileo), crede nella scienza oltre che in Dio. Credere nella scienza, se non si è maniaci del razionalismo dogmatico, come i positivisti ottocenteschi, significa semplicemente sapere che l’universo materiale ha delle leggi proprie che ne regolano il corso e il funzionamento. E chi crede che Dio sia un essere intelligente e intelligibile, e che sia lui l’autore del mondo visibile, non può che credere che la realtà rifletta, pur misteriosamente, la perfezione della sua prima Causa.
Lo testimoniano altresì una infinità di opere teologiche, filosofiche e comunque di alta cultura che vanno sotto i nomi di Patrologia greca e di Patrologia Latina. Si tratta di due collezioni ottocentesche, dovute allo zelo di un curato di campagna, l’abbé Jacques-Paul Migne (1800-1875) che raccolgono, in modo mirabile e in oltre 300 volumi a stampa, centinaia di testi dei teologi e dei vescovi cattolici dei primi secoli dell’era cristiana.
D’altra parte, la luminosa età medievale (come Giotto, Dante e Tommaso d’Aquino), vide la nascita o la rinascita di molte discipline scientifiche come l’astronomia, la medicina e l’ottica, e la fondazione delle prime università quali centri superiori del sapere e della ricerca: si pensi alla Sorbona, fondata nel 1253 dal canonico Robert de Sorbon, confessore del re san Luigi IX e alla Sapienza, eretta da Bonifacio VIII nel 1303 come Studium Urbis.
Ma le stesse cattedrali gotiche o le abbazie romaniche che riempirono dei loro marmi luminosi, nazioni come l’Italia, la Francia, la Spagna o la Germania, mostrano bene che lo studio della Bibbia, la prima occupazione dei dotti dell’età di mezzo, non si opponeva in nulla all’ottima conoscenza delle regole dell’architettura, della pittura, della scultura, dell’idraulica e dell’acustica. Idem dicasi per le scienze musicali e del canto, a partire dal pentagramma, nota creazione del monaco Guido d’Arezzo (991-1033 circa).
Oggi la Chiesa di Roma usa prudentemente tutte le conoscenze ‘profane’ per meglio inserirsi nel contesto della cultura tecno-scientifica contemporanea, e tra esse, viene costantemente impiegata la statistica. La fede nel mondo e l’incidenza reale della religione nei cuori non rientrano in nessun tipo di calcolo e di ragionamento, certo. Ma la religione è anche un fatto sociale e pubblico, e se in Italia fino a 50 anni fa, la gran maggioranza dei cittadini si sposava in chiesa e ora non più, qualcosa ciò starà pur a significare. Lo stesso dicasi per molti atti esterni, e come tali valutabili e misurabili: la quantità di battezzati ogni 100 nati, l’andamento dei divorzi tra i cattolici, la proporzione degli studenti che si avvalgono dell’ora di religione, e così via.
Così pochi giorni fa, è stata annunciata in Vaticano la pubblicazione di due strumenti importanti e sovente misconosciuti: ovvero l’Annuario Pontificio del 2017, ed il meno noto Annuarium Statisticum Ecclesiae 2015.
L’Annuario Pontificio è una sorta di repertorio sistematico della gerarchia cattolica universale, di tutte le diocesi del mondo (con indirizzi, numeri di telefono, etc.) e di tutti gli uffici e le congregazioni della Curia romana. Vi sono anche menzionati tutti i cardinali, gli istituti religiosi, le rappresentanze e il corpo diplomatico accreditato presso la Santa sede. E’ quindi un importante strumento di collegamento inter-ecclesiale e di comunicazione, il quale risalirebbe addirittura al 1716 e che, pur con alterne vicende, è stato stampato quasi ogni anno fino ai giorni nostri. Notoriamente, esso si apre con la lista cronologica dei 266 Sommi Pontefici, da s. Pietro a papa Francesco, non esclusi neppure gli antipapi. Nell’ultimo anno preso in conto, il 2016, si parla così della erezione di 4 nuove sedi episcopali, di una eparchia, 2 esarcati apostolici e un ordinariato. L’indice accuratissimo dell’Annuario lo rende un utilissimo vademecum della cattolicità.
Quanto all’Annuario Statistico, esso è ben più complesso, meno descrittivo e compilativo, e se vogliamo più scientifico. Contiene il trend del cattolicesimo mondiale degli ultimi 5 anni (2010-2015: gli ultimi 2 di Benedetto XVI e i primi 3 di Francesco), sia come sintesi complessiva, che per singole aree del mondo.
La cosa più significativa sta forse nell’andamento delle vocazioni sacerdotali e religiose, che come noto è al ribasso nelle zone di più antica cristianità, tra cui l’Italia. Così, con una proporzione di cristiani cattolici assai stabile in rapporto all’insieme dell’umanità, i sacerdoti cattolici sono aumentati in Africa (+ 1.133 unità) e in Asia (+ 1.104 unità), restando stabili in America (+ 47 unità) e in Australia (+ 82 unità). E sono calati drasticamente in Europa, madre e cuore della Chiesa universale (- 2.502 unità in un solo anno!). Un calo simile si è registrato anche per i religiosi (non sacerdoti) e per le religiose, specie per quelle di vita attiva, e non di clausura. Un calo ancora maggiore si è avuto, nell’ultimo lustro, per i seminaristi europei e un parallelo aumento degli abbandoni del sacerdozio e dei consacrati a vario titolo.
Come spiegare questo trend negativo proprio nel continente europeo, evangelizzato degli stessi apostoli e nel cuore del mondo ecclesiale in cui sorge Roma, capitale mondiale della cattolicità?
Due cose appaiono certe e strettamente collegate tra loro. L’andamento rilassato e lassista di moltissimi cattolici, succubi della cultura laica e mondana della contemporaneità, ha spento in tanti giovani le idealità per cui prima alcuni erano attratti dal sacrificio del celibato, del convento, del seminario e della stessa clausura. Parallelamente, come dimostra in modo inoppugnabile il sacerdote spagnolo Angèl Pardilla (La realtà della vita religiosa. Analisi e bilancio di 50 anni 1965-2015, Libreria editrice Vaticana, 2016, pagine 704), la crisi di fede del post-Concilio ha condannato alla sterilità il sacerdozio e la vita religiosa, maschile e femminile. Soprattutto negli ambienti segnati dal progressismo e dal modernismo più spinto. Non pochi istituti invece, riportati come esempi dal teologo clarettiano, sorti proprio nell’ultimo mezzo secolo, ma con un’identità forte e chiara, hanno registrato e registrano quel rinnovamento e quella espansione che sono i segni migliori della fedeltà al carisma e al Vangelo.
Esistono infatti una serie di comunità religiose che, sorte solo alcuni decenni fa, si caratterizzano per una continua espansione, di anno in anno. A titolo di esempio vediamone due, emblematiche di un mondo poco noto ma sempre più vivace. Nel 1970 l’arcivescovo Marcel Lefebvre fondò in Svizzera, con l’approvazione del vescovo locale, la Fraternità sacerdotale san Pio X. Oggi se ne parla molto perché Papa Francesco, non proprio un ‘tradizionalista’, sta cercando di risolvere il dissidio canonico che si aperto con la consacrazione che Lefebvre fece nel 1988 di 4 vescovi, contro la volontà di Giovanni Paolo II. Mettiamo da parte però l’aspetto canonico-giuridico. La Fraternità, sorta nel post-Concilio, in un momento in cui molti ordini religiosi iniziavano a perdere vocazioni religiose a decine o a centinaia (come i gesuiti), conta oggi 613 sacerdoti, presenti in tutti i continenti. Ed anche 215 seminaristi, oltre 200 suore, etc. La Fraternità ha fondato e dirige oltre 100 scuole (dall’asilo al liceo), e due istituti universitari riconosciuti dallo stato, uno a Parigi e uno in America. La particolarità dei cosiddetti cattolici-tradizionalisti, e il loro carisma specifico, è di usare i sacramenti secondo le norme precedenti alle riforme di Paolo VI (1963-1978). In latino dunque, e nella messa, con il prete rivolto all’altare, e non al popolo. E tuttavia questo “ritorno al passato” non ha impedito la costituzione di 6 seminari floridi e di moltissime case religiose nel mondo, anzitutto in Francia, ma anche in Africa, in America, nelle Filippine, in Italia, etc.
Nel 1988, 12 membri della Fraternità di Lefebvre, non volendo accettare la rottura col Vaticano, fondarono la Fraternità san Pietro, di fatto con lo stesso spirito di restaurazione cattolica. E Giovanni Paolo II li eresse subito, con il permesso di celebrare secondo il modo antico. Ebbene anche la Fraternità san Pietro, ben più giovane della società di Lefebvre, conta oltre 250 giovani sacerdoti. E questo vale per molti altri piccoli istituti con il carisma della messa in latino, diffusi in mezzo mondo. Tutti fondati nel post-Concilio e tutti caratterizzati dal gusto della Tradizione: sacerdoti con abiti riconoscibili, bei paramenti nel culto, pratiche devozionali classiche (rosario, adorazione eucaristica, etc.) e soprattutto fedeltà alla verità cristiana senza sconti e accomodamenti.
Nei prossimi anni ne vedremo delle belle. Davanti ad una “apostasia silenziosa dell’Europa”, come la chiamò profeticamente Giovanni Paolo II, c’è l’avanzata dell’islam e del laicismo, del New Age e delle religioni orientali e neo-pagane. Esistono però delle “minoranza creative” cristiane (Ratzinger), in forte espansione, che non si arrendono ai mala tempora, e hanno la pretesa di rievangelizzare il continente. Chi vivrà vedrà.

(uscito con modifiche su La Verità del 18 aprile 2017)