Visualizzazione post con etichetta bullismo. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta bullismo. Mostra tutti i post

25 luglio 2016

A Monaco il colpevole è innocente


di Giuliano Guzzo

E’ decisamente ancora troppo presto per farsi un’idea chiara su quanto accaduto ieri a Monaco, una sparatoria costata la vita a nove persone, cinque delle quali minorenni, eppure esiste già – in aggiunta al dolore per le vittime – un elemento sul quale è possibile soffermarsi, vale a dire il tentativo mediatico e giornalistico di scagionare non tanto e non solo il terrorismo islamico (sulla cui matrice le certezze, in effetti, ancora mancano), bensì l’autore stesso del massacro, il 18enne Ali Sonboly tedesco-iraniano dalla doppia cittadinanza. Stiamo infatti assistendo ad un tentativo – come avvenuto per Mohamed Lahouaiej Bouhlel, l’autore della strage di Nizza presentato inizialmente come squilibrato e depresso – di deresponsabilizzare un assassino che tale sarebbe stato per ragioni esterne, in questo caso il bullismo. Vero è che pare sia stato lo stesso Ali Sonboly a presentarsi così («Sono stato vittima del bullismo per 7 anni e ora ho dovuto comprare una pistola per spararvi»), ma la verità è che già da subito certi giornalisti si erano avventurati sul sentiero dello stragismo di estrema destra pur di allontanare l’ipotesi islamista.

Come mai? Quali le ragioni di questa tendenza? La mia sensazione è che alla base del fenomeno vi siano almeno tre elementi. Il primo è il politicamente corretto: laddove vi sono di mezzo crimini commessi da soggetti immigrati o di origine straniera, la parola d’ordine è insabbiare o, quanto meno, ridimensionare il più possibile. Costi quel che costi. Lo si è visto con lo stragista di Nizza, ma lo si vide ancora più chiaramente con gli stupri a Colonia: lì la censura fu magistrale se si pensa che i nostri Corriere, La Repubblica e La Stampa iniziarono a raccontare l’accaduto solo a quattro, cinque giorni di distanza. C’è poi la questione relativista. Ammettere che un assassino abbia compiuto il Male, per la nostra cultura anche giuridica, sta diventando un passaggio inaccettabile: molto più comodo ripiegare su sociologia da discount e iniziare ad arrampicarsi sugli specchi giocando le carte retoriche dell’emarginazione, dell’esclusione sociale, della vendita di armi, del bullismo. Dato infatti che il Bene e il Male, secondo il pensiero dominante non esistono, conseguentemente non può esistere un colpevole vero e proprio; di qui l’accentuazione della cause remote di una crudeltà che a sua volta si fa così remota e, conseguentemente, sempre meno tale.
Infine, un terzo motivo del perché qui noi si corra sempre, davanti anche a crimini enormi, a puntare il dito contro la cattiva integrazione e la nostra incapacità di accogliere davvero, l’ha descritto benissimo – e con un certo anticipo rispetto ai fatti odierni – l’allora card. Ratzinger: «C’è  qui un odio di sé dell’Occidente che è strano e che si può considerare solo come qualcosa di patologico; l’Occidente tenta sì in maniera lodevole di aprirsi pieno di comprensione a valori esterni, ma non ama più se stesso; della sua storia vede ormai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è grande e puro» (Senza radici, Mondadori 2004, pp. 70-71). Morale: fino a che non sapremo riconoscere la nostra crisi culturale ma soprattutto spirituale, fino cioè a che non sapremo guardare in faccia il Male chiamandolo col suo nome – senza temere di farlo laddove agito da persone di fede islamica o di origine estera -, ci ritroveremo non solo a subire stragi e a contare vittime, ma pure nell’impossibilità di renderci conto dell’orrore di cui siamo testimoni, lacerati tra istanze guerrafondaie ed elementari (Siamo in guerra: grazie tante!) e buonismo demente (Ora non generalizziamo!) e, pertanto, impossibilitati ad evadere da una paralisi politica che, in primo luogo, è paralisi della mente e dell’anima; sempre che di anima sia ancora concesso parlare.

https://giulianoguzzo.com/2016/07/23/il-colpevole-e-sempre-innocente/

 

10 ottobre 2014

Il (vero) rispetto per prevenire il bullismo


di Giuliano Guzzo

L’episodio avvenuto a Napoli, dove un quattordicenne è stato ricoverato in gravissime condizioni dopo essere rimasto vittima di orrendi atti di bullismo – lo hanno aggredito in tre ed uno di questi, bloccatolo, gli ha abbassato i pantaloni e, soffiando con una pistola ad aria compressa, gli ha provocato lacerazioni nell’intestino – è troppo serio per essere liquidato come una tragedia. Oltre che sui tre aggressori, per i quali c’è da sperare la giustizia faccia il suo corso, la responsabilità di quanto accaduto e di quanto quotidianamente accade nelle nostre scuole, strade e città grava anche su di noi, per tutte le volte che abbiamo ritenuto – e continuiamo a ritenere – quella del bullismo una questione irrisolvibile e perciò secondaria. Non è così. Che il fenomeno possa essere contrastato in modo efficace lo mostra l’esperienza – nelle scuole del Portogallo, per dire, sono passati da oltre 3500 casi di aggressioni nell’anno 2008/2009 a meno di 1500 nell’anno 2012/2013 –, mentre che lo si debba combattere lo mostrano le conseguenze sulle vittime – conseguenze mentali e fisiche, che possono trascinarsi anche 40 anni dopo l’infanzia (American Journal of Psychiatry, 2014; Vol.171(7):777-84) -, le quali divengono più propense di altri soggetti a sviluppare una preoccupante attitudine a condotte devianti (Presentation to the American Psychological Association, 2013). Non vanno neppure dimenticati i costi sulla collettività che la violenza giovanile produce.

In Inghilterra, dove la violenza delle gang è un problema purtroppo diffuso, ne hanno avuto un riscontro lo scorso anno con un rapporto contenente un’analisi degli effetti delle bande di violenti sui bilanci della salute pubblica: al Servizio Sanitario Nazionale di Sua Maestà il bullismo costa 2,9 miliardi di sterline, pari a circa 3,5 miliardi di euro, e vi sono ospedali dove quasi il 10% di tutti i ricoveri al pronto soccorso è riconducibile a ferite da coltello provocate durante aggressioni (MHP Health, 2013). In Italia il fenomeno è meno allarmante, ma questo non ci autorizza a sottovalutarlo, tanto più alla luce di quanto accaduto a Napoli, dove si è verificato – lo abbiamo detto – un episodio gravissimo, ma sorprendente fino ad un certo punto. La letteratura, infatti, da tempo evidenzia per i soggetti sovrappeso il pericolo di violenza e di discriminazione (Obesity, 2009; Vol.17(5): 941–964). Sarebbe tuttavia un errore concentrarsi solo su questa categoria di persone, esattamente come sarebbe incauto restringere l’attenzione alle sole ragazze o ai giovani con tendenze omosessuali o immigrati. Per una ragione semplice ma fondamentale: la famiglia, la scuola e le Istituzioni non devono insegnare ai ragazzi a rispettare i ragazzi di colore, le ragazze, i ragazzi obesi o i ragazzi gay; la famiglia, la scuola e le Istituzioni devono educare i ragazzi al rispetto dei ragazzi. Punto. Frazionare l’urgenza di questo impegno addossandone la responsabilità ora all’ambiente familiare ora al quartiere o alla classe scolastica sarebbe un grave errore.

Ciò non toglie che larga parte dell’impegno pesi sulle spalle dei genitori, la cui latitanza educativa è assai difficilmente compensabile da altri soggetti privi della loro autorevolezza e sgravati dai loro doveri. Poi pure scuola ed Istituzioni, naturalmente, debbono fare il loro non solo ampliando e diversificando i meccanismi di sorveglianza, ma anche promuovendo un rispetto autentico, in grado di proiettarsi ben oltre la mera tolleranza. Non possiamo cioè limitarci a chiedere ai ragazzi di sopportarsi per la stessa ragione per cui non è la tregua bensì la pace il contrario della guerra. La tolleranza dunque non basta, ma non possiamo neppure “costringere all’amore”, soluzione paradossale che finirebbe per contraddire i propositi di sana educazione che dovrebbe realizzare. L’unica via d’uscita è dunque un’educazione appassionata ed equilibrata, che spieghi ai più giovani che nel momento in cui non solo non offendono ma rispettano ed aiutano chi di loro versa in una condizione di debolezza non stanno sacrificando il loro tempo né offrendo una concessione di cortesia ma solo – anche se non possono capirlo – aiutando loro stessi. Viene infatti purtroppo per tutti, prima o poi, una stagione o un momento di vulnerabilità. E non c’è modo migliore per assicurarsi accoglienza in vista di quella eventualità che iniziare ad accogliere. Non c’è modo migliore per sperare, un domani, in uno sguardo d’amore che iniziare, oggi, donando il proprio.

http://giulianoguzzo.com/2014/10/10/il-vero-rispetto-per-prevenire-il-bullismo/