Nei 10 anni di Messa
Dieci anni di Messa, così si conta il tempo per un prete. E devo ammettere che oggi, forse più che del don Camillo di Giovannino o del parroco di Lamotte la vita prosegue, nella sua imprevedibile monotonia, alla stregua del parroco di campagna di Lisi. Nulla a che vedere con il tormento sperimentato dal curato di campagna di Bernanos, anche perché nella città di sant’Ambrogio la campagna è quasi impossibile da trovare; semplicemente non esiste. Tuttavia, c’è la grazia, che si scopre nei luoghi in cui uno cerca di fare bene il sacerdote. Nessun grande scossone, quindi, anche se, nella mia ultima destinazione, ho potuto e posso “esercitare il ministero”, come si dice nell’ecclesiasticamente corretto. Non avendo, se non alla lontana, da stare dietro e accordare mille teste, iniziative e ragionamenti spesso sragionati, sovente poco patinati di quel nonsoché di cristiano, è più facile fare profonde e durature amicizie spirituali. Certo, non mancano fregature o errori, ma questo è parte della vita.
Ho avuto, però, la ventura di tanti incontri ecclesialmente avvincenti e laicamente consolanti, ma più di ogni altro la grazia di osservare nel mio angolo di paradiso (che è pur sempre un purgatorio sulla terra!) dove il nostro mondo al contrario sta sprofondando. Si può fingere con chiunque, persino con se stessi, ma poi uno sprazzo di lucidità, dono dall’alto, ti raggiunge. È il tempo dell’onestà o, come si dice – ma a me non piace –, “di bilanci”. C’è poco infatti da bilanciare, bisognerebbe invece armonizzare. Cosa tutt’altro che scontata. Per capire e rimeditare sui fatti dell’oggi mi son fatto aiutare da chi ne sa: da filosofi e teologi celebri (e forsanche un poco dimenticati) a testimoni assunti a mie spese per rendere interessante il quotidiano. E, da qui, sono nate pagine su pagine, che nel marasma della confusione attuale rimangono sospese, forse – mi convinco nella mia candida ingenuità – apprezzate da qualcuno, sicuramente poco lette. Il guadagno, d’altronde, è stato innanzi tutto scriverle e, per il resto, buona notte al secchio! Ma è inutile parlar troppo di se stessi, se non per ringraziare per la fortuna, altra “grazia” davvero, di aver del tempo per cercare di capire, senza riuscirci fino in fondo e allenarsi così nella virtù più umile di tutte, che è la stessa umiltà. Inutile o poco producente farlo in solitudine, mentre se aiutati non solo vi è del lecito ma pure è buona cosa. E, quindi, si deve partire e andar a scovare chi, con rara genialità, possa dirci qualcosa di imperituro.
Mi sono, pertanto, imbattuto in un triste fatto d’odio letterario (non così dissimile dal reale) e subito ho pensato quanto oggi sia presente in abbondanza nelle nostre esistenze. Pur se la nostra società, in un complesso di contraddizioni, vuol eliminare tutto l’odio possibile e immaginabile con forme che se non sono d’odio poco si avvicinano. Nell’odierno panorama spesso s’imbavagliano coloro che, in nome del politicamente corretto, non ragionano come te (del resto è la democrazia di matrice comunista a stabilire che puoi dire tutto tranne quello che non devi proprio dire!). Cortocircuiti di chi rifiuta il trascendente per costruire nuove divinità alla giornata o, tutt’al più, à la page. Sicché, non sono rimasto tanto stupito nel costatare che pure nel mondo piccolo guareschiano può succedere un triste fatto di odio: questa è la storia che desidero lasciare (più d’interesse delle mie poco emozionanti vicende) quale augurio per un vero rinnovamento interiore (e non solo). Del resto, sostiene con convinzione Giovannino: «Per noi della vecchia generazione, pure disincantati da guerre e relativi dopoguerra, nonché da altre esperienze, il traguardo sentimentale di ogni anno rimane il Natale. Natale è per noi la tappa annuale del lungo e duro cammino: l’albero frondoso all’ombra del quale, usciti dalla strada assolata e polverosa, ci fermiamo un istante per raccogliere le nostre idee, i nostri ricordi, e per guardarci indietro. E sono assieme a noi i nostri cari: i vivi e i morti. E nel nostro Presepino d’ogni Natale rinasce, col Bambinello, la speranza in un mondo migliore» (Autobiografia, p. 606).
In un episodio del Don Camillo, si racconta che il Pizzi era stato freddato da uno degli uomini di Peppone, il quale si trovava, solo, in casa sua per intimidirlo. Né il Sindaco né la moglie del morto ammazzato avevano visto l’assassino, ma il figlio sì! Ed era andato a confessarlo a don Camillo. E che poteva fare quel carrarmato in talare se non scuotere l’opinione pubblica con un gesto di forza erculea? Non si doveva dichiararlo apertamente, certo, per non sbugiardare nessuno, ma sapendo che non era stato un suicidio quello del Pizzi, come tutti avevano notificato, l’inossidabile Parroco aveva voluto svolgere i funerali in chiesa. Il risultato fu di tirarsi dietro le ire del paese intero. Alla fine, davanti alla chiusura dei cuori, non c’era altro da fare che scrivere e buttar lì, su un giornale creato ad hoc, riflessioni atte a risvegliare le coscienze, soprattutto dei “rossi”.
Dopo l’uscita del suo giornaletto – si legge nel racconto La paura continua –, don Camillo si trovò solo.A questo punto, l’assassino tenta di uccidere anche il Parroco di quel mondo piccolo, ma il suo colpo non andrà a segno per via di un miracolo, anche perché, dopo quel primo sparo, “qualcuno” gli aveva mandato addosso una sventagliata di mitra, pur lasciandolo illeso:
«Mi pare di essere in mezzo al deserto» confidò al Cristo. «E non cambia niente anche quando ho intorno cento persone, perché essi sono lì, a mezzo metro da me, ma fra me e loro c’è un cristallo spesso mezzo metro. Sento le loro voci, ma è come se venissero da un altro mondo.»
«È la paura» rispose il Cristo. «Essi hanno paura di te.»
«Di me?»
«Di te, don Camillo. E ti odiano. Vivevano caldi e tranquilli dentro il bozzolo della loro viltà. Sapevano la verità ma nessuno poteva obbligarli a sapere, perché nessuno aveva detto pubblicamente questa verità. Tu hai agito e parlato in modo tale che essi ora debbono saperla, la verità. E perciò ti odiano e hanno paura di te. Tu vedi i fratelli che, quali pecore, obbediscono agli ordini del tiranno e gridi: “Svegliatevi dal vostro letargo, guardate le genti libere; confrontate la vostra vita con quella delle genti libere!”. Ed essi non ti saranno riconoscenti, ma ti odieranno e, se potranno, ti uccideranno perché tu li costringi ad accorgersi di quello che essi già sapevano ma, per amor di quieto vivere, fingevano di non sapere. Essi hanno occhi ma non vogliono vedere. Essi hanno orecchie ma non vogliono sentire. Sono vili ma non vogliono che nessuno dica loro che son vili. Tu hai resa pubblica una ingiustizia e hai messo la gente in questo grave dilemma: se taci, tu accetti il sopruso, se non lo accetti devi parlare. Era tanto più comodo poterlo ignorare, il sopruso. Ti stupisce tutto questo?»
Don Camillo allargo le braccia.
«No» disse. «Mi stupirei se non sapessi che, per aver voluto dire la verità agli uomini, Voi siete stato messo in croce. Me ne dolgo semplicemente.»
Nei paesi in riva al fiume il silenzio sgomenta perché in esso si sente la minaccia. Don Camillo passava con cura il pennellino sul legno della croce e vedeva la mano del Cristo trapassata dal chiodo. Gli parve a un tratto che quella mano si animasse. In quell’istante un colpo fece rintronare la chiesa. Qualcuno aveva sparato dalla finestra della cappelletta di fianco. Abbaiò un cane, poi abbaiò un altro cane. Si udì, lontana, una breve raffica di mitra. Poi ritornò il silenzio.
Don Camillo guardò sgomento il viso del Cristo.
«Gesù» disse. «Io ho sentito la Vostra mano sulla mia fronte.»
«Tu vaneggi, don Camillo.»
Don Camillo riabbassò gli occhi e li fissò sulla mano attraversata dal chiodo. Poi si sentì come un brivido e lasciò sfuggirsi dalle dita il barattolo e il pennellino. Il polso del Cristo era stato trapassato dalla palla.
«Gesù» disse ansimando «Voi mi avete respinta la testa e avete ricevuta nel braccio la palla che era diretta a me!»
Peppone stesso percepisce lo sgomento generale quando il paese intero è sotto scacco da questo omicida sconosciuto e la diffidenza prende tutti, anche tra i suoi più fidati come il Brusco. Il Sindaco, allora, si sente come in galera e si reca in canonica da don Camillo, il quale, con il Natale alle porte, sta ritoccando le statue del presepe.
Peppone si sedette – è scritto in Giallo e rosa – mentre don Camillo riprendeva le sue faccende e tutt’e due tacquero per un bel po’.
«Vecchio Dio!» esclamò a un tratto Peppone con rabbia.
«Non avevi altro posto che venire in canonica per bestemmiare?» si informò calmo don Camillo. «Non potevi bestemmiare mentre eri alla sede?»
«Non si può più neanche bestemmiare, in sede!» borbottò Peppone. «Perché, anche se uno bestemmia, deve dare delle spiegazioni.»
Don Camillo prese a ritoccare con la biacca la barba di San Giuseppe.
«In questo porco mondo un galantuomo non può più vivere!» esclamò Peppone dopo un po’.
«E cosa ti interessa?» domandò don Camillo. «Sei forse diventato un galantuomo?»
«Lo sono sempre stato.»
«Oh bella! Non l’avrei mai immaginato.»
Don Camillo continuò a ritoccare la barba di San Giuseppe. Poi passò a ritoccargli la veste.
«Ne avete ancora per molto tempo?» si informò Peppone con ira.
«Se mi dai una mano in poco si finisce.»
Peppone era meccanico e aveva mani grandi come badili e dita enormi che facevano fatica a piegarsi. Però, quando uno aveva un cronometro da accomodare, bisognava che andasse da Peppone. Perché, è così, sono proprio gli omoni grossi che son fatti per le cose piccolissime. Filettava la carrozzeria delle macchine e i raggi delle ruote dei barrocci come uno del mestiere.
«Figuratevi! Adesso mi metto a pitturare i santi!» borbottò. «Non mi avrete mica preso per il sagrestano!»
Don Camillo pescò in fondo alla cassetta e tirò su un affarino rosa, grosso quanto un passerotto, ed era proprio il Bambinello. Peppone si trovò in mano la statuetta senza sapere come e allora prese un pennellino e comincio a lavorare di fino. Lui di qua e don Camillo di là dalla tavola, senza potersi vedere in faccia perché c’era, fra loro, il barbaglio della lucerna.
«È un mondo porco» disse Peppone. «Non ci si può fidare di nessuno, se uno vuol dire qualcosa. Non mi fido neppure di me stesso.»
Don Camillo era assorbitissimo dal suo lavoro: c’era da rifare tutto il viso della Madonna. Roba fine.
«E di me ti fidi?» chiese don Camillo con indifferenza.
«Non lo so.»
«Prova a dirmi qualcosa, così vedi.»
Peppone finì gli occhi del Bambinello: la cosa più difficile. Poi rinfrescò il rosso delle piccole labbra.
«Vorrei piantare lì tutto» disse Peppone. «Ma non si può.»
«Chi te lo impedisce?»
«Impedirmelo? Io piglio una stanga di ferro e faccio fuori un reggimento.»
«Hai paura?»
«Mai avuto paura al mondo!»
«Io sì, Peppone. Qualche volta ho paura.»
Peppone intinse il pennello.
«Be’, qualche volta anch’io» disse Peppone. E appena si sentì.
Don Camillo sospirò anche lui.
«La pallottola mi è passata a quattro dita dalla fronte» raccontò don Camillo. «Se non avessi tirato indietro la testa proprio in quel momento, ci rimanevo secco. È stato un miracolo.»
Ora Peppone aveva finito il viso del bambinello e stava ripassando il rosa del corpo.
«Mi dispiace di averlo sbagliato» borbottò Peppone. «Ma ero troppo lontano e c’erano di mezzo i ciliegi.»
Don Camillo fermò il pennello.
«Me l’aspettavo» spiegò Peppone. «Da tre notti avevo mandato il Brusco a girare attorno alla casa del Pizzi per via che l’altro non facesse fuori il ragazzo. Il ragazzo deve aver visto chi ha sparato dalla finestra contro suo padre e l’altro lo sa. Io intanto giravo attorno a casa vostra. Perché ero sicuro che l’altro sapeva che anche voi sapete chi ha sparato sul Pizzi.»
«L’altro chi?»
«Non lo so» rispose Peppone. «Io l’ho visto di lontano avvicinarsi alla finestra della cappelletta. Ma non potevo sparargli prima che facesse qualcosa. Appena ha sparato ho sparato anch’io. L’ho sbagliato.»
«Sia ringraziato Dio» sospirò don Camillo. «So come spari e allora posso dire che sono stati due i miracoli.»
«Chi sarà? Lo sapete soltanto voi e il ragazzo chi è.»
Don Camillo parlò lentamente.
«Sì, Peppone, lo so, ma nessuna cosa al mondo può farmi violare il segreto della confessione.»
Peppone sospirò e continuò a pitturare.
«C’è qualcosa che non va» sospirò a un tratto. «Mi pare che tutti mi guardino con altri occhi, adesso. Tutti, anche il Brusco.»
«Anche al Brusco sembrerà così, e anche agli altri. A tutti gli altri. Ognuno ha paura dell’altro e ognuno, quando parla, è come se sentisse di doversi sempre difendere.»
«Perché questo?»
«Non facciamo della politica, Peppone.»
Peppone sospirò ancora. «Mi sento come in galera» disse cupo.
«C’è sempre una porta per scappare da ogni galera di questa terra» rispose don Camillo. «Le galere sono soltanto per il corpo. E il corpo conta poco.»
Oramai il Bambinello era finito e, fresco di colore e così rosa e chiaro, pareva che brillasse in mezzo alla enorme mano scura di Peppone. Peppone lo guardò e gli parve di sentir sulla palma il tepore di quel piccolo corpo. E dimenticò la galera. Depose con delicatezza il Bambinello rosa sulla tavola e don Camillo gli mise vicino la Madonna.
«Il mio bambino sta imparando la poesia di Natale» annunciò con fierezza Peppone. «Sento che tutte le sere sua madre gliela ripassa prima che si addormenti. È un fenomeno.»
«Lo so» ammise don Camillo. «Anche la poesia per il Vescovo l’aveva imparata a meraviglia.»
Peppone si irrigidì. «Quella è stata una delle vostre più grosse mascalzonate!» esclamò. «Quella me la dovete pagare.»
«A pagare e a morire si fa sempre a tempo» ribatté don Camillo.
Poi, vicino alla Madonna curva sul Bambinello, pose la statuetta del somarello.
«Questo è il figlio di Peppone, questa la moglie di Peppone e questo è Peppone» disse don Camillo toccando per ultimo il somarello.
«E questo è don Camillo!» esclamò Peppone prendendo la statuetta del bue e ponendola vicino al gruppo.
«Bah! Fra bestie ci si comprende sempre» concluse don Camillo.
Uscendo, Peppone si ritrovò nella cupa notte padana, ma oramai era tranquillissimo perché sentiva ancora nel cavo della mano il tepore del Bambinello rosa. Poi udì risuonarsi all’orecchio le parole della poesia che oramai sapeva a memoria.
«Quando, la sera della Vigilia, me la dirà, sarà una cosa magnifica!» si rallegrò. «Anche quando comanderà la democrazia proletaria le poesie bisognerà lasciarle stare. Anzi, renderle obbligatorie!»
Il fiume scorreva placido e lento, lì a due passi, sotto l’argine, ed era anche lui una poesia cominciata quando era cominciato il mondo e che ancora continuava. E per arrotondare e levigare il più piccolo dei miliardi di sassi in fondo all’acqua, c’eran voluti mille anni. E soltanto fra venti generazioni l’acqua avrà levigato un nuovo sassetto.
E fra mille anni la gente correrà a seimila chilometri l’ora su macchine a razzo superatomico e per far cosa? Per arrivare in fondo all’anno e rimanere a bocca aperta davanti allo stesso Bambinello di gesso che, una di queste sere, il compagno Peppone ha ripitturato col pennellino.
Il mio augurio e il mio grazie è, infine, che possiate ancora commuovervi davanti a quel Dio che si fa uomo per portare ogni sua creatura a salvezza, a una vita sensata, a un bene più grande, alla gioia piena e feconda.
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