Le polemiche relative all’intervista del cardinale Ruini sul Corriere della Sera, tutte concentrate sull’apertura di credito nei confronti di Salvini che egli vi auspica, mi hanno fatto venire a mente il titolo di un libro di Marie-Dominique Chenu, “La fine dell’era costantiniana”, pubblicato verso gli inizi del Concilio Vaticano II. Non ho avuto il (dis)piacere di leggerlo, ma da quello che ho orecchiato mi pare di aver capito che egli vi auspicava una chiesa finalmente libera dalle pastoie del mondo, nelle quali era rimasta invischiata a partire dall’editto di Costantino e la sua successiva politica di favoreggiamento verso di essa: è come dire, su venti secoli di Cristianesimo, diciassette sarebbero irrimediabilmente compromessi – da buttare? Salvo che la profetizzata fine dell’era costantiniana ci pone di fronte a un paradosso: più la chiesa si vuole svincolata dalla politica, più è dominata dalla politica.
Un esempio significativo: la così detta “scelta religiosa” dell’Azione Cattolica di Vittorio Bachelet. Dico “così detta”, perché stranamente si manifestò a seguito di essa nell’Azione Cattolica una decisa propensione politica, verso sinistra, che rovesciò quello che era stato l’orientamento dell’associazione con Luigi Gedda. Tanti che non erano d’accordo con questa svolta abbandonarono l’associazione. Ma ormai la divisione designata con i vecchi termini di “destra” e “sinistra”, trasmigrata nei termini più recenti di “conservatori” e “progressisti”, ha penetrato la Chiesa in maniera analoga al resto della società a tal punto, che viene da chiedersi che differenza faccia l’essere cristiani, se abbia per entrambi le parti lo stesso senso. Mentre la maggioranza di quelli che vanno in chiesa, fortunatamente non toccata dalla divisione fino a questo punto, rischia però di esserne confusa.
Forse perché la confusione regna nella maniera stessa di importare il problema, o meglio, di non impostarlo perché non viene riconosciuto.
Nelle reazioni polemiche all’intervista di Ruini, tutte incentrate sull’apertura di credito a Salvini, anatema per i vertici della Chiesa italiana (diciamo pure la CEI, anche se suppongo che qualche vescovo non schierato ci sarà pure, mentre per il vescovo di Roma in queste cose parla il direttore della Civiltà Cattolica), Riccardo Cascioli vede ciò che accade «se la Chiesa non sa più guardare in alto». Articolo ineccepibile, anche nel suo citare, di contro, il cardinale Sarah quando parla di una crisi di fede. Ineccepibile, ma non del tutto soddisfacente. Lamenta che venga trascurata la “dimensione verticale”, ma non ritiene necessario spendere due parole per spiegare al lettore di che si tratta: suppone che lo sappia, e per chi non lo sa non c’è nulla che possa fare.
Il problema, come dice giustamente un mio amico, vaticanista per una rivista di lingua inglese, è che la parte bollata dall’altra come “tradizionalista” ha ragione, ma non sa spiegare perché. Nel polemizzare accetta le premesse dell’avversario, e così si fa di ragione torto. La premessa è che non è possibile alcuna “teologia naturale”: ossia un discorso filosofico su Dio che non presupponga una specifica professione di fede, cristiana o altrimenti. Il che comporta, in una società che si proclama “pluralista”, che parlare di Dio è ritenuto divisivo, ed escluso perciò dal discorso pubblico. I vescovi, perciò, a cominciare dal loro capo, quando non si indirizzano particolarmente ai loro fedeli in funzioni liturgiche o catechetiche, evitano di farlo. E ciò è ritenuto “progressista”, segno di una mentalità aperta. E se dall’altra parte si fa notare che questo non è consono con la rivelazione e con la tradizione, un’accusa di passatismo e chiusura culturale non gliela toglie nessuno.
I vescovi (sempre a partire dal loro capo), parlano di politica come sanno. Che non sembra essere molto. Il problema di fondo è che essi non paiono capaci di rendere ragione nemmeno a se stessi, per dirla con san Pietro, della speranza che è in loro. Da tempo ormai, quando mi capita di chiedere a un esperto di qualche argomento un po’ esoterico, tipo la teoria della relatività, di che cosa si tratti, se mi sento rispondere che è troppo complicato da spiegare, io mi dico tra me: ho capito, non lo sa spiegare neanche a se stesso. Padroneggerà le tecnicalità della sua materia, ma non ne comprende il significato. Questa mi pare essere la condizione in cui si trova il teologo cristiano (qualunque chierico) senza la teologia naturale, o, se si preferisce, senza una comprensione delle cose umane che comunichi a qualunque possibile interlocutore la via verso Dio – in breve, senza quelli che san Tommaso chiamava preambula fidei.
La teologia naturale rientra in quella che chiamiamo filosofia. Ecco, il problema sta appunto qua, nella filosofia, ed è un problema di fondo che affligge tutta la nostra cultura occidentale. La stessa parole designa in effetti due cose diversissime: uso allora, per distinguerle, da una parte l’antica grafia philosophia, dall’altra la moderna grafia italiana con la “f”. Il problema della nostra cultura, che sta portando il così detto occidente (Europa, più America ecc.) al suicidio, è che pensiamo invece che siano la stessa cosa.
La filosofia, nel senso moderno della parola, si pretende riflessione immediata del soggetto pensante e agente su se stesso: in prima persona “io”, che diventa in terza persona “l’io”, o anche “l’uomo”. Oggetto di discorsi bio-psicologici che fanno astrazione da qualunque appartenenza sociale, esso viene quindi trasformato nel soggetto di storie, nelle quali acquista gli abiti di società, sviluppa il linguaggio, e dà origine alle diverse civiltà di cui abbiamo testimonianza nel tempo e nello spazio. Fino ad arrivare all’oggi, evidentemente di noi uomini occidentali, che finalmente sappiamo riconoscerci nella nostra nuda umanità – sulla quale, e in base alla quale, ognuno può poi dire quello che vuole. Nemmeno oggi mancano quindi discorsi filosofici di teologia naturale, ma rimangono esercizi accademici che difficilmente raggiungono un ampio pubblico, o fanno breccia nella teologia in senso stretto come preambula fidei.
Altra cosa era invece la philosophia. Con essa la riflessione si porta, e lo dico al presente, sulle testimonianze che gli uomini danno di sé in società, identificandosi reciprocamente dalle relazioni parentelari e l’appartenenza di gruppo, per cui nessuno si presenta mai semplicemente come uomo – così come nessuno puramente e semplicemente parla ma sempre parla una lingua, e anche quanto a questo nessuno la parla senza un accento. Dai più vicini ai più lontani sempre ci presentiamo con degli abiti, o come anche si dice con dei costumi. Se così ci identifichiamo reciprocamente, lo facciamo differenziandoci. Ma le differenze dalle quali ci identifichiamo rinviano anche a una identità di ordine superiore – per cui ad esempio identifico dall’accento la provenienza di qualcuno da una certa regione d’Italia, ma lo identifico anche come italiano. Analogamente identifico differenziandoli gli appartenenti alle diverse nazioni europee, ma sempre accomunandoli in una comune identità europea, e così via con africani asiatici o quant’altro, fino all’ultima inglobante identità dell’essere uomini. E il riconoscimento di identità e differenze non si arresta qui, ma si estende, diciamo, a quella degli uomini dagli altri animali, degli animali dai vegetali, di ciò che ha vita da ciò che non l’ha, fino all’ultima identità per cui diciamo di qualcosa semplicemente che è.
Questa è la via tradizionalmente seguita, dall’antichità al medioevo, dalla teologia naturale, e che io penso possa essere ancora validamente seguita. Ma a una condizione: che non si scambi il suo punto di partenza con quello della filosofia, facendo del gioco classificatorio di identità e differenza qualcosa di primariamente cognitivo. Dovrebbe essere evidente da quello che ho detto che si tratta di un’esperienza sociale, nella quale soltanto il soggetto – chiunque – acquista coscienza di sé, come parte di un tutto che sa di esserlo. Questo vuol dire che la “dimensione verticale” di cui parla Cascioli è costitutiva in generale della socialità, mentre le storie de “l’uomo” di marca filosofica che ci vengono ammannite come scienza, dov’è passata sotto silenzio, sono opere dell’immaginazione, destinate a sostituire la teologia naturale, spesso obliterata purtroppo anche in ambito ecclesiastico.
In conclusione, la philosophia, ossia la vera filosofia in opposizione alla sofistica, è eminentemente “filosofia politica”, guarda alle relazioni comunicative tra gli uomini per riconoscere quale sapere le renda giuste e chi lo rappresenti: nella teologia naturale qualcuno come il filosofo-re di Platone, in quella soprannaturale Cristo re.
Fuori di un simile orizzonte comparativo la politica diventa partitismo, con la divisione anche nella Chiesa di progressisti, con il loro vuoto moralismo universaleggiante, e conservatori, che non sanno render conto di quel che vogliono conservare.
Pubblicato il 18 novembre 2019
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