
“Marley era morto, tanto per cominciare. Su questo non
vi era alcun dubbio!”. Così inizia uno dei più bei racconti mai scritti: il Canto di Natale di Charles Dickens, la
storia della conversione,dell’indimenticabile Ebenezer Scrooge, l’anziano uomo d’affari
che odiava il Natale.
Il termine “conversione” potrà essere contestato da
qualcuno: spesso si è obbiettato che quello celebrato da Dickens nella sua
novella è solo un generico ed un po’ melenso sentimentalismo. Riteniamo che non
sia così. In realtà la presenza della fede cristiana, oseremmo dire, la
presenza del Bambino di Betlemme stesso, è, nella fiaba scritta dal padre di
Oliver Twist e David Copperfield, discreta ma decisiva.
Non ci vogliamo dilungare in una particolareggiata
analisi del Canto di Natale che,
almeno all’avviso di chi, come lo scrivente, lo ha letto e riletto con la
stessa commozione innumerevoli volte, è talmente ricco di particolari preziosi
che meriterebbe un intero trattato. Ci limiteremo ad alcune considerazioni
parziali su due figure chiave nella storia della conversione di Scrooge: Marley
e Tiny Tim.
Marley, il socio di Scrooge, in tutto e per tutto
simile a lui, è ormai morto. E’ proprio l’apparizione del suo fantasma o,
meglio, della sua anima dannata, a dare inizio alla notte dell’anziano uomo
d’affari. Il rimpianto di Marley, ciò da cui vuole mettere in guardia Scrooge,
è inequivocabile: “(…) ho camminato in
mezzo a moltitudini di miei simili, con gli occhi bassi, senza mai poterli
sollevare verso quella stella benedetta che condusse i Saggi a un'umile
dimora!”. La dannazione di Marley è dovuta proprio a questo: lo sguardo mai
levato verso il cielo, oltre le cose terrene, oltre gli affari, gli ha precluso
l’Incontro che cambia la vita. E’ per evitare a Scrooge la stessa sorte che
egli appare, annunciandogli l’imminente arrivo di tre spiriti: quello del
Natale passato, quello del Natale presente e quello del Natale futuro.
Saltiamo direttamente allo Spirito del Natale presente ed alla
visita che, insieme a lui, Scrooge fa alla casa di Bob Cratchit, il suo
maltrattato impiegato. Dickens descrive in vivide pennellate la famiglia
Cratchit: “Non c’era niente di particolarmente notevole in tutto questo. Non
erano una bella famiglia, non avevano bei vestiti; le loro scarpe erano tutt’altro
che impermeabili all’acqua, i loro panni erano miseri (…). Eppure erano felici,
riconoscenti, contenti di stare assieme (…)”. Non c’è nulla di pauperista in
questa descrizione: la povertà, lungi dall’essere esaltata, viene descritta in
tutto il suo squallore. La virtù dei membri della famiglia Cratchit non è la
povertà, ma la capacità di vivere comunque in letizia nonostante quest’ultima.
Ancor più, è la capacità di vivere senza rancore. “Alla salute del signor
Scrooge, il patrocinatore di questa festa!”: l’inaudito brindisi viene lanciato
proprio da Bob, colui che più tutti avrebbe ragione di odiare il proprio datore
di lavoro. Invece, riesce addirittura ad esprimergli gratitudine, nonostante le
proteste della moglie, dolcemente sedate con l’unica, semplicissima
argomentazione: “E’ Natale!”.
Da dove arrivi tutta questa serenità emerge con
chiarezza se ci soffermiamo sul personaggio di Tiny Tim, uno dei figli di Bob,
un bambino minato da una malattia che lo costringe a muoversi con le stampelle
e fa temere per la tua vita. E’ in questa piccola, fragile figura, che la Sua
discreta presenza si palesa. “Mi ha detto, tornando a casa, che sperava la
gente in chiesa lo avesse visto, e che doveva far loro piacere, perché essendo
lui zoppo doveva ricordare, nel giorno di Natale, colui che aveva fatto
camminare gli storpi e vedere i ciechi”. Da questo commosso racconto del padre,
si capisce da cosa derivi la serenità di quel bambino sfortunato, ma capace di
essere il centro da cui irradia la luce per l’intera famiglia. “Spirito di Tiny
Tim, la tua essenza infantile veniva da Dio!”, esclamerà più avanti il
narratore. Non a caso è proprio la commozione suscitata dal piccolo Tim, il
coinvolgimento che inizia a sentire per la sua sofferenza, che segnerà il passo
forse più importante per Scrooge verso la sua nuova vita.
Non a caso, nel gioioso finale, nell’elencare i gesti
che Scrooge compie la mattina di Natale, gesti che nessuno si sarebbe aspettato
da lui, l’autore inizia dicendo che “andò in chiesa”. E non è un caso nemmeno
che egli, quella mattina, altrettanto incredibilmente, si vesta “con gli abiti
migliori”. Un aspetto grottesco di Scrooge era proprio questo: benché
possedesse una quantità enorme di denaro, per non privarsi neanche di una
moneta, viveva in maniera triste e miserabile, la sua avarizia, la sua
schiavitù del guadagno, rendevano povero anche lui. Ora la sua rinnovata
generosità è resa evidente anche dal fatto che egli si conceda dei bei vestiti,
ben lungi dal travestirsi da povero come certi ipocriti contemporanei. E,
quando fa un ingente versamento per aiutare i poveri, dice la somma sottovoce,
nell’orecchio del gentiluomo che la dovrà raccogliere, tanto che nemmeno al
lettore verrà mai rivelata, e prega di mantenere il più rigoroso anonimato.
Sembra ben consapevole che la mano destra non debba sapere ciò che fa la
sinistra!
Ciò che cambia, alla fine del Canto di Natale, non è l’ordine sociale e nemmeno la condizione
materiale di Scrooge: se c’è una “rivoluzione”, essa avviene dentro di lui, nel
suo cuore. Se prima egli aveva in sé un gelo che non lo abbandonava mai e che
raggelava anche coloro che aveva attorno, al contrario, alla fine della storia
egli ha trovato una gioia tale da essere irresistibilmente contagiosa. E ciò è
stato possibile perché, alla fine, contrariamente a Marley, egli ha saputo
farsi guidare da quella stella benedetta che condusse i Saggi ad un'umile
dimora.
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