Del
discorso con cui papa Francesco ha tracciato le sue linee guida per
la Chiesa italiana, il passaggio che ha guadagnato i titoli dei
giornali e che ha provocato maggiori polemiche è sicuramente quello
in cui ha presentato come modello per il clero italiano il
personaggio di Don Camillo, protagonista dei romanzi di Giovannino
Guareschi.
Come
del resto è già stato osservato, le idee “ecclesiologiche” di
don Camillo emergono soprattutto nell’ultimo romanzo della serie,
Don Camillo e don Chichì (conosciuto anche come Don
Camillo e i giovani d’oggi). Fin dal titolo si capisce che al
centro del romanzo è la contrapposizione tra due personaggi, che poi
incarnano due idee contrapposte e inconciliabili su cosa sia la
Chiesa e quale sia il suo compito.
Don
Camillo è un prete massiccio, burbero e addirittura manesco,
duramente avverso alla rivoluzione liturgica (paragona l’altare
«bugniniano» a una «tavola calda») e celebratore clandestino
della Messa tridentina. Nemico acerrimo del comunismo, rifiuta il
dialogo e combatte con ogni mezzo il sindaco Peppone. Protegge le
tradizioni e porta avanti una fede semplice che ha il suo centro nel
Cristo crocifisso dell’altar maggiore.
Don
Francesco, che i parrocchiani chiamano con il ridicolo diminutivo di
don Chichì, è un giovane prete mandato per aiutare don
Camillo ad «aggiornarsi» secondo i dettami post-conciliari (il
romanzo è ambientato nel 1966). Don Chichì è un prete
progressista, alfiere di istanze sociali, seguace di metodi pastorali
avventuristici. Smanioso di riforme, assume posizioni di avanguardia,
propugna idee “aperte”, cerca il dialogo con i lontani, bacchetta
i devoti, predica contro i ricchi e lotta per i poveri (non ha smanie
ecologiste perché negli anni Sessanta non era di moda).
Alessandro
Gnocchi e Antonio Socci hanno buon gioco a dire che papa Francesco
somiglia più a don Chichì che a don Camillo. Del resto non
sfigurerebbero nei suoi discorsi frasi come queste: «Il nostro
dovere è lavorare per rendere questo mondo un posto migliore e
lottare. Davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile
cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella
restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente
hanno capacità di essere significative. La Chiesa sia libera e
aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di
perdere qualcosa. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa,
innovate con libertà». Signori, questi sono stralci del discorso
del Papa a Firenze; leggete Guareschi e vedrete che don Chichì dice
le stesse cose quasi alla lettera.
Don
Camillo e don Chichì hanno due concezioni contrapposte della Chiesa.
Chi dei due ha ragione? La Chiesa esiste in primo luogo per rendere
gloria a Dio o per «rendere questo mondo un posto migliore e
lottare»? Non si dica che le due cose non sono in contraddizione, o
almeno chi lo dice non creda di poter citare Guareschi a proprio
sostegno. Perché citare Guareschi in un periodo in
cui don Camillo sarebbe accusato di pelagianesimo e commissariato per
scarsa fedeltà allo spirito del Concilio; in un’epoca in cui
Guareschi verrebbe cacciato a pedate da radio e giornali cattolici?
Mistero:
alla fine, come ogni volta, il Papa ci lascia perplessi e dubbiosi.
La domanda su chi abbia ragione tra don Camillo o don Chichì si
aggiunge alle tante altre: il crocifisso di Evo Morales è bello o
blasfemo? I resoconti di Scalfari sono fedeli? Se la risposta è no,
perché diamine tornare a rilasciargli interviste? «Chi sono io per
giudicare» è una frase passibile di interpretazioni eterodosse? Ma
allora, perché tornare a ripeterla? Francesco vuol dare la Comunione
ai divorziati risposati anche se i vescovi hanno confermato che non si può? Se la risposta è no, perché dirlo al
telefono a Scalfari? (e si ritorna al punto di prima; e comunque il
dubbio si porrebbe anche se la risposta fosse sì). La cifra
fondamentale del pontificato di Bergoglio sembra la confusione in cui
ha gettato i fedeli. Del resto, è proprio lui a ripetere sempre che
dobbiamo abbandonare le nostre certezze: «Preferisco una Chiesa
accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade,
piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di
aggrapparsi alle proprie sicurezze».
«“Signore,
cosa possiamo fare noi?”. Il Cristo sorrise.
“Ciò
che fa il contadino quando il fiume travolge gli argini e invade i
campi: bisogna salvare il seme. Quando il fiume sarà rientrato nel
suo alveo, la terra riemergerà e il sole l’asciugherà. […]
Bisogna salvare il seme: la fede. Don Camillo, bisogna aiutare chi
possiede ancora la fede a mantenerla intatta. Il deserto spirituale
si estende ogni giorno di più; ogni giorno nuove anime inaridiscono
perché abbandonate dalla fede. Ogni giorno di più uomini di molte
parole e di nessuna fede distruggono il patrimonio spirituale e la
fede degli altri. Uomini d’ogni razza, d’ogni estrazione, d’ogni
cultura.”
“Signore”
domandò don Camillo: “volete forse dire che tra questi ci sono
anche preti?”. “Don Camillo!” lo riproverò sorridendo il
Cristo. “Sono appena uscito dai guai del Concilio, vuoi mettermi tu
in nuovi guai?”».
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