Gòmez Dàvila diceva che non possiamo
più essere conservatori perché non c’è più nulla da conservare. Discendeva da
ciò l’unica formula politica che riscattasse l’uomo dai mali della modernità:
diventare reazionari. Ma che cos’è il conservatorismo? Michael Oakeshott,
capofila di una versione “gnoseologica” di questa filosofia, basata su una
coerente teoria dei limiti della ragione umana, dava del conservatorismo una
definizione disposizionale: «[…] preferire il familiare all’ignoto, il già
testato al non ancora sperimentato, i fatti al mistero, il reale al possibile,
il limitato all’illimitato, il vicino al distante, il sufficiente al
sovrabbondante, l’accettabile al perfetto, il riso di oggi a un’utopica
beatitudine». Ancor prima che un sistema di valori, insomma, il conservatorismo
è un atteggiamento, che informa il carattere e poi le convinzioni politiche: è,
se vogliamo, una forma di sano realismo cristiano. Russell Kirk, nel famoso
saggio The Conservative Mind (1953),
individuò sei principi conservatori, da intendersi in modo flessibile perché il
conservatorismo non è, non può essere un’ideologia: fede in un ordine
trascendente, rispetto per la varietà e il mistero delle tradizioni,
persuasione che una società sana debba ammettere gerarchie, riconoscimento del
legame tra libertà e proprietà, affidamento alle prescrizioni dell’autorità
piuttosto che alle astrazioni speculative, distinzione tra cambiamento organico
e riforma. Ma cosa accade se l’ossequio nei confronti del passato, delle
tradizioni, persino del pregiudizio, il pregiudizio cui Burke dedicò una
memorabile apologia nelle sue Reflections
On the Revolution in France (1790), si è irrimediabilmente incrinato? Se
quella che Chesterton definiva la «democrazia dei morti» è stata soppiantata da
un pragmatismo materialistico, presentista o progressista, che fa strage di una
civiltà nel nome di «ideologie alla moda», per dirla con Lucio Battisti?
La «reazione» rappresenta il movimento
uguale e contrario alle spinte laceranti che hanno sgretolato quell’antico
patrimonio che il conservatorismo poteva proporsi di preservare. L’apparentemente
irrimediabile sconfitta cui quest’ultimo è fatalmente esposto, ne testimonia
forse una costitutiva debolezza, che Friedrich von Hayek, figura di confine tra
liberali e conservatori, denunciava nell’emblematica postilla a The Constitution of Liberty (1961), il
saggetto con il quale giurava di non
essere un conservative: prodigarsi
nel disperato tentativo di arrestare la fiumana del progresso, accumulando gli
smacchi dei riformatori che si mettono dalla parte della corrente, dove soffia
il vento della storia. Il reazionario incarna in tal senso il polo opposto allo
storicismo: non resistere invano al motore degli eventi, ma opporvi una potenza
contraria. De Maistre, quel geniale pensatore savoiardo dalla penna ardente e
caustica, cui è intitolato anche il nostro sito, soleva ripetere che la
controrivoluzione sarebbe stata «non una rivoluzione al contrario, ma il
contrario della rivoluzione». E questo è un sagace ammonimento a quelli che
confondono il pensiero reazionario con un radicalismo invertito di segno, però
dotato degli stessi metodi. La reazione è Bonald, è Donoso Cortès, non qualche
grottesca forma di “fascio-comunismo”.
Certo, c’è da distinguere, come sopra
accennato, tra cambiamento e riforma. È in questo che soprattutto differiscono
conservatori e reazionari. I primi, nonostante una visione sostanzialmente
pessimistica della natura umana, segnata dal peccato originale ma anche capace,
come voleva il dogma tridentino, di compiere naturalmente del bene, ritengono
di dover accompagnare la società e le istituzioni nella loro evoluzione
spontanea – e qui sta pure il legame con il liberalismo spontaneistico – che è
cosa ben diversa dalla sovversione dell’ordine perpetrata dai rivoluzionari. I
secondi, invece, individuano in un certo ordine tradizionale la condizione
definitiva della società e sono pertanto pronti anche a «restaurare», ignorando
qualsiasi accusa di anacronismo.
Dove si dovrebbero collocare i
cattolici tradizionalisti, in questa difficile epoca di feroci attacchi al
cristianesimo, ma in generale alla religione in se stessa, nella sua ragion
d’essere e nei suoi presupposti? Innanzitutto, non si può dribblare la
questione dell’atteggiamento da mantenere nei confronti della modernità. Non si
può banalmente tornare al pre-moderno, riportare la storia a un’altra era,
quasi che i secoli non fossero mai trascorsi. In Little Gidding, il poeta angloamericano Thomas Stearns Eliot
declama: «Non possiamo ravvivare vecchie fazioni / non possiamo restaurare vecchie
politiche / o seguire un tamburo arcaico. Questi uomini / e quanti a essi si
opposero e quelli / a cui loro si opposero accettano / la legge del silenzio /
e sono rinchiusi in un solo partito». La sola reazione che ripristina quel
patrimonio che vale la pena conservare si nutre di nostalgia, ma è protratta al
futuro, attenta a scorgere i segni della Provvidenza negli eventi che sembrano
precipitare. Nella famosa «profezia» giovanile, Ratzinger si figurava un’epoca
in cui la Chiesa sarebbe stata ridotta a poche comunità di fedeli politicamente
ininfluenti; ma quell’apparente disastro la riportava alla sua situazione
originaria, la ferma e coerente testimonianza di quei pochi ne rinvigoriva le
energie, trasmettendole nuova linfa per una più duratura rifioritura. Sempre
Maistre ammoniva che la rivoluzione davvero «cammina sulle sue gambe», poiché
persino quando credono di compiere il più decisivo atto di ribellione,
gli uomini non si rendono conto che la Provvidenza sta già traendo il bene
dalla loro malvagità. Non si tratta di negare la libertà umana, ma di spiegare
il sincero ottimismo (la virtù teologale della speranza) che riposa al fondo della filosofia cristiana della
storia. Quella visione che spingeva Agostino a redigere il De Civitate Dei, al tempo in cui confutare il pessimismo irredimibile
legato al crollo dell’Impero Romano d’Occidente, significava sollevare lo
sguardo alla enigmatica trama di Dio nella storia, confusa dal miscuglio
permanente tra Babilonia e Gerusalemme. La mistica Giuliana di Norwich, citata
dal solito Eliot, acutamente ribadiva: «Tutto sarà bene e ogni genere di cosa
sarà bene». Peccato e caduta possono prostrarci o convincerci a rimetterci in
cammino – e Dio sa usare persino i nostri limiti per schiuderci inattesi
orizzonti. Sono i segni del ritorno a Dio che cerchiamo, lenendo nei sacramenti
somministrati dalla Chiesa i dolori temporali e ricordando che è Cristo ad
averci salvato una volta per tutte; noi dobbiamo solo temporeggiare.
«Maneggia l’acciaio il chirurgo ferito
/ che indaga la parte malata; / sotto la mano insanguinata sentiamo / l’arte
pietosa e tagliente di chi guarisce / e scioglie l’enigma del diagramma della
febbre. / La malattia è la nostra sola salute / se obbediamo all’infermiera
morente / la cui cura costante non è di piacere / ma di ricordarci la nostra
maledizione e quella di Adamo, / e che la nostra malattia, per guarire, deve
peggiorare» (T. S. Eliot, East Cocker,
1940).
Pubblicato il 05 ottobre 2015
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