Lo scenario
è quello desertico e desolato di un mondo post-apocalittico in cui
non c’è più cibo per sostentarsi, gli animali sono stati tutti
sterminati da una carestia globale e gli ultimi uomini sopravvissuti
si mangiano fra di loro. Bande organizzate di sanguinari ridotti alla
condizione di bestie senz’anima, spietati e disumani, danno la
caccia agli sventurati vagabondi in cerca di riparo. Questo lo sfondo
della storia narrata in “The Road” (La strada) film uscito nel
2009 e basato sul romanzo omonimo di Cormac McCarthy.
L’aspetto
certamente più disumano e che rende la faccia della terra così
triste e desolata è la completa assenza di bambini. Non solo: quelli
che una volta (forse) erano uomini li cercano bramosamente per cibarsene. Uno scenario davvero agghiacciante,
cinematograficamente ben realizzato, che genera nello spettatore
un’intensa e costante tensione drammatica.
L’analogia
con il mondo d’oggi viene spontanea perlomeno per chi conosce da
vicino la realtà orribile e capillarmente diffusa dell’aborto,
distribuito a piene mani da medici, infermiere ed ostetriche, veri e
propri esecutori dello sterminio degli innocenti che sta
insanguinando la terra e grida vendetta al cospetto di Dio.
Disse una
volta un povero cappuccino di San Giovanni Rotondo: «Il
giorno in cui gli uomini, spaventati dal (come si dice?) boom
demografico, dai danni fisici o dai sacrifici economici, perderanno
l’orrore per l’aborto, sarà un giorno terribile per l’umanità,
perché è proprio quello il giorno in cui dovrebbero dimostrare di
averne orrore».
Già! La perdita dell’orrore, l’insensibilità al male, il
cinismo che ci ha portato a leggere ogni avvenimento della nostra
esistenza entro criteri economici, quantitativi, di convenienza.
Tutto ciò sta portando l’umanità sull’orlo dell’autodistruzione
giacché un mondo che uccide i propri figli è un mondo senza futuro,
un mondo destinato a diventare una “landa di ululati solitari”, dove non si udranno più le squillanti risa di bambini giocosi. Sui
corpicini di milioni di feti abortiti sta emergendo un mondo freddo e
desertificato dove l’avidità degli uomini divora il creato e più
in generale la “bellezza”, che trova il suo culmine nella
creatura umana, capolavoro mirabile : “Ti lodo,
Signore, perché mi hai fatto come un prodigio”(Sal 138, 14).
Tuttavia, parte del mondo “scientifico”, o presunto tale, dopo aver calcato
la strada dell’aborto si sta aprendo all’infanticidio, esito
abominevole, ma perfettamente logico, di un delitto che da oltre
trent’anni è divenuto diritto civile, assodato e inalienabile. Due
ricercatori italiani, Alberto Giubilini e Francesca Minerva, hanno
pubblicato un articolo sulla prestigiosa rivista “Journal
of Medical Ethics” dal titolo “After-birth
abortion: why should the baby live?”
(“Aborto dopo la nascita: perché il bambino dovrebbe vivere?). I
due affermano “Se i criteri come i costi (sociali, psicologici,
economici) per i potenziali genitori sono buone ragioni per avere un
aborto anche quando il feto è sano, se lo status
morale del neonato è lo stesso di quello del bambino e se non ha
alcun valore morale il fatto di essere una persona potenziale, le
stesse ragioni che giustificano l’aborto dovrebbero anche
giustificare l’uccisione della persona potenziale quando è allo
stadio di neonato“. Un discorso perfettamente logico che non dubita
neanche per un secondo che il feto che viene ucciso sia o meno un
essere umano (giacché è un dato scientifico inoppugnabile), ma
aggiunge un tassello ulteriore: se si può uccidere un essere umano
prima del parto per qualsiasi ragione, perché non farlo anche dopo
il parto?
Quello stesso frate cappuccino, che si chiamava Pio, una volta, rivolto ad un tiepido sacerdote che si dimostrava “comprensivo” con le donne che abortivano il frutto del proprio grembo, disse: «Capiresti questo suicidio della razza, se, con l’occhio della ragione, vedessi “la bellezza e la gioia” della terra popolata di vecchi bavosi e sdentati e spopolata di bambini: bruciata come un deserto. Se riflettessi, allora sì che capiresti la duplice gravità dell’aborto: con la limitazione della prole si mutila sempre anche la vita dei genitori».
Quello stesso frate cappuccino, che si chiamava Pio, una volta, rivolto ad un tiepido sacerdote che si dimostrava “comprensivo” con le donne che abortivano il frutto del proprio grembo, disse: «Capiresti questo suicidio della razza, se, con l’occhio della ragione, vedessi “la bellezza e la gioia” della terra popolata di vecchi bavosi e sdentati e spopolata di bambini: bruciata come un deserto. Se riflettessi, allora sì che capiresti la duplice gravità dell’aborto: con la limitazione della prole si mutila sempre anche la vita dei genitori».
Una profezia
che si sta pienamente realizzando e che sembra ben rappresentata in
“The Road”, nel quale, però, qualcosa di positivo “brilla”:
la famiglia. La famiglia è l’unica società in cui i membri si
proteggono l’uno con l’altro, non si “divorano” fra loro, a
patto, ovviamente, che sia fondata sull’amore e il rispetto
reciproco e non sull’egoismo, sul “bene per me”. L’immagine
del padre (Viggo Mortensen) che a costo di privarsi del necessario
protegge il figlio, senza cedere alla fame e alla disperazione,
rappresenta la figura del “vero padre” quello che dà la vita per
i suoi. La paternità viene tratteggiata come lo sforzo virtuoso di
vincere la debolezza e la tentazione perché mai si spenga nel cuore
del figlio “il fuoco” della bontà e dell’amore, di cui i due
(padre e figlio) sono fedeli portatori. Questo perché la famiglia è
il luogo deputato alla custodia della vita umana, dove i “buoni”
non cercano primariamente il proprio interesse ma, nell’unità di
spirito, affrontano coraggiosamente le difficoltà e le sofferenze
che la vita, in fin dei conti, riserva a tutti gli uomini.
La "civiltà" contemporanea è decisa a distruggerla perché per sua
natura la famiglia sfugge al controllo della società, e l’unico
modo per vincerla è corromperne gradualmente l’essenza inserendo la divisione tra l’uomo e la donna (il divorzio), la divisione fra
la donna e suo figlio (l’aborto), la divisione dell’uomo con se
stesso e il proprio corpo (la teoria di “genere”). Con il
risultato che tutte queste “conquiste” non producono
altro che la sterilizzazione dell’umanità ed, entro pochi decenni,
il suo collasso. Solo la famiglia può salvare la società, poiché
solo le famiglie sante, forti, stabili possono opporsi all’ondata
di secolarizzazione e disumanità che vuole ridurre ogni uomo ad un
individuo solo, quindi manipolabile, che come sciacallo vaghi in
cerca di qualcuno da divorare.
Pubblicato il 29 dicembre 2013
Bell'articolo, soprattutto il capoverso sull'infanticidio, però forse un po' troppo apocalittico, poiché, grazie al cielo, mi sembra che siamo ancora ben distanti dallo scenario dipinto in The Road.
RispondiEliminaEdo da Torino
PS: buon anno a CdM!
È proprio quando crediamo di essere ben distanti dal male che esso incombe e ci insegue col fiato sul collo, perché significa che siamo impreparati. Se fossimo preparati, infatti, lo terremmo lontano con la nostra vigilanza.
EliminaFrancesco S.