di Franciscus Pentagrammuli
Sabato 6 Ottobre avrà luogo a Verona il
secondo Colloquio nazionale sulla musica sacra, che avrà fra i relatori anche
il Cardinal Burke (che nel pomeriggio canterà la Messa pontificale nella locale
chiesa dei Padri Filippini), e monsignor Nicola Bux, noto per la sua attività
di divulgazione liturgica a sostegno della linea del Papa Benedetto XVI.
Nell'attesa dell’evento, vogliamo
proporre anche noi, pur entro i nostri ristretti limiti, una riflessione sulla
musica sacra.
Siamo abituati a vedere come nelle nostre
chiese (o nella maggior parte di esse) la musica venga trattata in maniera
utilitaristica e basandosi soprattutto sui gusti (veri o presunti) del
“pubblico” per la scelta del repertorio da eseguire nei sacri riti. Probabilmente, molti dei direttori di
coro, degli “animatori liturgici”, dei cantori o chitarristi, e forse degli
organisti stessi ignorano che la Chiesa, nella persona dei Romani Pontefici, si
è ripetutamente espressa circa la musica sacra: esiste quindi un vero e proprio
“magistero sulla musica sacra”.
Le sue radici affondano nei primi
secoli, già san Paolo ne scrisse, e possiamo credere che ne parlò, e così san
Gregorio Magno, che addirittura riformò e consolidò la musica dei riti romani…
fino ai testi di Benedetto XIV, che ponevano l’accento sulla necessaria dignità
della musica rituale cattolica e, finalmente, al grande Motu proprio di san Pio
X: l’Inter Sollicitudines (sostanzialmente confermato da Pio XII, dal Concilio
Vaticano II, e da Giovanni Paolo II). In esso il santo Pontefice definì
esplicitamente, e con rigore degno di colui che promulgò il Catechismo e diede
inizio alla redazione del Codex Juris Canonici, quali sono i caratteri
necessari, indispensabili, della musica sacra: “[Essa] deve […] possedere nel
grado migliore le qualità che sono proprie della liturgia, e precisamente la
santità e la bontà delle forme, onde sorge spontaneo l’altro suo carattere, che
è l’universalità.” E spiega: “Deve essere santa, e quindi
escludere ogni profanità”, “Deve essere arte vera, non essendo possibile che
altrimenti abbia sull'animo di chi l’ascolta quell'efficacia, che la Chiesa
intende ottenere accogliendo nella sua liturgia l’arte dei suoni” “Ma dovrà
insieme essere universale in questo senso, che pur concedendosi ad ogni nazione
di ammettere nelle composizioni chiesastiche quelle forme particolari che
costituiscono in certo modo il carattere specifico della musica loro propria,
queste però devono essere in tal maniera subordinate ai caratteri generali
della musica sacra, che nessuno di altra nazione all'udirle debba provarne
impressione non buona”.
Stabilisce poi “la seguente legge
generale: tanto una composizione per chiesa è più sacra e liturgica, quanto più
nell'andamento, nella ispirazione e nel sapore si accosta alla melodia
gregoriana, e tanto meno è degna del tempio, quanto più da quel supremo modello
si riconosce difforme”. Ecco quindi che, guidati dal “Dolce
Cristo in terra”, scopriamo dover possedere la musica sacra delle
caratteristiche oggettive, non dipendenti dal gusto o dalla preparazione del
clero, dei musicisti, dell’assemblea..

In essi, il Dottore Angelico riconosce
quali caratteri di ciò che è bello i seguenti tre: la debita proporzione (delle parti fra di loro, e della materia alla
forma), l’integrità e la chiarezza o splendore (secondo la
disposizione e secondo il colore, oggi potremmo dire nitidezza).
Essendo poi la forma a dare anche il
fine alla materia, ecco che si avrà un ultimo carattere necessario alla
bellezza: l’adeguazione allo scopo dell’oggetto (qua ci ricordiamo delle parole
di san Pio X).
Ultimamente, vediamo come i Papi
Giovanni Paolo II e Benedetto XVI abbiano più volte parlato della via
pulchritudinis, indicando la bellezza quale mezzo per la nuova
evangelizzazione; di più, diciamo noi: essa è il mezzo precipuo per la nuova
evangelizzazione ai nostri giorni! Sappiamo infatti come la cultura diffusa
abbia abbandonato al relativismo il vero, quindi il buono, col successivo
rifiuto delle scienza metafisiche e morali, e non sono mancati attacchi anche
violenti al bello.
Sono stati dunque minati tutti i
caratteri ontologici della verità, dell’essere (vorremmo scrivere Verità ed
Essere!). Ma resta ancora al bello una forza
particolare, una ancor viva capacità di prendere dolcemente l’anima dell’uomo e
condurla con sé. Come possiamo non riconoscere come il
bello possa guidare l’uomo a riscoprire le altre proprietà “divine” dell’ente:
il vero e il buono (e non ci siamo dimenticati dell’uno, minacciato oggi dalle
teorie della società e della persona liquide)?
Ecco dunque che un’arte (e, nel nostro
particolare interesse, una musica) sacra veramente bella sia oggi quanto mai
prima necessaria al bene delle anime, e sia quindi un dovere eminente della
Chiesa restaurare la Bellezza nei suoi sacri riti e nella vita cristiana: questo
colloquio veronese può essere un buon passo sulla strada di questa santa opera.
*fra i trascendentali, si riconosce anche res (cosa) e aliquiid (qualche
cosa): il primo significa l'ente in modo assoluto e affermativo, dal punto di
vista dell'essenza, il secondo in maniera relativa e negativo, lo esprime in
quanto distinto dall'altro da sé; non potendosi applicare a Dio Ens in Se
subsistens, questi trascendentali non vengono solitamente citati.
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